Kole Laca: dal Teatro degli Orrori agli Shkodra Elektronike

Kole Laca – Foto Rozafa Shpusa

Il 10 marzo scorso è uscito un Ep piuttosto unico nel suo genere dal titolo Live @ Uzina, registrato in un vecchio teatro di posa alla periferia di Tirana, dagli Shkodra Elektronike, un duo italo-albanese. Volutamente misterioso, cantato in albanese, tappeti di synth minimal che danno spazio a una voce armonica, melodiosa, a tratti resa più “acida” da incursioni elettroniche…

Ce n’era in abbondanza per stimolare la mia curiosità. Anche perché l’ideatore del progetto e autore degli arrangiamenti è uno di mia vecchia conoscenza di ascolti, Kole Laca (il cognome si pronuncia Lazza, anche se, come scherza Kole, «ormai mi ci sono abituato, non correggo più!»), musicista di professione, diplomato in pianoforte al Liceo “Prenkë Jakova” di Scutari, una laurea in Scienze Politiche all’università di Padova e un trascorso di musicista con molteplici esperienze, tra queste, tastierista de Il Teatro degli Orrori, band veneta formatasi nel 2005, definita genericamente “alternativa”, classificazione piuttosto vasta per un rock nervoso, a tratti noir a tratti spigoloso, post punk, con chitarre acustiche folk che si trasformavano improvvisamente in orgasmi elettrici acidi, accompagnati da testi per nulla banali, profondi e visionari, del frontman Pierpaolo Capovilla

Con Kole c’è Beatriçe Gjiergji, una voce bella, calda con acuti di profonda dolcezza. Ho chiamato Kole per chiacchiere sul lavoro degli Shkoda Elektronike, ma anche sulla musica, sul loro “post immigranti pop” – lo vedremo tra poco – sul Teatro degli Orrori e le evoluzioni/involuzioni del mainstream…

Come sei arrivato agli Shkodra Elektronike?
«Sono partito dal recupero delle canzoni popolari di Scutari, la mia città natale, scegliendo brani che partono dai primi dell’Ottocento e arrivano fino agli anni Sessanta del Novecento. Volevo dare loro una nuova veste, più attuale. Da ragazzo la consideravo, come sempre accade, una musica vecchia, guardavo ad altro, vuoi paragonare i Depeche Mode con un cantante di musica tradizionale! Quando cresci, invece, ti riavvicini, sei curioso sulle tue origini. Ho cominciato a ragionare, ascoltare, apprezzarle dal punto di vista musicale. Già nei 2Pigeons con Chiara Castello, nell’album Retronica (2012, ndr), avevo inserito un brano popolare, Turtulleshë, che abbiamo riproposto anche in Live @ Usina».

Prima di parlare di Beatriçe, avete dato, dunque, una nuova veste a brani popolari senza mutarne la struttura?
«Quando parlo di canzoni popolari mi riferisco a una tradizione piuttosto “recente”, le più vecchie risalgono al Settecento e arrivano fino alla fine degli anni Sessanta. Sono melodie tradizionali di Scutari, non di tutta l’Albania. Se le ascolti bene sono “moderne”, per cui anche se utilizzi sonorità contemporanee, funzionano ugualmente. Operazione peraltro fatta già altre volte nel corso dei secoli: nell’Ottocento venivano suonati con strumenti mediorientali, per esempio, il kavall, a fiato simile a un flauto, o il saz, a corde pizzicate parente dell’oud e del liuto. Con l’arrivo anche della cultura occidentale hanno preso piede la chitarra acustica, l’uso del contrabbasso, della fisarmonica, del violino. Si suonavano sempre le stesse melodie ma con strumenti diversi. Oggi ci sono quelli elettronici».

Veniamo all’altra componente degli Shkodra Elektronike, Beatriçe: come vi siete conosciuti?
«Ci siamo incontrati su Internet. Lei mi ha contattato quando ancora suonavo con il Teatro degli Orrori. Seguiva la mia musica e poi era di Scutari. Ho voluto approfondire e, sempre sui social, ho scoperto che aveva un gruppo, e cantava davvero bene. Viveva in Umbria, era arrivata in Italia più o meno nel mio stesso periodo e lavorava in fabbrica, ma la sua passione era la musica, cantava in una band. “Che brava”, ho pensato, “Spacca di brutto!”. Così in una data a Perugia del Teatro degli Orrori l’ho invitata al concerto. Ci siamo seduti e abbiamo parlato. Le proposi l’idea di rielaborare la musica popolare scutarina e Beatriçe la trovò bellissima. Il discorso finì lì. Nel frattempo, ho continuato a mettere a punto il progetto, provando alcune date per testare la reazione del pubblico. All’inizio non l’ho coinvolta perché lei, da dipendente, non poteva certo assentarsi dal lavoro quando voleva».

Gli Shkodra Elektronike a Tirana – Foto Erdiola Mustafaj

E il tuo esperimento ha funzionato…
«Sì e anche piuttosto in fretta. Mi hanno chiamato a suonare alla Biennale di Venezia alla festa di inaugurazione del padiglione Albania/Kosovo a maggio dell’anno scorso. A Milano, al Germi – Luogo di contaminazione, il locale di Manuel Agnelli, ho dovuto aggiungere più date… Vedevo che il progetto stava prendendo piede, alla gente piaceva, così ho chiamato Beatriçe per un minitour di sei date da fare in una settimana. Lei ha chiesto le ferie. Abbiamo provato solo un giorno e mezzo prima di salire sul palco a Genova allo Spazio Lomellini 17, la prima data. Da lì, la settimana è diventata un mese, poi un altro e un altro ancora fino al febbraio del 2020. Abbiamo suonato anche in Albania, con buoni riscontri. Poi è arrivata la pandemia e ci siamo dovuti fermati».

