Manòglia, le riflessioni folk di Davide Van De Sfroos

Davide Van De Sfroos – Foto Alessio Pizzicanella

Manòglia, in laghée, il dialetto della gente del lago di Como, è la magnolia. Ed è il titolo del lavoro che Davide Van de Sfroos pubblica oggi, 15 ottobre, per per BMG/MyNina in versione vinile, Cd e download, oltre a un vinile colorato in edizione limitata e numerata (nessuna uscita in streaming).

Undici brani per 43 minuti d’ascolto dove il songwriter di Mezzegra racconta con maestria personaggi, siano essi di fantasia come El Mekanik, o veri come Zia Nora, farfalle, boschi, funghi, spore, foglie…

Mi sono letto i testi più volte prima di ascoltare il disco: Davide riesce a creare, in quel magico mix di dialetto e italiano, mondi fantastici dove entri come Alice nel Paese delle Meraviglie e dove tutto non è come sembra. L’ovvio con Van de Sfross diventa stupore, una raffica di vento si trasforma in una carezza liberatoria, le foglie sono punti cardinali in un bosco fitto: Quattro foglie come bandiere/ Quattro foglie come pesci nel vento/ Quattro lacrime della foresta/ Quattro sorrisi della stagione, sussurra in Foglie al Vento, brano che chiude il disco. Continua a leggere

Francesco Bruno: con Onirotree vive la canzone popolare… in jazz

Francesco Bruno – Foto Riccardo Romagnoli

Quando è uscito in formato digitale, un paio di mesi fa, per AlfaMusic Studio (in cd sarà nei negozi il prossimo 16 settembre), ho salutato Onirotree di Francesco Bruno con il prezioso intervento canoro di Silvia Lorenzo, con un moto di grande ammirazione. Francesco, classe 1954, è uno dei nostri grandi chitarristi jazz, un musicista che ha lasciato tracce fondamentali nella nostra musica, una per tutte Voglia ‘e turnà cantata da Teresa de Sio, con cui ebbe una bella e ricca collaborazione. Una carriera intensa che lo ha visto collaborare con molti artisti tra cui Brian EnoRichie Havens. Con il mitico autore di Freedom, ha pubblicato nel 2002 un disco, El Lugar, che vi consiglio di ascoltare. Un lavoro pignolo, meticoloso, come d’altronde è avvezzo l’artista romano.  Continua a leggere

La casa armonica di Valerio Corzani ed Erica Scherl

La musica che cattura l’attenzione e dà emozioni è quella che vive nei piccoli particolari. Basta un accento, un semitono, un effetto. Una sensazione che ho provato fin dalle prime note ascoltando Valerio Corzani ed Erica Scherl, gli Interiors, nel loro ultimo lavoro, Overtones + Overtones Remix.

Il nome che si è dato il duo è quanto mai calzante rispetto alla loro idea di musica e, soprattutto, di questo nuovo album. Interni, che possono essere luoghi fisici o mentali. Luoghi, come li intendeva il filosofo Heidegger nei suoi studi ontotopologici, che coincidono con l’edificare e, dunque, l’abitare. Costruire e mettere a dimora la musica è un’immagine che veste perfettamente in Valerio ed Erica.

Vediamo innanzitutto la costruzione fisica di questo nuovo luogo nei luoghi battezzato Overtones: un doppio album, composto da 14 brani originali, dove il duo si avvale di collaborazioni molto azzeccate, da Luca Andriolo, aka, Swanz the Lonely Cat, autore ed esecutore del testo in More Overtones, Luigi Cinque che suona il sax digitale, il mitico Massimo Martellotta, tastierista dei Calibro 35, il batterista e percussionista Marco Zanotti della Classica Orchestra Afrobeat, le chitarre del polistrumentista Massimiliano Amadori, il clarinettista Gianfranco De Franco e l’ukulele di Camilla Serpieri. Questo il primo disco. Il secondo presenta nove remix dei brani precedenti, realizzati dal gotha dei producer italiani Filoq, Vinx Scorza, Manuel Volpe & Rhabdomantic Orchestra, DLewis e Francesco Colagrande. Ciò a significare che la musica può (e deve) rivivere in molti modi, avere più anime, più punti di vista…

La casa è, dunque, solida, ricca di domotica ma dalle robuste pareti classiche, jazz e contemporanee, dove l’elettronica e il digitale si inseriscono in modo omogeneo. La bravura del duo sta proprio nell’equilibrio tra musica analogica ed elettronica. Una dimora senza spigoli, piena di curve armoniche, come sarebbe piaciuta all’architetto Niemeyer! 

Il pezzo d’apertura di Overtones, Little Lullaby è giustamente il manifesto più evidente di quanto vi sto raccontando: il violino di Erica surfa su onde sonore, mentre il basso “dub” di Valerio scandisce il percorso con profondità assolute, accompagnati da una voce femminile, sciamanica… Il violino tesse melodie anche in More Overtones, con la voce di Luca Swanz Andriolo che ci mette la ruvidezza e il pathos del compianto Mark Lanegan… Grazie per la citazione!

Come faccio sempre, per darvi un’identità il più possibile completa degli artisti e degli album che vi presento, li ho contattati. Ne è uscita una interessante chiacchierata a tre su musica, tendenze, elettronica…

Valerio, in attesa che si colleghi Erica, gran bel disco!
«Grazie! È il quarto del nostro sodalizio (gli altri tre sono Liquid, 2013, Plugged, 2016, ed Escape from The War, 2019, ndr). Anche noi siamo contenti, perché lo sentiamo più maturo, siamo riusciti a calibrare ciò che volevamo fare, poi magari può non piacere lo stesso. La poetica che avevamo sognato sta in equilibrio, sia la parte melodica, sia quei piccoli tocchi di noise che arrivano improvvisi. Il glitch c’è spesso, siamo entrambi fan di Arto Lindsay! Ultimamente nei suoi lavori c’è molta melodia ma poi ti arriva quella sciabolata improvvisa che ti stende».

Parliamo di musica elettronica… Aspetta Valerio! Sta arrivando Erica, giusto in tempo… Dunque, Erica, sei una violinista classica ma sei anche una musicista curiosa che prende volentieri altre strade. Cosa vedete tu e Valerio in questo genere musicale?
Erica: «Sicuramente non si può dire che il violino non sia uno strumento acustico con poche possibilità sonore, però, nello sposarsi con strumenti elettronici quali il basso o altre diavolerie che usa Valerio, mi sono trovata spesso a provare la necessità di avere un mezzo che riuscisse a rendere le sfumature di cui il violino è capace senza rinunciare ad aspetti relativi al volume e alla varietà di suoni prodotti. È stato un desiderio espressivo, poter esplorare una gamma molto ampia di sonorità diverse con un mezzo che mi supportasse e consentisse esplorazioni nelle quali il violino da solo non è tanto adatto. Niente di rockettaro, come c’è in tanti violinisti elettronici, piuttosto la volontà di spingere lo strumento violino verso linguaggi extra classici».
Valerio: «È stato strano, rispetto alla mia storia, anche per me. Negli anni Novanta ero legato molto alla patchanka: quando suonavo nei Mau Mau venivamo chiamati una tribù acustica, l’elettronica la intercettavamo. In realtà, come Erica, sono sempre stato uno profondamente bulimico quanto a musica. Ho ascoltato e ascolto di tutto. Mi sono laureato con una tesi su John Cage, che con l’elettronica ante litteram ha fatto molte cose. Quando abbiamo deciso di costituire il duo, abbiamo subito concordato che l’elettronica andava approfondita meglio, sia per quanto riguardava il basso elettrico sia per l’uso di strumentazioni digitali che aprono un mondo di possibilità, grazie a una tavolozza timbrica infinita. Senza abusarne, però: se usata con attenzione dà grandi opportunità. Inoltre, volevamo impiegarla dal vivo con un approccio analogico. Sul palco suono molti strumenti, l’iPad, l’iPhone, il laptop. Lo faccio manualmente, sia utilizzando alcune app in sostituzione di strumenti che altrimenti non potremmo portarci dietro, sia con app che producono suoni».

Il vostro essere un duo, violino, basso più elettronica vi fa sentire completi o sentite la mancanza di altri elementi?
Valerio: «Hai fatto centro! Perché dal vivo, d’ora in avanti, saremo un trio! Abbiamo aggiunto Gaetano Alfonsi alla batteria che usa gli strumenti come noi, dosando l’elettronica. Soprattutto live, sentivamo l’assenza di un gioco con le dinamiche». 

