Tre dischi per la settimana che verrà

La musica è un buon rifugio per allontanare la paradossale realtà in cui ci troviamo a vivere in questa parte finale del 2022. Ci siamo liberati più o meno dall’ansia Covid e anche dalla peggiore campagna elettorale di tutti i tempi. Oggi si scopriranno i vincitori, verranno fuori errori e orrori di un manipolo di politicanti sempre più lontani dalla realtà perché incapaci di ascoltare (troppa fatica, meglio sobillare).

Ritorneranno protagonisti la “guerra in Europa”, il problema energetico, le minacce nucleari… Quindi, mi rintanerò nella musica, mi immergerò in una valanga di note per ripulirmi la mente. A chi la pensasse allo stesso modo, consiglio tre dischi, tutti usciti nella seconda metà di settembre, molto diversi tra loro, ma ricchi, istrionici, destabilizzanti. Mettetevi comodi… Continua a leggere

Disco del mese: Get On Board, Taj Mahal e Ry Cooder

Quando è uscito, il 22 aprile, via Nonsuch Records, con quella cover d’altri tempi non ho avuto dubbi. Dovevo ascoltarlo, anche perché i musicisti in questione sono due grandi, Ry Cooder e Taj Mahal. Entrambi polistrumentisti, curiosi, innovatori. Il primo con la sua passione per le musiche popolari è stato l’artefice, per esempio, dei Buena Vista Social Club, e per questo gliene saremo sempre grati! Il secondo con quella voce forte e roca che sconfina nel soul e nel funk, ha tracciato la sua vita artistica con brani e interpretazioni indimenticabili, da Statesboro Blues, tratto dal suo primo, omonimo album, dove, per inciso, collaborò anche Ry Cooder, a Ain’t Gwine to Whistle Dixie (Any Mo), a Six Days on the Road, She Caught the Katy and Left me, Mule to Ride (brano che troviamo anche nella colonna sonora di The Blues Brothers)…

Questi due signori, Taj 80 anni il prossimo 17 maggio, e Ry 75, compiuti il 15 marzo scorso, hanno deciso di ritornare a suonare insieme rivedendo alcuni brani di due pilastri del Piedmont Blues, Sonny Terry e Brownie McGhee. Lo hanno chiamato Get On Board. Porta lo stesso nome e la stessa cover del 10” che uscì nel 1952 a firma Terry/McGhee e racchiude, oltre a tre brani contenuti in quell’album, The Midnight Special, Pick a Bale of Cottom e I Shall Not Be Moved, altri sette, provenienti dai vari dischi dei due e da esibizioni dal vivo. Sulla cover, al posto dei primi piani di Sonny Terry alla chitarra, Brownie McGhee all’armonica a bocca e Coyal McMahan alle maracas, ci sono Ry, Taj e Joachim, il quarantatreenne figlio di Ry, alle percussioni. Anche il lettering è lo stesso…

La domanda che si devono esser fatti in tanti è: perché proprio quell’album? La risposta più semplice è perché Cooder e Mahal si sono formati con quella musica, da ragazzi, come hanno dichiarato entrambi, erano rimasti colpiti da quel disco, probabilmente è stato il “booster” che li ha spinti a diventare musicisti. Nel 1965 i due fondarono un gruppo, i Rising Sons che non ebbe vita lunga (per la cronaca, Taj finito il college s’era trasferito da New York, dove era nato, a Los Angeles, dove conobbe Cooder). 

Un disco letteralmente fatto in casa, spontaneo, bello, carico di sentimento e grinta, nel quale le imperfezioni sono cosa gradita: ascoltandoli sembra di stare in loro compagnia, in quel salotto con il caminetto alle spalle, un tavolinetto con due tazze, un divano e due scranni. Dal’altro lato della sala Joachim e le sue percussioni. Tutto molto semplice, puro, “raw”.