Prima con i 2Pigeons, ora con gli Shkodra Elektronike: la tua dimensione ideale è un duo?
«(ride, ndr) Il duo è la soluzione per essere più leggeri nella gestione del progetto. Uso la tecnologia perché siamo in due. Essere in tanti richiederebbe investimenti maggiori che al momento non abbiamo. Spero che le cose vadano bene per avere più musicisti sui palchi con noi».

Quando avete registrato il live in Albania?
«Nel febbraio del 2020, sul filo di lana. Ci eravamo appena esibiti a Tirana, abbiamo deciso di incidere il live all’ultimo minuto utile prima del lockdown. Poi ci siamo messi a cercare un’etichetta che potesse pubblicarci. Abbiamo trovato la AltOrient di Mohamed Aser, un ragazzo palestinese che vive tra Berlino e il Canada. Ci sembrava la soluzione migliore: siamo albanesi, immigrati, abbiamo trovato su Internet un’etichetta internazionale che propone musica elettronica del Medico Oriente. Sempre della stessa etichetta, ti consiglio di ascoltare Tamada, artista georgiano bravissimo. In questo attuale contesto di “tutti contro tutti”, fare questi percorsi insieme è un messaggio di speranza, nel mio piccolo».

Cosa pensi della musica attuale? Stiamo sull’Italia…
«C’è un po’ di decadenza da anni. Non vado contro il mainstream, ti confesso che cederei anch’io! Non mi riferisco ai ragazzini che fanno la trap, piuttosto a un certo ambiente che spaccia per alternativa roba che non lo è affatto. L’italia ha la tendenza a esasperare un po’ in tutte le cose. Credo, comunque, che si tratti di periodi. Penso anche che la musica degli anni Novanta, quella della mia generazione, per certi versi ci abbia fatto quasi male: allora erano mainstream i Nirvana, Björk, i Soudgarden, i Radiohead, oggi è altro… Ci eravamo abituati bene! Un periodo che, purtroppo, è finito e tanti della mia generazione se ne sono accorti tardi. La musica, rispetta la società…».

Il Teatro degli Orrori dunque…
«È una conseguenza degli anni Novanta. Pierpaolo Capovilla, veniva dagli One Dimentional Man, come Giulio Ragno Favero, il bassista, e Francesco Valente, il batterista. Il Teatro faceva una musica senza compromessi, cruda, diceva quello che aveva da dire. Molti colleghi oggi analizzano gli artisti in base al loro successo. A me interessa se quello che uno fa mi piace o non mi piace. Il successo è diventato indispensabile, concetto esportato dai rapper americani. Rappresenta il riscatto del povero, che non è sociale, ma di reddito. L’ostentazione del povero che diventa ricco la vedi nei gioielli che indossano, nel circondarsi di belle donne, nell’avere la macchina potente. L’”IO” è diventato l’unico parametro, l’unica cosa importante. E l’”IO” non è relativizzato. La conseguenza è una musica passeggera, effimera».

Come hanno preso i “ragazzi” del Teatro la tua nuova avventura?
«Pierpaolo ha pubblicato sui suoi social, Giulio ci ha dato consigli, Marcello ha mixato i brani, tutti comunque entusiasti. Posso dire di sentirmi fortunato perché è rimasto uno spirito vero di condivisione, di amicizia».

Hai definito la musica degli Shkodra “post immigrant pop”…
«Non è facile dire cosa stiamo facendo. Noi usiamo suoni contemporanei che attraggono i giovani albanesi, ma in generale tutti i ragazzi che ci ascoltano, per poter ricordare la loro storia, da dove provengono, la cultura popolare. Post Immigrant Pop in questo senso, dove Post significa che siamo cittadini italiani ma anche albanesi, siamo tutte e due le cose e, in realtà, nessuna delle due; Immigrant perché viviamo una commistione tra la nostra cultura originaria e quella che abbiamo scoperto e fatto nostra; Pop perché con l’elettronica parliamo una lingua oggi comprensibile».

Interviste: Claudio Fasoli, il jazz e la cura per l’armonia

La teoria della spugna, ma anche la pratica dell’uvaggio e la pazienza dell’ascolto. Da un’intervista, generalmente, si impara sempre qualcosa. Ti fissi dei punti fermi, delle sensazioni che poi ti riservi di approfondire. Ma, raramente, ti segnano. Nella mia – ormai – lunga vita prestata al giornalismo ho parlato e scritto di centinaia di persone. Ma vi confesso che solo tre mi sono rimaste impresse a distanza di anni, una dall’altra.

La prima è stata con lo scrittore brasiliano Jorge Amado, che mi ha parlato della sua Bahia, la seconda con un altro brasiliano immenso, l’architetto Oscar Niemeyer, la terza oggi, con Claudio Fasoli, compositore, sassofonista, uno dei miti del jazz. Il motivo della mia chiamata a Claudio è stato un premio prestigioso che ha vinto a gennaio: il miglior disco italiano del 2021, con Next, assegnatogli dalla rivista Musica Jazz nel suo annuale “award” Top Jazz. Un premio importante perché il lavoro di quest’album – tra poco ne parlerò più approfonditamente – premia la ricerca oltre che la qualità.