Il basso chiama la batteria…
Valerio: «In effetti, abbiamo fatto le prove proprio ieri e ora godo! Erica ed io veniamo da esperienze di “live vero”. Per questo, come Interiors, non adoperiamo due vestiti diversi, uno per il disco e un altro per il live. Chi ci ascolta e viene a vederci dal vivo sente le stesse musiche dell’album. Capisco, ogni tanto succede che vai a un concerto di elettronica e vedi sul palco due che sembrano impiegati delle poste, non sai bene cosa stiano facendo, sono dietro ai computer, ogni tanto bevono un po’ di vino bianco, ti fidi… Nel nostro caso si percepisce che stiamo lavorando, suonando per davvero…».
Erica: «Abbiamo solo quattro arti per ciascuno. Se nella vita normale vanno bene, sono pochi per rendere al meglio la tessitura delle nostre composizioni. Abbiamo sentito l’esigenza di avere  un batterista per i motivi che ti diceva Valerio, ma anche perché volevamo godercela un po’ di più. Di questi tempi non è semplicissimo, più si è e meno semplice è viaggiare. Uno in più però va bene!».

Il vostro “ascoltatore tipo”?
Valerio: «Il violino è un piccolo lasciapassare per gente che non ascolterebbe quello che facciamo, ha comunque un appeal. Stiamo sempre molto attenti a collocare la nostra musica nei luoghi adatti. Abbiamo suonato nei festival del cinema sonorizzando documentari, perché la nostra musica si presta bene anche a questo, ci siamo esibiti nella Grotta del Bue Marino a Cala Gononea Chamois in Valle d’Aosta, dove c’è un bellissimo festival, il CHAMOISic Altra Musica in Alta Quota. Ma anche in gallerie d’arte, o in festival Off e non Off che hanno un perimetro d’azione stilistica piuttosto dilatato. Alla fine la gente è diversificata, il target è comunque abbastanza giovanile, anche se, quando abbiamo sonorizzato i documentari e i super8 sperimentali di Derek Jarman o, quello che stiamo preparando ora, Fata Morgana di Herzog, il pubblico è decisamente molto più anziano. Sono coinvolti, vogliono anche loro entrare nel nostro trip!».

A proposito di trip, la vostra è una musica che fa viaggiare. Quando la concepite avete un’idea del luogo dove vorreste collocarla?
Erica: «Siamo viaggiatori molto appassionati, quindi nel momento in cui componiamo è come se tutte le esperienze di viaggio che abbiamo fatto nella nostra vita – e che si spera faremo – decantassero nella musica. Non ci sono collocazioni precise, è come un altrove generico non vuole avere appartenenze particolari, anche se certe atmosfere potrebbero richiamare alla World Music. Auspichiamo che possa essere la sonorizzazione di un bosco di un laghetto di un mare».
Valerio: «Ci sono alcuni pezzi, tipo Walking Wild, che già nel titolo si portano dietro un piccolo passaporto di attitudine nomade. Non è detto che, componendola, volessimo andare in un posto preciso, abbiamo la stessa attitudine nel cercare la natura selvaggia e nel suggerirla attraverso le note. Così come nel nostro primo disco, Liquid, c’era un’attenzione speciale al mondo liquido. Con il brano Blue Darkness e il relativo video, che mostra il tuffo nel lago di un ragazzo in slowmotion, girato dal regista canadese Justin Bolduc-Turpin (con il quale abbiamo vinto un concorso per musiche che sonorizzavano video con oggetto lacustre), non era un lago preciso, poteva essere il padre di tuti i laghi!».

Veniamo al disco: mi ha incuriosito la zona Remix…
Valerio: «Abbiamo tanti amici, molti hanno suonato anche nella prima parte di Overtones. La nostra idea è stata chiedere, a costo di rischiare, di trasformare un nostro brano in qualcosa di nuovo, come se ci fosse uno sguardo su un tuo sguardo. Filoq, per esempio, musicista che stimiamo moltissimo, è anche il responsabile di tutta la parte elettronica dell’Istituto Italiano di Cumbia, progetto nato per volontà di Davide Toffolo (Tre Allegri Ragazzi Morti, ndr), ha reso il nostro pezzo Walking Wild un’altra cosa, completamente diversa, ci piace molto. La parte Remix è molto più variegata e, allo stesso tempo, ci troviamo le tracce del nostro lavoro».
Erica: «È stata una scommessa, come quando tu chiedi a un pittore che apprezzi che ti dipinga un ritratto: può essere che ti faccia cubista oppure molto verosimile, ma alla fine se ti piace l’artista ti piace anche il ritratto…».

Vi è piaciuto tutto del Remix, dunque!
Valerio: «Ci è piaciuto talmente tanto che due pezzi li abbiamo remixati noi. Massimo Martellotta ci aveva mandato, un po’ in extremis, una parte piuttosto lunga per Due di Due, nel disco principale. Non volevamo sprecare il suo lavoro, quindi abbiamo deciso di remixarla puntando quasi esclusivamente sulle tastiere di Massimo».

Com’è il vostro processo creativo?
Valerio: «Quasi sempre nasce da qualcosa che ho “stropicciato” con l’elettronica o con il basso; poi Erica scrive, molto spesso ci aggiunge la melodia principale. Poi lo teniamo per un po’ in brutta copia, registrandolo con l’iPhone, per averlo sempre a portata di mano. Quando ci spostiamo in studio di registrazione – lavoriamo sempre con il nostro tecnico del suono di fiducia, Roberto Passuti – scatta qualcosa di magico e fila tutto liscio, si lavora intensamente, senza intoppi. È successo così per tutti e quattro gli album. In passato ho ricordi di registrazioni di dischi che diventavano dei calvari, si sfaldavano anche band solo per alzare di due tacche il volume di una chitarra elettrica. In questo caso è quasi sempre piatto, in senso buono però!».

Come vedete la musica italiana in questo momento? Tanti bravi artisti sconosciuti e un mainstream senz’anima…
Erica: «Secondo me è una scena estremamente vitale con un sacco di musicisti pazzeschi. Purtroppo, però, lo sai che esistono se te li vai a cercare. È come se ci fosse una sorta di forbice molto larga tra quello che ascolta la maggior parte delle persone e quella che è la realtà della musica italiana, al di là dei generi molto variegati: e cioè, molta qualità e di altissimo livello. Vorrei invitare tutti a non fermarsi alla superficie delle cose, ma a scavare…».
Valerio: «Sono d’accordo con Erica, ho poco da aggiungere, la vorrei lasciare così, perché lei ci ha messo l’afflato positivo. Volendo proprio dire qualcosina in più, una piccola ombra su quello che è successo negli ultimi tempi è che rimangono sì tantissimi artisti nascosti che continuano a produrre, ma ci sono molti altri, anche quelli che arrivano dal cosiddetto mondo indie, che hanno calato le braghe. È come se si fosse abbassata l’asticella della difficoltà d’ascolto, dell’introspezione nei testi, della ricerca nei suoni. È, ovviamente, una scorciatoia che rende! Se me l’aspettavo da alcuni, perché quello è sempre stato il loro mondo, rimane il fatto che c’è un bel plotoncino di gente che ho avuto sempre al mio fianco e che ha ceduto. Ciò mi provoca un piccolo moto di saudade. Mi riaccodo al sentimento entusiastico di Erica che bisogna continuare a essere curiosi, sia noi musicisti, sia i giornalisti che si occupano di musica e soprattutto mettere dei piccoli “shining” nel pubblico, farglieli arrivare, stai sicuro che la gente si lascia attrarre…».

Erica: «Non me l’hai chiesto ma lo dico lo stesso: se dovessi dare un consiglio a musicisti che hanno voglia di fare musica, suggerisco di essere coraggiosi e curiosi, di curare sempre molto la qualità a qualsiasi genere ci si dedichi. Un lavoro ben fatto si riconosce sempre, anche in molta musica mainstream, nonostante il ben fatto non coincida con creativo. Siccome la felicità in quello che si fa è fondamentale, direi di ricercare sempre un cuore nelle cose che si producono».

Interviste: Ilaria Pilar Patassini e la “persona armonica”

Ilaria Pilar Patassini – Foto Paolo Soriani

È da un po’ che mi frulla in testa il significato di “persona armonica”. Affermazione – pertinente – letta su un delicato addio, scritto e pubblicato su Facebook, a David Sassoli, ex Presidente del Parlamento europeo, mancato lo scorso 11 gennaio. L’autrice del post è un’artista brava, colta, bella, una di quelle persone che non sono mai soddisfatte di conoscere, capire, farsi domande. 

Si chiama Ilaria Pilar Patassini, figlia degli anni Settanta, una della generazione di mezzo, con tutti i dubbi, gli interrogativi e la voglia di essere parte attiva della vita. Il concetto di “persona armonica” mi ha colpito per la sua verità, perché in sé, quelle due semplici parole, raccolgono un universo di sfaccettature, tante stelle preordinate alla grandezza, alla bellezza e al senso di infinito. “Armonico” per una musicista come Ilaria è un vero e proprio stile dell’essere. 