Partono forte con un blues tradizionale, My Baby Done Changed the Lock on the Door, con la chitarra elettrica volutamente sporca di Cooder, le voci che si alternano e si rincorrono. Anche The Midnight Special, un classico suonato da molti artisti (Harry Belafonte, The Springfields,  Big Joe Turner, Paul McCartney, nostalgica la versione dei Creedence Clearwater Revival) nel loro arrangiamento acquista una freschezza e una spontaneità possibile solo quando due vecchi amici si ritrovano per rivangare vecchi “accordi”. 

E ancora, Hooray Hooray, altro standard nel quale l’armonica di McGhee accelerava come un treno in corsa a tutto ragtime, qui, invece, acquista, con l’armonica di Mahal e il mandolino elettrico di Cooder, una atmosfera più pacata e… sensuale. Splendida Deep Sea Diver: Taj Mahal suona un pianoforte in presa diretta, una melodia che sembra uscire da un grammofono, o meglio, dalla porta di un locale dove sigari e bourbon sono la compagnia perfetta.

Il disco scivola così, in questo mare di note e divertimento. Drinkin’ Wine Spo-Dee-O-Dee,  cantata dalla voce ruvida di Taj Mahal ricorda una serata passata tra amici, la voce roca e impastata, mentre What a Beautiful City, un blues gospel (famosa la versione cantata e suonata alla chitarra da Joan Baez), con loro diventa un attimo mistico. E via via, con Pawn Shop Blues, Cornbread, Peas, Black Molasses, Packing Up Getting Ready to Go, si arriva al brano che chiude questa session di ricordi, amicizia e spontaneità, un’ispirata I Shall Not Be Moved. 

Un lavoro semplice ma imponente allo stesso tempo. Solo due grandi musicisti come Cooder e Mahal riescono a trasmettere, senza effetti, elettronica e diavolerie varie, in modo così nitido e puro l’essenza del Blues. La serenità di una chitarra, un’armonica a bocca e una sedia di legno dove battere il tempo. Basta chiudere gli occhi…

Rolling Stone, le classifiche e una riflessione…

Il 15 settembre Rolling Stone USA ha pubblicato la sua colonna sonora più dirimente e attesa: le 500 canzoni più belle di tutti i tempi. Il magazine, ormai ex-bibbia del rock, ha voluto pubblicare, a quasi vent’anni di distanza dalla prima edizione, una nuova revisione.

Le classifiche a cui RS ci ha assuefatto sono una buona lettura dei tempi e di quello che significa la musica, mainstream e alternativa, dagli anni Trenta del secolo scorso a oggi. Le 500 canzoni sono la summa di tutto questo, anche perché, la prima “RS hit parade”, come ben ricordano dallo stesso magazine, era del 2004, quando Billie Eilish aveva appena tre anni. A partecipare al sondaggio per decidere i brani più belli di sempre, sono stati chiamati oltre 250 tra artisti, musicisti, produttori, discografici che ne hanno selezionati, ciascuno, 50, per un totale di 4mila brani.

Con questo ampio e democratico parterre si presume sia uscita uscita una fotografia piuttosto nitida e ben incisa della storia della musica occidentale, soprattutto americana e inglese. 

Quello che più salta all’occhio è che di brani “dirimenti” dall’inizio del Terzo Millennio ne sono stati selezionati pochi, appena una settantina, per lo più provenienti dalle correnti mainstream, un pop facile e ben codificato e un rap che s’è liberato dalle origini e naviga tra bit raramente innovativi e un conformismo testuale presentato come anticonformismo. Di contro, troviamo, monolitici, i 250 e passa brani compresi nel periodo Sessanta e Settanta e i 142 scelti negli anni Ottanta e Novanta, oltre a poche decine che arrivano tra il 1930 e il 1950.

Di artisti ce ne sono tanti – anche se, per esempio, non si vedono tracce del periodo prog inglese, King Crimson, Genesis, Yes, Traffic, gli Emerson, Lake & Palmer – alcuni ritornano più volte in classifica (vedi Aretha Franklin, Beatles, Rolling Stones, Pink Floyd, Prince, Bob Dylan, Lou Reed, Led Zeppelin, Bob Marley, Bruce Springsteen, David Bowie…) ma quello zoccolo duro di brani memorabili, immancabili, oserei, eterni, nati dalla seconda metà degli anni ’60 alla fine dei Settanta sono la riprova, se mai fosse stato necessario, di quanto le esperienze musicali, sociali, politiche di quegli anni abbiano generato una svolta epocale nelle arti, e soprattutto nella musica, a cui tutti, ancora oggi si rifanno a piene mani. Una rivoluzione che dobbiamo ancora vivere in questo nuovo millennio.