Torno un attimo indietro, a Niemeyer. L’ho intervistato nel suo studio a Rio de Janeiro, a Copacabana, una calda mattina di fine primavera, con il cielo azzurro terso e il sole che rendeva l’oceano scintillante. Di lì a un mese avrebbe compiuto 100 anni. Nel suo ufficio mi colpirono tre cose, un cavaquinho, che lui stesso suonava, una foto in bianco e nero raffigurante tre donne nude, distese (rappresentavano il flessuoso panorama di Rio, ma anche la fissazione dell’architetto per le linee curve) e un enorme televisore che cozzava con la stanza piccola, raccolta. Lì il geniale professionista che disegnò Brasília e lasciò le sue tracce in tutto il mondo, Italia inclusa, componeva la sua arte. Un anziano signore con una creatività fanciullesca accompagnata da una saggezza dovuta ad anni d’esperienza sul campo, tracciava con il carboncino sulla parete che faceva imbiancare ogni mese, veloci linee che guardavano il futuro, spazi che nascevano modellando il cemento, curvandolo, rendendolo armonico con la natura circostante, grazie anche a giochi d’archi e d’acqua e a soluzioni estreme. L’architettura come mezzo per diffondere cultura e bellezza, aiutare la gente comune a guardare oltre i propri limiti (tempo, censo, educazione) e le difficoltà della vita.

Parlare con Claudio Fasoli mi ha ricordato proprio tutto questo. Nonostante suoni da anni, il musicista continua a ridisegnare il pentagramma con la sua musica intuitivamente fresca, guardando al futuro, cercando di non ripetersi, creando suoni diversi… Fare arte e cultura, appunto…

Ho iniziato ad apprezzare Fasoli, poco più che adolescente, negli anni Settanta quando faceva parte di quella band, per me mitica, che furono i Perigeo. Ricordate Azimut? Era il 1972. E anche Abbiamo tutti un Blues da piangere (1973), o La Valle dei Templi (1975). Una band che sancì l’inizio della fusion in Italia. Certo, c’erano anche gli Area, come mi fa notare lo stesso musicista. Ma il sax di Claudio, le tastiere di Franco d’Andrea, la chitarra elettrica di Tony Sidney, il basso di Giovanni Tommaso e la batteria di Bruno Biriaco sono un capitolo importante della musica d’avanguardia italiana.

Per questo ho voluto intervistare Fasoli. Milanese d’adozione e veneziano di nascita racchiude l’essenza delle due città, la prima seria, riflessiva, intraprendente, rispettosa dei tempi e dei silenzi, la seconda aperta da sempre alle contaminazioni, elegante, leggiadra. Riunire armonia ed efficenza è una fortuna per chi la sa cogliere…

Ultima precisazione prima di leggere l’intervista: in Next, disco pubblicato dalla Abeat Records il 5 agosto dello scorso anno, che vi raccomando di ascoltare attentamente perché entra poco a poco, sottilmente persuasivo, per poi conquistare, Claudio ha dei meravigliosi compagni di viaggio: il chitarrista Simone Massaron, il contrabbassista Tito Mangialajo Rantzer e il batterista Stefano Grasso, tutti milanesi. Un quartetto incredibile…

Claudio, partiamo dal Top Jazz per Next, miglior disco 2021…
«È un riconoscimento importante, che dà soddisfazioni, perché indica che abbiamo intrapreso una strada giusta, riconosciuta e riconoscibile. Un premio apprezzato visto che viene assegnato da una giuria composta da critici specializzati».

Un lavoro dove proponi forme innovative nel linguaggio jazz.
«Seguo la mia curiosità. Per me era importante riuscire a realizzare un progetto con una realtà sonora caratterizzata da suoni diversi da quelli fatti finora. Fissare un’idea di progetto aprendo una nuova strada rispetto alle ultime produzioni. Questo non vuol dire che abbia chiuso con le esperienze precedenti. Next è un disco fondamentale per verificare il mio lavoro».

Una prova del tuo “Inner Sound”, il suono interiore di cui parli spesso? (Il musicista ha pubblicato anche un libro sul tema, Inner sounds nell’orbita del jazz e della musica libera, 2016, oltre a un album, Inner Sounds, dello stesso anno, con il Double Quartet, ndr)…
«È l’idea giusta. Il musicista jazz, che ha la responsabilità e l’opportunità di caratterizzare la sua musica, lo fa in base ai suoi ascolti. Deve comportarsi come una spugna, e cioè assorbire, ascoltare, tanto e di tutto, partendo dalla musica classica. L’ascolto è importante, perché solo così si ha la possibilità di ampliare le possibilità espressive. Inner Sound significa anche comportarsi come un bravo enologo, saper dosare uve diverse e miscelarle in una botte dove l’uvaggio riposerà per diventare un’altra cosa, ricca, intrigante, soprattutto diversa. Senza il primo passo non ci sarà il secondo. Se ascolti King Oliver, Chopin, Debussy, Keith Jarret, Jan Garbarek e Miles Davis otterrai di sicuro un suono che non è quello dei singoli musicisti ma un altro, elaborato dalla tua conoscenza e creatività».

Buona parte del tuo lavoro, dunque, è ascoltare…
«Dedico molto tempo, perché la musica è fatta di tante cose, entri in contatto con varie esperienze. Non è detto che tutto ciò che si ascolta sia necessariamente buono o apprezzato».