Nel settembre del 2019 ha pubblicato Luna in Ariete, album interessante, costruito sul numero tre e sui suoi multipli (ascoltate Nessun tempo si perde!). «Un lavoro di tre anni», mi racconta. «Nel frattempo sono rimasta incinta: non ti esplode solo la pancia, ma tutto quanto!». Così l’ha concepito seguendo la sua gravidanza. Qui Il suono che fa l’Universo, merita! Nove canzoni, che scandiscono, mese dopo mese, l’esperienza dell’attesa. Il disco dura 39 minuti e 39 secondi… All’album, registrato tutto in presa diretta, avrebbero dovuto seguire non solo i live ma anche altri sei videoclip, oltre ai tre realizzati, ma la pandemia, anche in questo caso, ha fatto il suo lavoro. Se tutto andrà bene potrete trovare comunque molte di queste canzoni in un calendario di live auspicati per la prossima stagione estiva e poi ancora in quella invernale. A dicembre dello scorso anno ha pubblicato anche un piccolo tesoro in musica, Ilaria y el Mar, un EP di sei brani, tutti cantati dal vivo, dove si riconnette con la musica dell’emisfero Sud, tango, milonga y pasión, con chitarra, violoncello, viola, violino e con Daniele Di Bonaventura al bandoneon. Ascoltate Los Pájaros Perdidos, coinvolgente brano di Astor Piazzolla…

Mentre scrivo, al solito, mi accompagna la musica. Mi serve per concentrarmi ma anche per nutrirmi. La musica dilata il tempo, lo modifica nella percezione. Ora ho in cuffia l’ultimo lavoro di Ethan Inverson, l’ex pianista e cofondatore dei The Bad Plus, trio jazz americano del Midwest. Alcuni giorni fa Ethan ha pubblicato il suo ultimo lavoro, Every Note Is True in collaborazione con il contrabbassista Larry Grenadier e quel sommo batterista che è Jack DeJohnette

Il titolo dell’album e il progredire dei brani mi ricordano la lunga chiacchierata che ho fatto settimana scorsa con Ilaria. Più di due ore a parlar di musica ma soprattutto di armonia, su cui si fonda la musica (ne discutevano “ennemila” anni fa i filosofi greci da Aristosseno di Taranto a Platone, ai pitagorici) ma sulla quale si dovrebbe anche basare l’esistenza di ognuno di noi… Ci sono parole che per Ilaria sono pietre angolari e che ricorrono spesso durante l’intervista. Biodiversità culturale da contrapporre alla monocoltura, prevenzione (leggi educazione) per diventare persone migliori, dimensione politica anche nella musica, pluralismo contro individualismo, comprensione dell’arte attraverso la sedimentazione della stessa, complessità contro semplicità, compromesso politico, nel senso originale del termine latino, e cioè l’onore di una promessa condivisa… 

Ilaria, partiamo proprio da David Sassoli, persona armonica…
«Sassoli mi ha sempre colpito, perché nella sua vita si è schierato senza mai essere divisivo. Aveva scelto da che parte stare, rispettando sempre l’altro».

È un problema di cultura, che viene da lontano. Oggi, probabilmente, stiamo raccogliendo i cocci di un mondo diverso, dove dominano improvvisazione e individualismo, non armonia ma note singole…
«È un discorso lungo, anche perché se parliamo di musica in senso stretto, oggi si continuano ad ascoltare cose bellissime e lodevoli, ma di fatto, andando indietro negli ultimi trent’anni, l’avvento di una cultura più superficiale, diffusa e cavalcata dalle televisioni commerciali, quell’edonismo innestato nei rapporti economici, quel senso di libertà letto in “faccio quello che mi pare”, ha creato uno sdoganamento dei rapporti sociali, facendo cadere tutti i protocolli sociali e culturali – io, invece, adoro i protocolli! – facendo sì che in Italia si creasse soltanto un’estesa monocoltura. Il terreno s’è inaridito. C’è bisogno di biodiversità in tutto, in natura, nei rapporti sociali e anche nella musica. X Factor non è il male, il problema è che manca tutto il resto».

È un’osservazione che mi hanno fatto molti altri artisti. Ci vorrebbe una coscienza maggiore di chi tiene le redini del Paese, soprattutto dopo due anni di pandemia e restrizioni…
«Ricordi quando Giuseppe Conte in una conferenza stampa, parlando del rilancio e degli aiuti ai lavoratori, se ne uscì con quella frase infelice definendoci “I nostri artisti che ci fanno tanto divertire”? Se chi ci rappresenta è lo specchio di ciò che siamo, la dice lunga su quello che noi stessi pensiamo del ruolo dell’Arte in questo Paese. In tempi diversi, anche una canzone come Fin che la barca va, di Orietta Berti, era un contraltare a qualcosa d’altro che esisteva…».

José Saramago nel suo Ensaio Sobre a Lucidez, 2004 – famosa l’epigrafe: Uivemos, disse o cão (Ululiamo, disse il cane) – poneva domande di non poco conto sulla natura egoista, passiva e indifferente dell’uomo. Come del resto Zygmunt Bauman nella sua società liquida, uniformata, consumista…
«La musica non è esente da questi cambiamenti. Su Spotify puoi ascoltare tutto il possibile, hai il mondo a disposizione. In realtà finisce che non ti fermi su niente e prevalgono gli ascolti uniformati».

Gli algoritmi ti mostrano quello che tu hai cercato, quindi finisci in un loop senza fine…
«Gli artisti che stanno pagando il prezzo più caro siamo noi, quelli della generazione di mezzo, nati nella seconda metà degli anni Settanta. Perché abbiamo la conoscenza di come si faceva musica prima dell’algoritmo ma non abbiamo ancora raggiunto le solide basi di chi ora ha una carriera affermata. Tornando a oggi: il consumo dell’arte è utile quando lo faccio sedimentare, ascolto, vedo, ammiro più volte una canzone, un dipinto, una scultura… Se si è privi di questo processo di elaborazione si va incontro a una precarietà – anche sentimentale – dove non sai mai come comportanti, non sai chi sei, che cosa vuoi…».

E ritorniamo all’armonia, che manca…
«È necessario tendere all’armonia delle parti, avere, cioè, una visione d’insieme di sé e della realtà. Ciò implica una certa complessità – è importante la complessità – mentre oggi la via maestra e più rapida alla soluzione di ogni problema sembra essere la semplificazione estrema, perché la nostra capacità di concentrazione è sempre più frammentata, ci stanchiamo presto di elaborare. Il punto è che il pensiero è “faticoso” per sua natura, così come la democrazia o i rapporti personali, costruire è faticoso perché lo è spesso il comprendere, ma se gettiamo la spugna, se non restiamo “allenati” alla comprensione ci si atrofizzeranno sinapsi e muscoli pensanti, vale a dire un disastro! Ricordo che da bambina mi piaceva ascoltare Madonna – con somma disperazione dei miei – e mi rendo conto che oggi anche una canzone come Live to Tell  (dall’album True Blue, 1986, ndr) non passerebbe mai in radio: troppo articolato, troppo lunga, troppo complessa, figuriamoci che fine farebbe una cosa come The Wall…».

Tra i nuovi, quali artisti ti piacciono dell’urban mainstream?
«Mahmood e Madame sono due artisti senza ombra di dubbio, sono riusciti a fare tesoro del cambiamento digitale senza perdere contatto e consapevolezza delle radici o dell’importanza della preparazione tecnica, hanno buoni testi, eppure anche loro cadono in quello che oggi è il vero tema: nelle loro parole non esiste il plurale. La musica è costruita in dimensioni private, creata e racchiusa nella propria cameretta. Non si può imputare loro una colpa, abbiamo grosse responsabilità nei loro confronti ma di fatto esiste una grande povertà di argomenti e ogni cosa tende a un privato condiviso, solipsistico. Pensa che apprensione ora, che si sta parlando sempre più di Metaverso, un altro te, atrofizzato, privo di olfatto e di tatto. Non è possibile staccarsi dai sensi biologici. Fa paura pensare a un futuro vissuto da avatar».

Insegni canto a Officina Pasolini, un buon osservatorio sui giovani…
«Attraverso il mio laboratorio ho un contatto diretto con dei ragazzi giovani, a volte giovanissimi, ci sono talenti bellissimi. Poi penso a mio figlio, è molto piccolo, come sarà il mondo quando crescerà? Di sicuro mi rifiuterò di consultare il registro elettronico a scuola. Bisogna responsabilizzare i ragazzi. Devono sapere che se non vanno a lezione o per qualsiasi loro azione, ci sono conseguenze. Non si può farli vivere prevedendo tutte le loro esperienze, buone o cattive. Da una persona deresponsabilizzata cosa puoi pretendere?».

Dovremmo insegnare molte cose e in maniera diversa alle nuove generazioni…
«La musica e l’arte possono e devono essere usate anche come cura e prevenzione, sono un alfabeto essenziale per la salute psicofisica nella crescita dell’essere umano. In tutte le scuole, soprattutto in quei luoghi dove i disagi sociali sono molto forti, si dovrebbe costituire un coro di voci bianche: per tornare al concetto di persona armonica, Sassoli non veniva da un quartiere periferico di Roma, tutt’altro, ma ha avuto la possibilità di fare esperienze, di elaborare le critiche, di crearsi una conoscenza supportata…».

Ilaria Pilar Patassini – Foto Paolo Soriani

Veniamo a te: tornerai a fare concerti?
«Se tutto va come deve andare, sì! Ad aprile mi metterò finalmente in viaggio. Ogni volta che succede per me è elettrizzante, ritorno ad avere 8 anni, pronta a scoprire il mondo. Entro in contatto con tanta gente, ma cantare per mille, cento, dieci o due persone mi dà la stessa gioia. Poi sì, visto il periodo, non posso pretendere che ritorni tutto come prima. Si tratterà, probabilmente, di usare un compromesso, altra parola che mi piace perché la politica si fa con i compromessi, intesi nel loro originario significato, onorare una promessa condivisa per conservare quella tensione verso l’armonia. Stiamo mettendo a punto le date. Sarò in duo con il pianista Roberto Tarenzi, un recital dove ci sarà spazio per canzoni e suoni che amo, dal jazz alla canzone d’autore ».

Dove hai iniziato a cantare?
«Ho frequentato la Scuola Popolare di Musica del Testaccio a Roma, avevo 16 anni. Mi dicevano che essendo molto versatile avrei potuto fare tutto, jazz, classica, musica barocca, brasiliana: sembrava divertente invece è stata una “croce” con cui mi sono pacificata da poco. Mi sono iscritta successivamente al Conservatorio e mi sono laureata in canto, anni dopo ho preso un altra laurea in Musica da Camera. Sono una “schizofrenica”, ho tante personalità, faccio tante cose, canto, compongo, sto preparando per la televisione svizzera uno speciale su Pierpaolo Pasolini (il prossimo 5 marzo sarà il centenario della nascita, ndr), dove canterò due canzoni con testi firmati dello stesso Pasolini e una sorta di monologo-spoken word di Giovanna Marini, sarò nei prossimi giorni su Radio1, a Stereonotte Brasil, insieme a Max de Tomassi a parlare di Elza Soares (mancata a 92 anni il 22 gennaio scorso, ndr), una donna meravigliosa, lei sì una vera persona armonica, ha vissuto cinque vite!».

Che musica ascolti?
«Tanta, ma uso lo stesso metro dei libri, se le prime note (o pagine) non mi piacciono non mi impongo l’ascolto (lettura) fino in fondo. Se mi “acchiappa” ascolto, riascolto e poi ancora e ancora… Tra gli artisti che reputo interessanti ci sono Fulminacci, Giovanni Truppi – come non volergli bene- , La Rappresentante di Lista e poi – tra i tesori ancora un pò nascosti – il siciliano Giuseppe Di Bella, la veneta Erica Boschiero. Ma riascolto anche tantissima musica, gli ultimi riascolti che ho fatto sono stati la musica meravigliosa di Henry Mancini e alcuni dischi di Cassandra Wilson. Poi capita anche che ascolti per una settimana di fila il Winterreise di Schubert. L’importante è che quella musica, quell’artista mi fornisca un punto di vista diverso sul mondo, che lo rende tale. L’artista vede quello che gli altri non vedono. Ricordo che, un milione di anni fa, un’altra era geologica, partecipai alle selezioni per Area Sanremo. Come cover portavo C’è Tempo di Ivano Fossati. Mi sentivo fuori contesto in questo circo Barnum dove regnava una grande confusione. L’unica persona con cui legai fu un ragazzo alto che camminava ciondolando, vestito in modo strano. Mi disse che aveva cucito lui stesso quello che indossava. Mi chiese quale canzone stessi portando. Gli risposi. Domandai anch’io e lui mi disse: “Tanti Auguri, modulato in varie tonalità”. Lo ascoltai da dietro le quinte e trovai la sua esibizione geniale. Rimasi sgomenta non tanto perché non presero me ma perché non scelsero lui».

Interviste: Claudio Fasoli, il jazz e la cura per l’armonia

La teoria della spugna, ma anche la pratica dell’uvaggio e la pazienza dell’ascolto. Da un’intervista, generalmente, si impara sempre qualcosa. Ti fissi dei punti fermi, delle sensazioni che poi ti riservi di approfondire. Ma, raramente, ti segnano. Nella mia – ormai – lunga vita prestata al giornalismo ho parlato e scritto di centinaia di persone. Ma vi confesso che solo tre mi sono rimaste impresse a distanza di anni, una dall’altra.

La prima è stata con lo scrittore brasiliano Jorge Amado, che mi ha parlato della sua Bahia, la seconda con un altro brasiliano immenso, l’architetto Oscar Niemeyer, la terza oggi, con Claudio Fasoli, compositore, sassofonista, uno dei miti del jazz. Il motivo della mia chiamata a Claudio è stato un premio prestigioso che ha vinto a gennaio: il miglior disco italiano del 2021, con Next, assegnatogli dalla rivista Musica Jazz nel suo annuale “award” Top Jazz. Un premio importante perché il lavoro di quest’album – tra poco ne parlerò più approfonditamente – premia la ricerca oltre che la qualità.

Torno un attimo indietro, a Niemeyer. L’ho intervistato nel suo studio a Rio de Janeiro, a Copacabana, una calda mattina di fine primavera, con il cielo azzurro terso e il sole che rendeva l’oceano scintillante. Di lì a un mese avrebbe compiuto 100 anni. Nel suo ufficio mi colpirono tre cose, un cavaquinho, che lui stesso suonava, una foto in bianco e nero raffigurante tre donne nude, distese (rappresentavano il flessuoso panorama di Rio, ma anche la fissazione dell’architetto per le linee curve) e un enorme televisore che cozzava con la stanza piccola, raccolta. Lì il geniale professionista che disegnò Brasília e lasciò le sue tracce in tutto il mondo, Italia inclusa, componeva la sua arte. Un anziano signore con una creatività fanciullesca accompagnata da una saggezza dovuta ad anni d’esperienza sul campo, tracciava con il carboncino sulla parete che faceva imbiancare ogni mese, veloci linee che guardavano il futuro, spazi che nascevano modellando il cemento, curvandolo, rendendolo armonico con la natura circostante, grazie anche a giochi d’archi e d’acqua e a soluzioni estreme. L’architettura come mezzo per diffondere cultura e bellezza, aiutare la gente comune a guardare oltre i propri limiti (tempo, censo, educazione) e le difficoltà della vita.

Parlare con Claudio Fasoli mi ha ricordato proprio tutto questo. Nonostante suoni da anni, il musicista continua a ridisegnare il pentagramma con la sua musica intuitivamente fresca, guardando al futuro, cercando di non ripetersi, creando suoni diversi… Fare arte e cultura, appunto…

Ho iniziato ad apprezzare Fasoli, poco più che adolescente, negli anni Settanta quando faceva parte di quella band, per me mitica, che furono i Perigeo. Ricordate Azimut? Era il 1972. E anche Abbiamo tutti un Blues da piangere (1973), o La Valle dei Templi (1975). Una band che sancì l’inizio della fusion in Italia. Certo, c’erano anche gli Area, come mi fa notare lo stesso musicista. Ma il sax di Claudio, le tastiere di Franco d’Andrea, la chitarra elettrica di Tony Sidney, il basso di Giovanni Tommaso e la batteria di Bruno Biriaco sono un capitolo importante della musica d’avanguardia italiana.

Per questo ho voluto intervistare Fasoli. Milanese d’adozione e veneziano di nascita racchiude l’essenza delle due città, la prima seria, riflessiva, intraprendente, rispettosa dei tempi e dei silenzi, la seconda aperta da sempre alle contaminazioni, elegante, leggiadra. Riunire armonia ed efficenza è una fortuna per chi la sa cogliere…

Ultima precisazione prima di leggere l’intervista: in Next, disco pubblicato dalla Abeat Records il 5 agosto dello scorso anno, che vi raccomando di ascoltare attentamente perché entra poco a poco, sottilmente persuasivo, per poi conquistare, Claudio ha dei meravigliosi compagni di viaggio: il chitarrista Simone Massaron, il contrabbassista Tito Mangialajo Rantzer e il batterista Stefano Grasso, tutti milanesi. Un quartetto incredibile…

Claudio, partiamo dal Top Jazz per Next, miglior disco 2021…
«È un riconoscimento importante, che dà soddisfazioni, perché indica che abbiamo intrapreso una strada giusta, riconosciuta e riconoscibile. Un premio apprezzato visto che viene assegnato da una giuria composta da critici specializzati».

Un lavoro dove proponi forme innovative nel linguaggio jazz.
«Seguo la mia curiosità. Per me era importante riuscire a realizzare un progetto con una realtà sonora caratterizzata da suoni diversi da quelli fatti finora. Fissare un’idea di progetto aprendo una nuova strada rispetto alle ultime produzioni. Questo non vuol dire che abbia chiuso con le esperienze precedenti. Next è un disco fondamentale per verificare il mio lavoro».