Scivolo sui ricordi, tenendo il tema Inner Sound: i Perigeo sono stati una delle band che, negli anni Settanta, hanno contribuito ad accendere la mia passione per la musica. Siete stati i primi in Italia a inserire il concetto di Fusion…
«Quello che caratterizzava i Perigeo era l’uso del rock come elemento ritmico in un’architettura  jazzistica. Non facevamo jazz ortodosso, era piuttosto la ricerca di qualcosa di nuovo, ma il linguaggio dei Perigeo era jazzistico. Non eravamo i soli, anche gli Area lavoravano più o meno in quel senso».

Elementi ritmici presi da hip hop o rap non sono nelle tue corde?
«Herbie Hancock ha spesso usato questo materiale con risultati più o meno discutibili. Non sono nelle mie corde, non li ho mai studiati seriamente e, a dire il vero, non interessano alla maggior parte dei musicisti jazz, sia americani sia europei».

Ciò significa che…
«Nella mia musica cerco di essere integerrimo. Preferisco rispettare le mie valenze facendo musica onesta che ha in sé delle verità. Non faccio musica per gli altri, non seguo le mode per vendere. È una musica autentica, vera. Pop e Hip Hop sono generi che non conosco e non sento il bisogno di approfondire. Sarebbe come chiedere a Debussy perché non ascolta Stravinskij. Ti confesso che tanti ritmi africani non li ho coltivati a lungo. Sono più per la cura dell’armonia e della melodia».

Come nascono le tue composizioni?
«(ride, ndr) Mi hanno fatto addirittura un docufilm (Claudio Fasoli’s Innersounds di Angelo Poli e Carlodavid Mauri, 2018, ndr). In tempi normali, in modo del tutto occasionale. Sono un po’ evasivo. Ogni giorni mi assalgono tante idee, certe volte, per strada, mi viene in mente un brano perfettamente congegnato. Se trovo qualcosa su cui scrivere me lo appunto, altrimenti, dopo dieci minuti me lo sono già dimenticato. Quando, invece, ho bisogno di comporre perché non ho musica pronta, mi metto a strimpellare al pianoforte… Recentemente ho trovato un faldone di appunti dove avevo già preparato alcuni brani completi, che mi ero totalmente scordato di aver scritto. Due di questi li ho uniti in un unico brano, Mix, che ho pubblicato su Next».

Com’è il tuo rapporto con la musica elettronica?
«Negli ultimi dischi ho usato solo strumenti fisici, ma la trovo estremamente scenografica, evocativa, seduttiva, sensazioni che non necessariamente gli strumenti normali sanno trasmettere. Usare l’elettronica per me è come imparare una lingua straniera: vieni a conoscenza di altri mondi sonori e amplii, così, le tue possibilità. Il jazz è il mio italiano, ma posso imparare il mio francese, il mio russo, che è l’elettronica».

Il jazz è un po’ come l’Esperanto, un insieme di lingue diverse…
«Di bello ha la disponibilità ad aprire la mente a ogni tipo di esperienza e rendere “jazz” ciò che non lo è. Se ascolti Wayne Shorter ci trovi Chopin, Debussy, la cultura della musica in senso lato. Il jazz ha sempre assorbito e/o arricchito, è sempre disponibile all’apertura, un linguaggio straordinario».

Però non è di massa. È per pochi privilegiati?
«Il Jazz è una musica di nicchia, ma non per sua scelta. Non viene presentato come meriterebbe, è praticamente uno sconosciuto, come la musica contemporanea. La verità è che non lo si fa mai ascoltare. Il jazz esiste nei vinili, nei Cd, ma non nelle radio. Non ci sono spettacoli diffusi. Fanno ascoltare il gospel passandolo per jazz».

Perché, secondo te?
«Per lo stesso motivo per cui in Italia non esiste che ti vedi al cinema un film in lingua originale. Non ci abituiamo a sentire suoni e parole pronunciati in maniera diversa dalla nostra. Dovremmo, invece, addestrarci ad ascoltare altre lingue. Lo stesso vale per il jazz. È una questione culturale e un’emarginazione razziale, vale anche per la musica classica: le poche volte che viene trasmessa alla radio o in televisione, se non sei avvezzo ad ascoltarla, cambi subito canale, reputandola noiosa! Abituandosi a sentirla, come fai con una lingua straniera, entri nel suono, la capisci, la riconosci, la acquisisci come linguaggio. Se i mezzi audiovisivi fanno ascoltare solo il festival di Sanremo, fatto bene non lo metto in dubbio, ma pompato solo per scopi commerciali, si crea di fatto una discriminazione, impedendo a molte persone di ampliare i propri orizzonti culturali. Il risultato è che c’è un grande timore ad ascoltare ciò che è diverso dal mainstream perché è ignoto, e l’ignoto spaventa».

Come ti sei avvicinato alla musica?
«Nell’infanzia e in gioventù sono sempre stato immerso nella musica. Ai tempi, la radio trasmetteva molta più musica classica di oggi. Ho ascoltato anche arrangiamenti di orchestre che mimavano il jazz. Poi… mi sono innamorato del sassofono. Ho vissuto cinque anni ascoltando solo Lee Konitz. Mi piaceva anche Charlie Parker, ma Konitz aveva un linguaggio e un suono proprio, una sua identità. Geni, erano dei geni, gente che inventava cose che non esistevano».