Una prova del tuo “Inner Sound”, il suono interiore di cui parli spesso? (Il musicista ha pubblicato anche un libro sul tema, Inner sounds nell’orbita del jazz e della musica libera, 2016, oltre a un album, Inner Sounds, dello stesso anno, con il Double Quartet, ndr)…
«È l’idea giusta. Il musicista jazz, che ha la responsabilità e l’opportunità di caratterizzare la sua musica, lo fa in base ai suoi ascolti. Deve comportarsi come una spugna, e cioè assorbire, ascoltare, tanto e di tutto, partendo dalla musica classica. L’ascolto è importante, perché solo così si ha la possibilità di ampliare le possibilità espressive. Inner Sound significa anche comportarsi come un bravo enologo, saper dosare uve diverse e miscelarle in una botte dove l’uvaggio riposerà per diventare un’altra cosa, ricca, intrigante, soprattutto diversa. Senza il primo passo non ci sarà il secondo. Se ascolti King Oliver, Chopin, Debussy, Keith Jarret, Jan Garbarek e Miles Davis otterrai di sicuro un suono che non è quello dei singoli musicisti ma un altro, elaborato dalla tua conoscenza e creatività».

Buona parte del tuo lavoro, dunque, è ascoltare…
«Dedico molto tempo, perché la musica è fatta di tante cose, entri in contatto con varie esperienze. Non è detto che tutto ciò che si ascolta sia necessariamente buono o apprezzato».

Scivolo sui ricordi, tenendo il tema Inner Sound: i Perigeo sono stati una delle band che, negli anni Settanta, hanno contribuito ad accendere la mia passione per la musica. Siete stati i primi in Italia a inserire il concetto di Fusion…
«Quello che caratterizzava i Perigeo era l’uso del rock come elemento ritmico in un’architettura  jazzistica. Non facevamo jazz ortodosso, era piuttosto la ricerca di qualcosa di nuovo, ma il linguaggio dei Perigeo era jazzistico. Non eravamo i soli, anche gli Area lavoravano più o meno in quel senso».

Elementi ritmici presi da hip hop o rap non sono nelle tue corde?
«Herbie Hancock ha spesso usato questo materiale con risultati più o meno discutibili. Non sono nelle mie corde, non li ho mai studiati seriamente e, a dire il vero, non interessano alla maggior parte dei musicisti jazz, sia americani sia europei».

Ciò significa che…
«Nella mia musica cerco di essere integerrimo. Preferisco rispettare le mie valenze facendo musica onesta che ha in sé delle verità. Non faccio musica per gli altri, non seguo le mode per vendere. È una musica autentica, vera. Pop e Hip Hop sono generi che non conosco e non sento il bisogno di approfondire. Sarebbe come chiedere a Debussy perché non ascolta Stravinskij. Ti confesso che tanti ritmi africani non li ho coltivati a lungo. Sono più per la cura dell’armonia e della melodia».

Come nascono le tue composizioni?
«(ride, ndr) Mi hanno fatto addirittura un docufilm (Claudio Fasoli’s Innersounds di Angelo Poli e Carlodavid Mauri, 2018, ndr). In tempi normali, in modo del tutto occasionale. Sono un po’ evasivo. Ogni giorni mi assalgono tante idee, certe volte, per strada, mi viene in mente un brano perfettamente congegnato. Se trovo qualcosa su cui scrivere me lo appunto, altrimenti, dopo dieci minuti me lo sono già dimenticato. Quando, invece, ho bisogno di comporre perché non ho musica pronta, mi metto a strimpellare al pianoforte… Recentemente ho trovato un faldone di appunti dove avevo già preparato alcuni brani completi, che mi ero totalmente scordato di aver scritto. Due di questi li ho uniti in un unico brano, Mix, che ho pubblicato su Next».

Com’è il tuo rapporto con la musica elettronica?
«Negli ultimi dischi ho usato solo strumenti fisici, ma la trovo estremamente scenografica, evocativa, seduttiva, sensazioni che non necessariamente gli strumenti normali sanno trasmettere. Usare l’elettronica per me è come imparare una lingua straniera: vieni a conoscenza di altri mondi sonori e amplii, così, le tue possibilità. Il jazz è il mio italiano, ma posso imparare il mio francese, il mio russo, che è l’elettronica».

Il jazz è un po’ come l’Esperanto, un insieme di lingue diverse…
«Di bello ha la disponibilità ad aprire la mente a ogni tipo di esperienza e rendere “jazz” ciò che non lo è. Se ascolti Wayne Shorter ci trovi Chopin, Debussy, la cultura della musica in senso lato. Il jazz ha sempre assorbito e/o arricchito, è sempre disponibile all’apertura, un linguaggio straordinario».

Però non è di massa. È per pochi privilegiati?
«Il Jazz è una musica di nicchia, ma non per sua scelta. Non viene presentato come meriterebbe, è praticamente uno sconosciuto, come la musica contemporanea. La verità è che non lo si fa mai ascoltare. Il jazz esiste nei vinili, nei Cd, ma non nelle radio. Non ci sono spettacoli diffusi. Fanno ascoltare il gospel passandolo per jazz».

Perché, secondo te?
«Per lo stesso motivo per cui in Italia non esiste che ti vedi al cinema un film in lingua originale. Non ci abituiamo a sentire suoni e parole pronunciati in maniera diversa dalla nostra. Dovremmo, invece, addestrarci ad ascoltare altre lingue. Lo stesso vale per il jazz. È una questione culturale e un’emarginazione razziale, vale anche per la musica classica: le poche volte che viene trasmessa alla radio o in televisione, se non sei avvezzo ad ascoltarla, cambi subito canale, reputandola noiosa! Abituandosi a sentirla, come fai con una lingua straniera, entri nel suono, la capisci, la riconosci, la acquisisci come linguaggio. Se i mezzi audiovisivi fanno ascoltare solo il festival di Sanremo, fatto bene non lo metto in dubbio, ma pompato solo per scopi commerciali, si crea di fatto una discriminazione, impedendo a molte persone di ampliare i propri orizzonti culturali. Il risultato è che c’è un grande timore ad ascoltare ciò che è diverso dal mainstream perché è ignoto, e l’ignoto spaventa».

Come ti sei avvicinato alla musica?
«Nell’infanzia e in gioventù sono sempre stato immerso nella musica. Ai tempi, la radio trasmetteva molta più musica classica di oggi. Ho ascoltato anche arrangiamenti di orchestre che mimavano il jazz. Poi… mi sono innamorato del sassofono. Ho vissuto cinque anni ascoltando solo Lee Konitz. Mi piaceva anche Charlie Parker, ma Konitz aveva un linguaggio e un suono proprio, una sua identità. Geni, erano dei geni, gente che inventava cose che non esistevano».

Quindi, tornando alle “lingue straniere”, questo analfabetismo di ritorno è dovuto a una “settorialità” commerciale dei mezzi di comunicazione?
«Se trasmetti un concerto di Keith Jarret o il bellissimo docufilm su Michel Petrucciani (Body&Soul, 2011, ndr) alle 2:30 del mattino, di fatto impedisci di approfondire e imparare. Il Jazz non viene fatto conoscere. Era così anche negli anni Novanta nei Conservatori, quando insegnavo composizione jazz… Avevano aperto opportunisticamente le porte al jazz, ma, in realtà, questo veniva ostacolato. Poi c’erano anche invidie accademiche: io avevo 12 allievi e facevo lezioni singole di un’ora, altri docenti avevano un solo alunno… Oggi abbiamo Stefano Bollani che, nei suoi programmi televisivi, tenta di proporre il jazz come può. Per il resto, silenzio assoluto».

Ultima domanda: ti ha mai attratto la bossanova?
«La musica brasiliana mi piace tantissimo, mi commuovo ogni volta che ascolto quel capolavoro di Tom Jobim che è Retrato em Branco e Preto. È devastante la bellezza di quella musica che Stan Getz ha poi diffuso negli Stati Uniti. È un genere con grandi testi, un ritmo intelligente, una bella armonia. Jobim e Gilberto sono stati musicisti incredibili. E Ivan Lins è… straordinario!».

Interviste: Davide Zilli e il suo swing da… psicanalisi

Davide Zilli – Foto Laila Pozzo

Continua il mio viaggio tra i cantautori italiani, ne troverete altri in questo 2022. Questo volta vi parlo di Davide Zilli, 44 anni, piacentino di nascita ora a Parma. Un diploma al Conservatorio di Milano in pianoforte, una laurea in lettere a Pavia e una carriera divisa tra insegnamento e musica. Di mattina è professore di lettere e storia, la sera un musicista (con predilezione per jazz e swing), cantautore graffiante e divertente.

Il 21 gennaio scorso ha pubblicato, a sette anni dal suo ultimo lavoro, Il Congiuntivo se ne va, Psicanaliswing, otto brani scanditi da swing, pop e anche “liscio” con la Mirko Casadei Orchestra (ne Il Complottista). Insomma un lavoro intrigante quanto basta per ascoltarlo. Garantisco che non riuscirete a stare fermi, verrete colti da una voglia irrefrenabile di ballare, nella migliore teoria di Gianluca Tramontana, musicista e giornalista newyorkese d’adozione che, parlando del Changuï cubano, mi disse: «La musica è fatta per ballare, se ti fa muovere anche solo un piede, vuol dire che ha raggiunto il suo scopo». Oltre a quella di Casadei ci sono le collaborazioni di Paolo Rossi ne L’Amico Ricco, e delle Sorelle Marinetti in Psicanaliswing, canzone che apre il disco omonimo.