Quindi, tornando alle “lingue straniere”, questo analfabetismo di ritorno è dovuto a una “settorialità” commerciale dei mezzi di comunicazione?
«Se trasmetti un concerto di Keith Jarret o il bellissimo docufilm su Michel Petrucciani (Body&Soul, 2011, ndr) alle 2:30 del mattino, di fatto impedisci di approfondire e imparare. Il Jazz non viene fatto conoscere. Era così anche negli anni Novanta nei Conservatori, quando insegnavo composizione jazz… Avevano aperto opportunisticamente le porte al jazz, ma, in realtà, questo veniva ostacolato. Poi c’erano anche invidie accademiche: io avevo 12 allievi e facevo lezioni singole di un’ora, altri docenti avevano un solo alunno… Oggi abbiamo Stefano Bollani che, nei suoi programmi televisivi, tenta di proporre il jazz come può. Per il resto, silenzio assoluto».

Ultima domanda: ti ha mai attratto la bossanova?
«La musica brasiliana mi piace tantissimo, mi commuovo ogni volta che ascolto quel capolavoro di Tom Jobim che è Retrato em Branco e Preto. È devastante la bellezza di quella musica che Stan Getz ha poi diffuso negli Stati Uniti. È un genere con grandi testi, un ritmo intelligente, una bella armonia. Jobim e Gilberto sono stati musicisti incredibili. E Ivan Lins è… straordinario!».

Xenia Rubinos, Una Rosa e il “no gender” della musica

Non so se l’avete sentita nominare o ne avete già ascoltato qualcosa. La musicista in questione, polistrumentista, si chiama Xenia Rubinos ha 36 anni ed è nata nel Connecticut da madre portoricana e padre cubano. Studi alla Berklee School of Music di Boston, una formazione jazz ma anche una passione per la musica elettronica, definire il genere della Rubinos è praticamente impossibile. In questo “no gender”, anzi, “full gender” album, si sentono accenni punk, jazz, folklore latino – rumba in testa – beat hip hop, una sequenza e sovrapposizione che disorienta l’ascoltatore, perso tra mille sentieri di note, ma che poi finisce per ritrovarsi in un ambiente sonoro che ha del familiare, attira, ha un senso compiuto.

Una Rosa è il terzo lavoro di Xenia, i primi due sono Magic Trips del 2013 e Black Terry Cat del 2016. Ci sono voluti cinque anni per pubblicare il nuovo lavoro uscito a metà ottobre per Anti. In questo lungo periodo, dove di mezzo si è messo pure il Covid, Xenia s’è fermata, come da lei stessa dichiarato (il The New York Times le ha dedicato un lungo articolo firmato dalla critica musicale Isabelia Herrera), sentendosi disorientata dopo la serie di concerti per promuovere Black Terry Cat e varie vicissitudini personali, che l’avevano mentalmente prosciugata. Aveva bisogno di pace e riflessione. È persino andata da un curandero che le ha diagnosticato una “perdita di spirito”…

Un lavoro che ha della drammaticità intrinseca, che tratta temi importanti, per lei la musica e il messaggio devono coesistere, altrimenti la sequenza di note perde valore. Un brano, Ay Hombre, inizia con un auto-tune sostenuto (non sopporto l’auto-tune, lo trovo un insulto alla voce, però in questo caso, dopo il primo urto di nervi, la Rubinos ha sconvolto lo spartito, piazzando un synt, con un uso quasi “scolastico”, per introdurre, con una voce densa, il dondolare latino, in contrasto con l’essenzialità elettronica del brano.

Anche Una Rosa, la canzone che dà il titolo all’album, un danzón portoricano di José Enrique Pedreira di settant’anni fa, è stato rivisto come un momento struggente di pathos, con un tappeto di synt e un basso che gira cupo e solenne. Era un motivo che aveva sentito uscire da una lampada che apparteneva alla bisnonna, fatta di fiori di fibre ottiche che si illuminavano con il suono di un carillon, la stessa della cover dell’album. Alla giornalista del New York Times, ha raccontato che ci ha messo un paio d’anni per capire chi fosse l’autore del brano, alla fine lo ha trovato, ma ha deciso di eseguire quello che lei aveva filtrato nei ricordi di bambina. Una nenia che diventa quasi aulica…

Ascoltatelo  questo disco! Il primo brano Ice Princess, dura 56 secondi ed è un ingresso al mondo di Xenia. Il testo è breve: There she is, There she is. No, wait! There she is, There. Tre interventi musicali di pochi secondi e il resto è silenzio assoluto. Quando la pausa diventa musica.

Tre dischi, tre voci femminili, tre modi di passare il weekend…

Come ormai consuetudine, anche questo venerdì vi propongo tre album da ascoltare durante il weekend. Questa volta si tratta di tre nuove uscite di giugno dove le protagoniste sono tre donne. Tre artiste di notevole bravura, tra elettronica, neo soul e Musica Popular Brasileira di nuova generazione. Viaggeremo, quindi, tra New York, Melbourne e São Paulo.