Otto fotografie che parlano delle paure che divorano come un virus l’italiano medio. Cantautorato, swing e anche Cabaret… C’è chi va in analisi per restarci una vita e chi ha il terrore dell’aereo (Icaro qua, Icaro là: Quanto Modugno che ci vuole per volare? si domanda Davide). Ma anche chi si fida de L’Amico Ricco (Cosa si può chiedere alla Madonna Addolorata? Un fido!), interpretato magistralmente in duo con Paolo Rossi e chi ha il terrore di tutto (Cinque Miliardi: Tra cinque miliardi di anni il Sole ci divorerà, che bastardo!… saremo due atomi nella galassia… con una degna conclusione: Fate l’amore non fate la Scienza! Il racconto, che di surreale ha ben poco, contiene riflessioni, come su La cena di classe, uno dei dilemmi di tutti, su coloro vedono complotti dappertutto (Il Complottista), ironico profilo del social-allarmista, a tempo di cha cha cha, e chi raggiunge l’apice del precariato, l’umiliazione più profonda, in Auto-Erotismo

Episodi di vita comune, brevi racconti caustici e fulminanti, tra il filosofico e il cabaret. Storie di precariato, di aspettative, di luoghi comuni, scritte con un linguaggio attento e leggero, ironico e graffiante, mentre l’orchestra pompa note su note, decollando (per usare un l’indimenticabile gerundio di Paolo Conte) e galvanizzando l’attenzione.

Stasera Davide presenterà Psicanaliswing al Blue Note di Milano con il suo gruppo storico, i Jazzabbestia.

Doppia vita: musica e insegnamento. Quale preferisci?
«Non ho mai voluto scegliere una o l’altro. Mi piacciono entrambi e molto. Fare due lavori così implica un sacrificio: dormire poco. C’è voluto del tempo per adattarmi e ormai non ci faccio più caso. Tornare alla tre del mattino dopo un concerto ed essere in classe alle 8 per parlare di Dante richiede allenamento! E poi la musica mi aiuta molto anche a scuola, i versi di una canzone e quelli di una poesia non sono poi così distanti nella loro costruzione».

Ti sei diplomato al Conservatorio di Milano in pianoforte… come hai scelto la strada del cantautorato?
«Ho un impianto classico, ho suonato musica classica per anni. Poi mi sono avvicinato al jazz, mi incuriosiva, l’ho studiato, ma non sono un jazzista puro. Mi piace contaminarlo con swing e pop, pur conservando molte delle sue soluzioni. Prendi, ad esempio, Psicanaliswing: ho inserito il pop delle Sorelle Marinetti in uno swing con base più elettronica. Sono diventato cantautore perché ho scoperto di avere anche una voce (ride, ndr) e di poterla usare per raccontare delle storie…».

I testi riflettono molto le paranoie di questi ultimi due anni di Covid…
«In realtà li ho scritti prima di tutto questo, nel 2019. Sono vizi e comportamenti che ci portiamo dietro da sempre ma che la pandemia ha aumentato. Prendi ad esempio, Italiano all’estero, parla della fuga dei cervelli, o Il Complottista, testo nato dall’idea di tutti quei frequentatori social che producono post su post nei quali vedono macchinazioni ovunque. Ho pensato alle vite di questi che passano il loro tempo costruendo grandi cospirazioni, e me li sono immaginati quando si innamorano. Cosa potrà mai succedere? Andranno in cortocircuito?».

Davide Zilli in concerto – Foto Leonardo Ranzuglia

Mi è piaciuta l’ultima traccia del disco, Auto-Erotismo, musicalmente la più “jazz” di tutte. Parlare di “camporella” riporta alla gioventù con tanti sogni e pochi soldi in tasca…
«In un mondo dove tutto è così precario, anche l’amore lo diventa. Il precariato amoroso è il punto più triste, estremo di una vita senza sicurezze, soprattutto economiche… vissuto in una piccola Punto. (Un giorno avremo anche il lusso di dormire in uno spazio più grande di un sedile…, canta Davide, ndr)».

Da insegnante e musicista: cosa pensi della musica mainstream, quella che ascoltano i ragazzi oggi?
«Se parli del rap, della trap, spesso ci sono testi ricchi di riferimenti culturali che i ragazzi ascoltano ma a volte non capiscono. Prendi Salmo, lui è uno davvero bravo, in 1984 parla di Craxi e fa riferimenti a film usciti negli anni Novanta, come Trainspotting. Con i miei studenti ho letto e commentato il testo in classe. Quanto al mainstream: lo fa la tecnologia. Oggi con Spotify puoi ascoltare di tutto, molto più facile che andare in un negozio di dischi come si faceva un tempo. Ascolti per qualche secondo, poi passi ad altro, muovendoti orizzontalmente e non verticalmente. I ragazzi mi stupiscono perché, nonostante questa fruizione convulsa, scelgono i loro brani e li raccolgono in playlist. Grazie a queste mi hanno fatto scoprire artisti interessanti. La musica che ascoltano si basa tutta sul ritmo, la melodia praticamente non esiste. Vedi per esempio Young Signorino, ha testi che ti catturano seppur nella sua totale follia…».

Quali sono i tuoi ascolti?
«La musica italiana l’ho scoperta tardissimo, sono sempre stato attratto da autori di lingua inglese, Elvis Costello, Randy Newman, Joe Jackson. Mi piacciono molto, li adoro, i Twenty One Pilots, ma anche Stromae e The Weeknd…».

Quando ti sei innamorato dello Swing?
«L’ho scoperto per caso all’università. Allora suonavo il pianoforte, musica classica, e anche in una cover band che faceva molto punk… ero schizzato! Poi un amico d’università mi ha fatto ascoltare un disco, Jazz a Mezzanotte, e lì ho scoperto In a Sentimental Mood cantato da Ella Fitzgerald. È stato un colpo di fulmine, si è aperto un mondo. Poi sono approdato, inevitabilmente, anche allo Swing».

Davide “psicanalista” a Milano – Foto Laila Pozzo

Stasera al Blue Note ti esibirai con i Jazzabbestia…
«Suoniamo insieme da anni e siamo grandi amici. Sono Gianni Satta, trombettista, Alessandro Cassani, bassista, e Alberto Venturini, batterista».

Hai stretto anche legami con il Cabaret…
«Mi sono avvicinato a questo mondo per caso, mentre cercavo locali dove andare a suonare. Ho iniziato al Circolo Arci Cicco Simonetta di Milano, dove si faceva del gran Cabaret. È diventato la mia casa per un periodo, ho conosciuto molti artisti e, frequentandoli, sono stato sicuramente influenzato da loro. Mi piaceva – e secondo me è una cosa bellissima – lo scambio continuo tra il palco e il pubblico. Quindi, metto del Cabaret nel cantautorato!».

Cosa ti aspetti da Psicanaliswing?
«Di contribuire a far stare bene le persone. Che chi mi ascolta, pensi: “Che bello, mi ha sollevato la giornata!”. Credo sia la ricompensa più grande. Sono uno pignolo, lungo a scrivere perché sto attento a testo e musica, voglio che siano il più possibile perfette. Il lockdown da questo punto di vista mi è servito perché, grazie a mio figlio che ha tre anni, mi sono avvicinato al gioco, imparandone il vero significato. Così, per la prima volta, mi sono divertito a fare dell’instant music, scrivendo un pezzo su Giuseppe Conte e uno su Mario Draghi!».

“Tango Macondo”, una storia fantastica a suon di folklore

 

Sono stato al Teatro Carcano di Milano a vedere Tango Macondo, favola ricca di fantasia, cuore e musica di Giorgio Gallione, prodotto dal Teatro Stabile di Bolzano, con le musiche (e la presenza sul palco) di Paolo Fresu (flicorno e tromba), Daniele di Bonaventura (bandoneon)  e un incredibile Pierpaolo Vacca (organetto).

Ispirato al libro di Salvatore Niffoi Il Venditore di Metafore (Giunti, 2017), più che una classica piece teatrale è una epica, fantastica, spettacolare narrazione, grazie alle scenografie di Marcello Chiarenza, alla bravura degli interpreti, personaggi che si “rubano” la parola senza interagire tra di loro, diventando narratori di un vorticoso e audace racconto che cattura, stimolando la parte fanciullesca del pubblico. Ugo Dighero, Rosanna Naddeo e Paolo Li Volsi sono i felici interpreti mentre Luca Alberti, Alice Pan, Valentina Squarzoni e Francesca Zaccaria, del DEOS, il Danse Ensemble Opera Studio di Genova, i danzatori.