1 – Fatigue – L’Rain
Partiamo da New York, Brooklyn per la precisione. L’Rain è il moniker che si è scelta Taja Cheek, trentenne cantautrice, una laurea in musica e un modo di comporre molto personale. Il nome d’arte L’Rain è un omaggio a sua madre, Lorraine, morta nel 2017 quando Taja stava lavorando al suo primo disco. L’ha anche tatuato sull’avambraccio. Fatigue riporta ancora le ferite della perdita subita, unite alle tante altre legittime domande che la Cheek si  pone sulla sua vita. È un disco ma, soprattutto, un viaggio introspettivo, come lei stessa ha spiegato al New York Times che le ha dedicato una lunga intervista una decina di giorni fa. Di lei, Jon Pareles, l’autore dell’intervista nonché capo dei critici musicali del quotidiano americano, scrive: «Cheek continua a riflettere su insicurezza, ricordo, smarrimento, rimpianto, lutto e la preoccupazione mentre cerca, in qualche modo, di insistere. In Find It canta “Mia madre mi ha detto: trova una strada dove non c’è”». Find It è un po’ la “summa” del suo modo di fare musica. Lei registra di continuo, voci, suoni, canti, scene di vita quotidiana. Lo fa in modo minuzioso, come tenere un prezioso diario sonoro. Nel brano c’è, dunque, l’intervento di un organista che suona e canta I Will not Complain durante il funerale di un amico di famiglia. Taja l’ha registrato, ci ha messo sopra un sax romantico e un crescendo di basso, mentre l’organo e la voce esplodono in cori e fraseggi. In Blame Me c’è una frase pronunciata da sua madre nascosta tra le pieghe della canzone… insomma un percorso sinuoso, apparentemente senza senso, in realtà molto ben definito, con accenni a uno stile a tratti essenziale che ricorda Moses Sumney. Da mettere sul piatto la sera e riflettere…

2 – Mood Valiant – Hiatus Kaiyote
Dici Hiatus Kaiyote leggi Nai Palm, chitarrista e leader della band di Melbourne, il cui vero nome è Naomi Saalfield, musicista dotata di una straordinaria creatività e anche di una buona dose di vita vera vissuta. La band, presente da alcuni anni sulla scena mondiale, ha pubblicato lo stesso giorno di L’Rain, il 25 giugno, Mood Valiant, disco decisamente interessante. Preparato già nel 2019 ma poi, causa pandemia e un tumore al seno (per fortuna risolto al meglio) che ha fermato la vulcanica frontwoman, è uscito solo ora. Fiati e violini nel miglior stile soul (vedere An We Go Gentle) si alternano a un tappeto di suoni a tratti stridenti della chitarra di Nai, a tratti suadenti, con una base ritmica simile a un soffice tappeto erboso. Il brano più interessante – e anche quello che mi piace di più – una sorta di flash back, è Get Sun con la partecipazione del compositore brasiliano Arthur Verocai. Soul, psichedelia, frammenti jazz, ne fanno un album che vale la pena ascoltare.

3 – Esperança – Mallu Magalhães
Chiusura in bellezza e spensierata. Musica da ascoltare come sottofondo nelle calde notti estive, musica che riporta al momento d’oro della bossanova. Mallu Magalhães, 28 anni, di São Paulo, al suo quinto album in studio, dà vita a un piccolo universo di MPB, delicato e sofisticato, allegro e positivo, con refrain che si ricordano facilmente e che ti rimangono impressi e li fischietti senza accorgetene, come Quero Quero. Esperança è un viaggio raccontato in portoghese, spagnolo e inglese, ricordi che sono fissati nella miglior tradizione brasileira. Inizia con America Latina, tanto per ribadire da dove Mallu proviene, cantata in inglese, per poi snodarsi e sciogliersi in brani come Barcelona con l’intervento di Nelson Motta uno dei padri della bossanova, giornalista e compositore, o Regreso (in spagnolo), o Deixa Menina cantata con Preta Gil, la figlia di Gilberto Gil. Chitarre, tromba, cuica, batucada, e una voce disincantata dal timbro jazz ne fanno un disco amabile, scaccia pensieri, vacanziero. Divertitevi!

Thiago Nassif, la nuova musica brasiliana. Parola di Arto Lindsay

Thiago Nassif in un ritratto di Caio de Paiva

Quando si parla di musica brasiliana, quelli della mia “era” – cresciuti tra gli anni Settanta e Ottanta – sono rimasti ancorati ai classici della bossanova (nata alla fine dei Cinquanta) e ai psichedelici Os Mutantes, parte di quel movimento, il Tropicalismo, che ha rivoluzionato la musica brasileira assieme a Caetano Veloso, Gilberto Gil, Gal Costa, Maria Bethania, Tom Zé… ma anche al rock del mitico Raul Seixas, al punk, quello nato a Brasília con gruppi come i Plebe Rude, per intenderci, ai roqueiros di São Paulo, i Barão Vermelho, i Titãs, a Rio de Janeiro i Paralamas do Sucesso, a Porto Alegre gli Engenheiros do Hawaii, nel metal, i Sepoltura… Insomma, un fermento musicale incredibilmente vario che – almeno a me – ha fatto chiudere occhi e orecchie alla musica venuta dopo.

Il mainstream di oggi è quello del resto del mondo: l’urban nelle sue varie declinazioni, il pop di facile successo alle Anitta, che, sinceramente, mi getta in un profondo sconforto. Tutta questa tirata per dirvi che la mia idea su una musica brasiliana ferma, ripetitiva, poco o per nulla creativa, improntata a quel declino culturale che è arrivato – ed è un paradosso – con i social, ha incominciato a incrinarsi quando ho ascoltato Thiago Nassif.

C’è vita su Marte, ho pensato! Qualcosa di davvero originale, nuovo, profondo, ricercato, raggiungeva l’Europa. Thiago ha 41 anni è nato e cresciuto a São Paulo, si è trasferito a Rio de Janeiro «perché c’è più fermento creativo». Ha pubblicato il suo quarto album, Mente, uscito giusto un anno fa, un disco esemplare che ha seguito un percorso coerente, testimoniato dai suoi precedenti lavori, soprattutto Práxis, del 2011, e Três, del 2016 (rieditato due anni dopo per la casa discografica inglese Foom), coprodotto con Arto Lindsay.