Tutti sul palco, attori, musicisti, ballerini a ricreare una storia che parte da Mamoiada in Sardegna (il paese del Carnevale e dei Mamutones) e finisce in Argentina in un villaggio che Mataforu, assieme all’amore della sua vita, Anzelina Bisocciu, costruiscono e chiamano Macondo (il riferimento al paese inventato di Gabriel García Márquez in Cent’anni di Solitudine, aumenta nello spettatore i desideri di miti, terre lontane, avventure…). In questo mondo parallelo dove si alternano risate e tragedia, ci sono i tre musicisti, pilastri immobili a costituire un triangolo narrativo ed evocativo. Il flicorno e la tromba di Paolo Fresu fanno da collante all’organetto di Pierpaolo Vacca e al bandoneon di Daniele di Bonaventura.

Ora che vi ho raccontato il mio spettacolo (vivendo un’ora e mezza nel fantasy ogni singolo spettatore ne esce con una sua versione di quanto visto e sentito), faccio un breve approfondimento su una terra a me più familiare, la musica, parlando del disco che è uscito parallelamente alla piece teatrale e che porta lo stesso titolo, Tango Macondo, uscito per la Tŭk Music. L’occasione per i tre musicisti di eseguire i temi dello spettacolo, con ampi spazi per il folklore sardo, e includere anche brani ampiamente codificati del tango argentino. L’intelligenza di Fresu, artefice dell’operazione, è quella di aver inserito tre perle rare in questa collana di note, sia per la loro bellezza sia per le interpreti scelte, tutte italiane.

La prima in ordine di ascolto è Alguien Le Dice Al Tango, brano di Astor Piazzolla su testo di Jorge Luis Borges, interpretata da Malika Ayane; la seconda El Día Que Me Quieras, scritta da Carlos Gardel nel 1934 su un testo del giornalista e drammaturgo Alfredo Le Pera del 1919, cantata da Tosca (a proposito: se siete a Milano l’8 novembre, andate ad ascoltarla al Teatro Parenti, dove porterà in scena il suo ultimo album, Morabeza, con la direzione artistica di Joe Barbieri, uscito nel 2020 e per il quale ha vinto due targhe Tenco,). La terza è una incredibile versione di Volver, brano composto sempre da Gardel e sempre nel 1934 con le parole di Le Pera, eseguita da una cristallina Elisa. Da ascoltare e riascoltare. Buon weekend a tutti…

Canzoni inossidabili: Year Of The Cat

Ci sono canzoni che sfidano i tempi e sai che, prima o poi, in una sorta di timing affidato al caso, ritornano, appiccandosi alla tua vita. Ti rimangono attaccate e, quando la radio le trasmette, ti sembra che il tempo non sia passato per nulla dalla prima volta che le hai sentite. Credo che Year Of The Cat, dello scozzese Al Stewart, dall’omonimo album pubblicato nel 1976, sia una di queste. Potrei anche citarvi Baker Street di Gerry Rafferty da City City del 1978… Anche lui Scottish, anche se aveva madre Irish, cattolica, entrambi interpreti di un folk rock elaborato. Rafferty morì alcolizzato dieci anni fa.

Non so se ve la siete mai posta, ma la domanda viene spontanea, come la curiosità: che fine ha fatto Al Stewart? La maggior parte di noi lo ricorda solo per Years of The Cat, la canzone. L’album ha festeggiato i 45 anni di uscita con una riedizione del 30 aprile scorso in formato box set, dove sono contenuti anche pezzi registrati dal vivo al Paramount Theatre di Seattle nel 1976.

All’epoca avevo 15 anni e quel brano che conteneva tanti brani, che cambiava pelle passando dall’orchestra al violino di Bobby Bruce, dalla chitarra elettrica very rock di Peter White al sax smooth di Phil Kenzie in una lunga e appassionata cavalcata strumentale, mi aveva lasciato il segno. Allora mi destreggiavo tra i cantautori italian e Bob Dylan, i Pink Floyd, i Led Zeppellin, i Deep Purple e gli Inti-Illimani (l’album Inti-Illimani 2, La Nueva Canción Chilena, uscito nel 1976 che conteneva El pueblo unido jamás será vencido).

Il folk singer con la passione per la storia e i racconti fantastici aveva fatto centro. Il disco era stato prodotto da quel geniaccio di Alan Parsons e registrato negli Abbey Road Studios di Londra, dove Parsons lavorava, per la RCA Records. Il musicista ingegnere del suono, insieme ad Eric Woolfson aveva creato il gruppo The Alan Parsons Project, autori di gran brani come Eye in The Sky (1982) dall’omonimo album, altra canzone che ritorna dal secolo scorso in onda sulle radio, più attuale che mai.

Per rispondere alla domanda, Al Stewart è un signore di 76 anni che suona ancora. Nella sua carriera ha pubblicato una ventina di album in studio, oltre a un discreto numero di singoli e di live. La prima canzone, The Elf la suonò a 21 anni, nel 1966. Alla chitarra lo accompagnava il ventiduenne Jimmy Page, futura leggenda dei Led Zeppelin.

Al vive da parecchi anni a Los Angeles e da sempre ha una passione viscerale per il vino, soprattutto francese, con una cantina da fare invidia ai più blasonati collezionisti e famosi sommelier. Si esibisce ancora dal vivo, soprattutto negli Stati Uniti e in Gran Bretagna. Ma di tutta la sua grande produzione, se chiedete il titolo di una canzone di mister Al Stewart la risposta, salvo rare eccezioni che includono Time Passages (1978), è univoca: Year Of The Cat!

Intervista: Marisa Monte e le sue “Portas” aperte sul futuro

Marisa Monte – Foto Leo Aversa

Oggi vi voglio portare ancora in Brasile. Questa volta per parlarvi di un’artista che, in molti anni di attività, è diventata di diritto una delle musiciste internazionali più ascoltate, quotate e influenti del paese sudamericano. Lei è Marisa Monte, carioca di nascita, una voce estremamente raffinata, una cultura musicale vastissima che spazia dalla musica popolare alla classica, dal jazz al samba e alla bossanova e una vita dedicata alla contaminazione, alle collaborazioni con musicisti dalle provenienze più disparate.

Il 2 luglio scorso ha pubblicato Portas, album composto da 16 tracce, un racconto, per chi la conosce, che ha del cinematografico. Sedici brani che catturano, conquistano, raccontano storie. In Portas c’è amore, romanticismo, passione, tristezza, allegria, speranza, futuro. Se dovessi fare un paragone, è come vedersi un film alla La La Land. Basta ascoltare il brano Portasquello che dà il titolo all’album, per capire quale sia la direzione del nuovo lavoro della Monte. Qual é a melhor?/ Não importa qual/ Não é tudo igual/ Mas todas dão em algum lugar/ E não tem que ser uma única/ Todas servem pra sair ou para entrar/ É melhor abrir para ventilar/ Esse corredor… Qual è la porta migliore? si chiede. La risposta arriva subito dopo: non ha importanza quale sia, non è tutto uguale. Ma tutte le porte aprono in un qualche posto. E, non necessariamente deve essere una porta sola, tutte servono per uscire e per entrare. È comunque meglio aprire per far cambiare aria a questo corridoio. Metafora dei tempi correnti…

Ho l’appuntamento su Zoom. Lei mi risponde da Rio de Janeiro, elegante come sempre, seduta su sfondo nero dietro diverse chitarre, se ne intuiscono le silhouette.

Prima dell’intervista torniamo un attimo alle collaborazioni, perché dicono molto: innanzitutto c’è quel geniaccio di Arto Lindsay, vecchia amicizia di Marisa, grandi collaborazioni, una su tutte, il secondo disco, Mais, prodotto da Arto. E poi Arnaldo Antunes, ex Titãs e compagno nell’avventura Tribalistas con Carlinhos Brown. Il fado Vagalumes è un piccolo omaggio, un gioiello incastonato nelle terre lusitane. Carlinhos non c’è in Portas, in compenso è presente il figlio, Chico, nipote di Chico Buarque de Hollanda, uno dei miti della musica brasileira (ascoltatevi Calma).

C’è anche Nando Reis, altro Titãs (vi consiglio, se ne avete voglia, di mettere sul piatto un po’ di album della rock band nata a São Paulo negli anni Ottanta), Dadi Carvalho, bassista che ha suonato nei Novos Baianos e nei Barão Vermelho (ascoltatevi la bella A Língua dos Animais, frutto della collaborazione tra Marisa, Arnaldo e Dadi) e poi Marcelo Camelo, polistrumentista e anima dei Los Hermanos, gruppo pop rock della fine anni Novanta, quindi Seu Jorge, con cui Marisa ha collaborato più volte, qui in Portas con la figlia Flor, grande voce, nell’ultimo brano, Pra Melhorar! Per continuare con Pretinho da Serrinha, compositore di samba, per un brano tutto da godere, Elegante Amanhecer dedicato alla Portela, scuola di samba carioca, di cui Marisa è sostenitrice, tra cavaquinho, cuica e surdo: Foi lindo de ver a Portela/ O sol raiando/ Elegante amanhecer/ Seu canto ecoou na passarela/ Auê auê salve o samba, salve ela…

La cover dell’album e l’intero concept visivo del disco sono opera dell’artista Marcela Cantuária. «Il progetto è diventato un dialogo audiovisivo tra due donne contemporanee che hanno prestato la oro sensibilità al servizio dell’arte», spiega la musicista. «Marcela è riuscita a rappresentare sia me sia le mie canzoni».