Proprio ieri è stato pubblicato un remix firmato da Cornelius, il musicista, produttore e dj giapponese, di Pele de Leopardo, secondo brano di Mente. Così, dopo mesi che lo seguo attraverso la sua musica, ho deciso di chiamarlo via Meet e intervistarlo.

Lui ha accettato volentieri: «Che bello, l’Italia si sta sempre più interessando a me, con lei ho un legame, una connessione, anche perché mia nonna materna era italiana», mi dice contento, sorseggiando il primo bicchiere di un intero bricco di caffè. Mi incuriosiva conoscerlo anche perché, quando uscì Mente, il New York Times lo inserì in una sofisticata playlist estiva. La recensione del disco terminava con un complimento categorico: “It’s music of nowhere and everywhere, disappearance and arrival, the archive becoming the now”.

Se credete, come io credo, alla ripetitività della storia, ebbene, permettetemi questo paragone: se il Tropicalismo si basava su un’antropofagia culturale, presa a modello dal Manifesto Antropofago stilato dal poeta Oswald de Andrade nel primo Novecento, oggi Thiago è uno dei consapevoli esponenti di un’antropofagia cultural-musicale, che si manifesta in un desiderio di usare tutto quello che l’eredità della sua terra – e non solo – mette a disposizione, dai canti indigeni alla bossanova, dal samba al funk brasileiro, proponendo un suono nuovo, dove conta molto il rumore e anche il silenzio. Non è un caso che il grande Arto Lindsay lo abbia capito e spronato. Ora sono grandi amici, compongono insieme, si intendono alla perfezione. Arto di Thiago dice: «È la musa ispiratrice della nuova generazione di compositori brasiliani».

La cover del singolo “Pele de Leopardo”, remix di Cornelius uscito il 28 maggio 2021.

Thiago, sono curioso, ho un sacco di cose da chiederti. È giusta la mia sensazione di un Brasile culturalmente impoverito nell’ultimo ventennio?
«Al contrario, c’è molto movimento, pensa al funk brasileiro, nato nei sobborghi, nelle favelas. Ogni città, ogni stato di questo Paese ha il suo funk, c’è quello carioca, quello Paulista e via dicendo. Anche il funk, come il samba, è una musica che ha una discendenza africana, che è nato dal basso ed è espressione popolare. Credimi, il Brasile oggi ha molto da offrire, grazie alla musica dell’Afro-diaspora. Per esempio, pensa alla musica nordestina, a Siba (artista pernambucano con il quale ha collaborato lo stesso Arto Lindsay, n.d.r.), un costrutto tradizionale che si evolve. Ma anche ai canti indigeni – non dobbiamo dimenticare il loro apporto alla nostra musica, il loro costrutto canoro è molto geometrico, ma non inteso in forma pitagorica! Si tratta di un lavoro a cui ho partecipato come musicista e produttore, è un disco di canti degli indios Huni Kuin. Al canto, Bella e io abbiamo aggiunto delle sculture sonore, Bruno di Lollo il sintetizzatore,  Domênico Lancellotti l’MPC1000. Il tutto per esaltare il potere della voce di Ibã Sales, Uma voz da Floresta Encantada».

Con quale genere musicale ti sei formato? Cosa ascoltavi da ragazzo?
«Mio padre, Zé Nassif, aveva tantissimi dischi, ascoltava molta musica, soprattutto rock, musica strumentale, adorava l’arpista Andreas Vollenweider e il compositore greco Vangelis Papathanassiou, autore di numerose colonne sonore, tra cui quella di Blade Runner…». Verso i dodici anni mi ha preso il blues, la musica nera americana, il movimento di Chicago che gravitava intorno alla Chess Records. Lo studiavo a fondo, ero rapito e interessato al punto che ero arrivato a una conclusione: volevo suonare il Blues. A mio padre piaceva la musica straniera, io, crescendo, mi sono appassionato alla musica brasiliana tradizionale, grazie a mia nonna che abitava all’interno dello Stato di São Paulo. Adoravo la Moda de Viola, una musica delle radici, legata alla terra, eseguita con quello splendido strumento che è la Viola, una chitarra a dieci corde. Ad ascoltarla potrai notare che ha basi di blues e country, quello del Mississippi. Crescendo ho imparato ad amare lo Choro…».

Lo Choro, un antesignano del jazz…
«Esatto, una musica dove si improvvisava dentro rigidi canoni. La mia svolta musicale l’ho avuta a 13 anni con la chitarra elettrica. Per me è stata un vero impatto, mi affascinava l’elettrificazione dei suoni, come li puoi cambiare. Ricordo che mio papà comprò una pedaliera: non riuscivo ad usarla, non la capivo anche se mi ci applicavo. Un giorno venne un suo amico con un solo pedale, e lì mi si è aperto un mondo, ho iniziato a curiosare tra i suoni, a registrarmi con un registratore a quattro piste, ad ascoltarmi, ad apprezzare il rumore della cassetta che emetteva il suono. A 18 anni ho deciso di registrare un album. Andai in studio di registrazione ma ho odiato il suono che il tecnico mi presentava. Non c’era proprio, dovevo imparare a costruire il suono come lo volevo io…».

Cosa hai fatto per trovarlo?
«Mi sono iscritto a ingegneria del suono negli Stati Uniti, nel Tennessee, a Nashville, nel punto nevralgico della musica americana. Mi sono laureato. In quegli anni di studio avevo messo su una band con altri colleghi e grandi amici, i Cowboy Movie. Facevamo un folk psichedelico con molti interventi di Noise. Tornato a São Paulo con alcuni amici abbiamo formato un’altra band, gli Epicac Tropical Banda (ci trovi su Bandcamp), band concettuale con improvvisazioni quasi jazzistiche».

Quando hai deciso di andare a vivere a Rio de Janeiro?
«Nel 2014. Mi sono trasferito a Rio perché la scena musicale – e non solo – era molto diversa da quella di São Paulo. La libertà era un’altra, c’era una forte relazione tra i vari movimenti culturali, Rio era un frullatore: arti visive si mescolavano a jazz, musica brasiliana a musica sperimentale suonata solo da macchine. Tutti facevano capo per lo più allo studio di registrazione Audio Rebel».

Arto Lindasy e Thiago Nassif – Foto Rogerio Vonkruger

E lì c’era anche Arto Lindsay…
«Sì ci siamo conosciuti in quell’ambiente, ci siamo scambiati idee. Lui ha prodotto il mio terzo album Três, siamo diventati amici, lavoriamo spesso insieme. Arto mi chiama per collaborare a suoi lavori, che sia un disco o un’installazione sonora. Lui suona la chitarra al di fuori delle convenzioni, usando delle melodie con inserti ispidi, rumorosi…».

Veniamo a Mente, lo hai definito un disco di connessioni…
«Perché è proprio questo, un disco costruito su una mia base da molte persone che ho scelto con attenzione. Ciascuna di queste ha dato quello che era necessario al lavoro. Quando componevo con una chitarra elettrica e un semplice pedale Looper pensavo a quali fossero gli artisti giusti che potessero dare il loro apporto in termini estetici, melodici e armonici. In questo viaggio mi hanno accompagnato, formando strati musicali, Pedro Sá, Guilherme Lirio, Menino Brito, un percussionista fantastico che suona samba con Pretinho da Serrinha. Lui ha portato il suo bagaglio, che è diverso dal mio, suonando la cuica in Vóz Unica Foto Sem Calcinha. Lo stesso dicasi per Sergio Azul: viene da Bahia suona in un afro-bloco gigantesco di percussionisti. Il suo “toque” viene dal Candomblé, è diverso da quello carioca. Ognuno ha il suo timbro…».

Thiago Nassif – foto Hick Duarte

Al disco ha partecipato anche Vinícius Cantuária…
«Sì, lui vive a New York, ma era a Rio de Janeiro, così sono riuscito a coinvolgerlo. È un “violonista”, suona la chitarra, ma per caso l’ho sentito suonare la batteria: aveva un suono e una tecnica tutta sua, parte dell’universo di Vinícius. Così, in Soar Estranho e Plástico lui suona la batteria».

Non ci sono solo musicisti in Mente. O meglio, sono anche musicisti ma si occupano d’altro…
«Ho chiamato anche Bella, artista che fa una musica di ricerca, lei si costruisce gli strumenti. Ha messo strati ai brani, approfondendo sempre di più la complessità del suono. Come vedi, questo disco non l’ho fatto solo io, ma anche Arto e tutti gli amici coinvolti. È frutto della ricerca di ciascuno. Il disco cerca proprio questo equilibrio di saperi».

Apriamo una parentesi sul “rumore” a cui tu tieni molto.
«Per me il rumore è ritmo, quello che ti fa danzare, ti dà la carica, l’energia. Può essere anche una prateria testuale o musicale. Comunque è sempre presente nella nostra vita e per me dà il ritmo, scandisce il silenzio».

Perché hai deciso di chiamare il tuo album Mente?
«Mente ha un doppio significato. La mente umana, il pensare in modo razionale ma anche, nella sua forma verbale, il mentire, e mi riferisco alla situazione politica soprattutto attuale. Quest’ultimo è un discorso lungo e complesso da fare, che il Covid ha amplificato. Siamo in un momento di “post verità”, un momento molto delicato per il mio Paese. Allo stesso tempo la mente è uno specchio, una riflessione di se stessi che ci confonde. Non a caso l’immagine della cover rappresenta uno specchio dove io butto un secchio d’acqua. Riprendendo il mito di Narciso che muore affogato nel suo continuo compiacersi e specchiarsi, ecco, lui è la mia speranza, prima o poi deve svegliarsi e non finire preda di se stesso».

Arrivati a questo punto, come posso definire la tua musica? Elettronica? No-wave?
«Non solo, ho cercato di prendere l’essenziale da ogni genere della musica brasiliana una connessione più che una contaminazione per raggiungere l’essenza della musica. Dentro c’è Tropicalismo, jazz, musica sperimentale, funk carioca, musica elettronica, praterie di suoni e ritmi, lo stesso fatto di cantare in portoghese e inglese è una dimostrazione delle connessioni anche attraverso le parole».

La chiudo qui. Vi assicuro che di sostanza nella musica di Thiago Nassif ce n’è molta. I suoi lavori vanno ascoltati con attenzione, vanno apprezzate le texture melodiche, i singoli rumori mai buttati a caso, il gran lavoro percussivo, l’amalgamare suoni che apparentemente stridono. L’antropofagia culturale diventa una necessità, una sorta di chiamata a raccolta del proprio passato e delle esperienze musicali universali. Tutto viene ricondotto in melodie che contengono mondi diversi, generi diversi, strutture diverse. Connessioni reali e non virtuali…Vi lascio con Plástico, suonato con Arto Lindsay, Vinícius Cantuária, Negro Léo e Laura Wrona…