Marisa, un disco di 16 tracce dopo dieci anni dall’ultimo tuo lavoro, come mai tanto tempo?
«Mi sono dedicata a tantissime altre collaborazioni e progetti, come il tour con Paulinho da Viola (uno dei grandi artisti di samba brasiliani, ndr). Doveva essere un minitour in Brasile e si è trasformato in un grande successo! Poi ho lavorato a un progetto d’archivio, Cinephonia, (trent’anni di carriera con inediti audiovisivi, raccolti e catalogati, inaugurato nel marzo dello scorso anno, ndr), ho pubblicato con Carlinhos e Arnaldo il secondo disco Tribalistas… Nel frattempo ho continuato a scrivere, comporre. Non è stato un disco programmato. Quando ho deciso di trasformare quel materiale in un album, avevamo deciso di iniziare a registrare nel maggio 2020 a New York, con Arto Lindsay. Ma con la diffusione della pandemia e il lockdown è saltato tutto. Abbiamo, quindi, rinviato a novembre. Ma poi, vista l’impossibilità di trovarci fisicamente, abbiamo provato a registrare un paio di basi via Zoom tra Rio e New York. Il lavoro stava venendo bene, quindi abbiamo iniziato a lavorare insieme, ho incontrato tanti collaboratori internazionali senza muovermi da Rio! Così abbiamo lavorato a Rio de Janeiro, Los Angeles, New York, Lisbona, Madrid, Barcellona, Seattle…».

Foto Leo Aversa

Sedici canzoni sono tante in un disco…
«In realtà sarebbero 18 tracce,  mi rimangono ancora due brani che pubblicherò, il primo tra poco, e il secondo lo terrò per quando inizierò il tour, il prossimo anno».

Parlami di Portas. Il mondo è pieno di porte che si aprono e si chiudono…
«Volevo cantare un po’ di speranza, fornire uno sguardo diverso, positivo del mondo, visto che, soprattutto in questi due anni, siamo stati molto negativi, insicuri. Nonostante tutto quello che è successo con il Covid19, penso che oggi noi siamo comunque migliori di 50 anni fa. Credo che sia meglio vivere il presente, nonostante tutto quello che è accaduto, perché in questo presente abbiamo intavolato molti temi di discussione, dal guardare il mondo con più attenzione e rispetto, al lavorare per una società più aperta, rispettosa dei diritti di tutti. Il mio è stato un lavoro all’opposto del negazionismo, diciamo di “affermazionismo”. Una resistenza poetica e amorosa, una forma di protesta fatta in tutte le forme possibili. Ci vuole molto coraggio nel difendere l’amore!».

Frame dal brano “Portas” che apre il disco.

A proposito di negazionismo, la situazione politica in Brasile non è delle migliori. Hai voglia di parlarmene un po’, mi interessa sapere come la pensi…
«In Brasile c’è stata una sovrapposizione di crisi, la pandemia e una crisi democratica senza precedenti. Non è molto diverso dal resto del mondo occidentale, però. Lo stesso problema c’è stato in America con Trump, c’è in Europa, lo avete avuto anche in Italia. Credo, voglio credere, che questa sia un situazione che non potrà durare ancora a lungo. Passerà, perché questa crisi democratica genererà una gestione futura del progresso».

Il presidente Bolsonaro non vede di buon occhio la cultura, non tiene molto in considerazione voi artisti.
«Alla base c’è un pensiero retrogrado che non considera la cultura come un potente forza economica che genera indotti, ma piuttosto come un nemico ideologico. Purtroppo per loro, per fortuna non si torna indietro. Non ritorneremo nell’oscurità, si dovrà andare avanti, con orgoglio. Credo che tutti questi problemi che hanno i paesi democratici risiedano nel come è veicolata l’informazione, praticamente senza controllo. Le fake news continuano a essere molto disturbanti per i paesi che credono in certi valori. E non sto parlando solo del Brasile».

Tornando a Portas: hai attinto da tutto il bagaglio della musica brasiliana, dal rock di Rita Lee, alle composizione in bilico tra MPB e jazz di Milton Nascimento, al rock degli anni Ottanta, Titãs, Barõ Vermelho, al Samba, alla bossanova e persino a quel nuovo fado portoghese che negli ultimi anni ha rivoluzionato un genere quasi intoccabile…
«Vero, tutti gli artisti che hai citato e che hanno lavorato in quegli anni incidevano dal vivo in studio, tutti insieme. Questa è la grande forza della collaborazione, del creare qualcosa di unico. Purtroppo la pandemia ci ha costretto a lavorare diversamente: era un mio desiderio ma anche una vera impossibilità. Credo che incida sulla dinamica musicale anche se è stato fatto un ottimo lavoro! Ho sempre voluto collaborare con artisti di generazioni diverse perché credo che queste contaminazioni influiscano positivamente sul pubblico: mi ascoltano la nonna e la nipotina! Anche in questo lavoro ho avuto degli arrangiatori incredibili, da Arthur Verocai, musicista di grande esperienza, al giovane Antonio Neves, al mio coetaneo Marcelo Camelo».

Marisa, un’ultima domanda: cosa ti aspetti da questo nuovo album?
«In Brasile è stato accolto benissimo, oltre tutte le aspettative. Spero che possa portare in questo momento amore, poesia e anche talento».

Da “Carnage” a QAnon il passo è breve (e dannoso)

Piccoli esperimenti sociali in corso. Il 26 febbraio ho pubblicato una recensione su Carnage, gran bel disco di Nick Cave e Warren Ellis, uscito il giorno prima per la Goliath Enterprises Limited.

Ho lanciato un post sulla pagina Facebook di Musicabile intitolandolo: “Carnage, il lato oscuro della pandemia”, motivando l’interesse per la pubblicazione come “Un lavoro che mette a nudo l’uomo, l’esperienza estrema, il senso della vita. L’ultima frase del disco, in Balcony Manœ, è la sintesi di tutto: «Ciò che non ti uccide ti rende solo più pazzo». Atmosfere cupe, pressanti, alternate a momenti di leggerezza e speranza. Da ascoltare e riascoltare…”.

Mi sarei aspettato un giudizio sull’album, certo di non facile ascolto, soprattutto per chi non segue Cave. In realtà i tanti commenti che si sono aggiunti poco per volta, hanno per lo più ignorato il lavoro degli artisti australiani e scolpito nella mente di chi li ha scritti un solo pensiero: concentrarsi su chi fosse il colpevole della pandemia.

La conseguenza, una rabbia incontrollata. E poiché quest’ultima dev’essere scaricata, sono stati additati i colpevoli del virus, del lockdown, del clima di tensione che si è creato. Ovviamente al primo posto c’è “la sinistra”, fatto che mi lascia perplesso ogni volta che mi imbatto in simili dichiarazioni tombali sui social. La sinistra? Dov’è, qualcuno me lo dica, perché di sinistra nel nostro Paese da decenni vedo solo annebbiate forme protozoiche, altro che frange criminali organizzate…

Ce n’è anche per i soliti colpevoli di tutto (QAnon e il complottismo insegnano), gli immancabili George Soros, Bill Gates e Klaus Schwab, a cui si aggiunge, visto il virus, l’immunologo Anthony Fauci, tutti colpevoli della diffusione del Covid19 per non meglio e sottintese operazioni di guadagno sulla pelle dei poveri cittadini indifesi.

Abbiamo imboccato da tempo una deriva pericolosa. Informarsi, conoscere, capire, ragionare costa fatica. E sempre meno persone vi si dedicano: la conoscenza è un duro lavoro, che va coltivato passo dopo passo. E la musica, quella mainstream, rispecchia la tendenza: il più piatta e simile possibile a se stessa, di presa facile, così si fanno soldi, si costruiscono successi che durano giusto quelle tre ore e poi via un altro, sempre uguale al precedente ma da vendere come nuovo prodotto dell’inconsistenza sociale…

Frame da “Ritchie Sacramento” dei Mogwai

L’indigesto (perché reale) contenuto di Carnage (a proposito il settimanale britannico NME, New Musical Express, alcuni giorni fa lo ha eletto il miglior album pubblicato durante il lockdown, prima di Folklore di Taylor Swift – qui Exile, con Bon Iver, e di As The Love Continues dei Mogwai, uscito il 19 febbraio – qui Ritchie Sacramento), avrebbe potuto stimolare una discussione su ciò che è davvero importante e necessario in questo momento, una riflessione sui morti, un pensiero concreto su rabbia, pietà, solitudine, sui vaccini e sulla speranza di uscirne.

Da parte mia continuerò a proporre musicisti che hanno qualche cosa di interessante da dire attraverso le loro note e parole, ignorando prese di posizione qualunquiste, per sentito dire. La vita è già complicata così. Perdonatemi lo sfogo…