E, dunque, non può suonare strano se  il miglior brano di tutti i tempi sia stato scritto da Otis Redding e pubblicato nel 1967 dalla grande Aretha Franklin. Sto parlando di Respect, una delle canzoni più suonate di sempre. Il secondo posto se lo sono aggiudicato i Public Enemy con Fight the Power (1989), mentre il terzo e quarto appartengono rispettivamente a Sam Cooke, uno dei principali esponenti della soul music degli esordi, con A Change Is Gonna Come (1964) e l’eterno Bob Dylan con la sua altrettanto immortale Like a Rolling Stone (1965). Al quinto ci sono i Nirvana con Smells Like Teen Spirit del 1991, e via via Marvin Gaye con What’s Going On (1971), The Beatles con Strawberry Fields Forever (1967), il rap di Missy Elliott, Get Ur Freak On (2001), i Fleetwood Mac e la loro splendida Dreams (1977), e gli Outkast con Hey Ya! (2003)…

Il resto della classifica, numeri alla mano, rispecchia la prima decina. Ne deriva che, nell’esperimento musicale (e, a questo punto, anche sociale) di RS in novant’anni di musiche selezionate, il nocciolo importante, salvo rare eccezioni, rimane chiuso in poco più di trent’anni. Quei trent’anni che hanno visto rock, punk, soul, funk, jazz, nascere e rinascere, reinventarsi, crescere, svilupparsi, contaminarsi, classicismo e sperimentazione a ciclo continuo, effervescenza di note, idee, pulsioni.

In attesa di una rumorosa, spettacolare, necessaria rivoluzione epocale – che sinceramente non vedo – vale la pena rimettersi all’ascolto di quella Musica. Per rivangare ricordi, quelli delle generazioni vicino alla mia, per imparare un po’ di background le nuove leve del Duemila.

Thiago Nassif, la nuova musica brasiliana. Parola di Arto Lindsay

Thiago Nassif in un ritratto di Caio de Paiva

Quando si parla di musica brasiliana, quelli della mia “era” – cresciuti tra gli anni Settanta e Ottanta – sono rimasti ancorati ai classici della bossanova (nata alla fine dei Cinquanta) e ai psichedelici Os Mutantes, parte di quel movimento, il Tropicalismo, che ha rivoluzionato la musica brasileira assieme a Caetano Veloso, Gilberto Gil, Gal Costa, Maria Bethania, Tom Zé… ma anche al rock del mitico Raul Seixas, al punk, quello nato a Brasília con gruppi come i Plebe Rude, per intenderci, ai roqueiros di São Paulo, i Barão Vermelho, i Titãs, a Rio de Janeiro i Paralamas do Sucesso, a Porto Alegre gli Engenheiros do Hawaii, nel metal, i Sepoltura… Insomma, un fermento musicale incredibilmente vario che – almeno a me – ha fatto chiudere occhi e orecchie alla musica venuta dopo.

Il mainstream di oggi è quello del resto del mondo: l’urban nelle sue varie declinazioni, il pop di facile successo alle Anitta, che, sinceramente, mi getta in un profondo sconforto. Tutta questa tirata per dirvi che la mia idea su una musica brasiliana ferma, ripetitiva, poco o per nulla creativa, improntata a quel declino culturale che è arrivato – ed è un paradosso – con i social, ha incominciato a incrinarsi quando ho ascoltato Thiago Nassif.

C’è vita su Marte, ho pensato! Qualcosa di davvero originale, nuovo, profondo, ricercato, raggiungeva l’Europa. Thiago ha 41 anni è nato e cresciuto a São Paulo, si è trasferito a Rio de Janeiro «perché c’è più fermento creativo». Ha pubblicato il suo quarto album, Mente, uscito giusto un anno fa, un disco esemplare che ha seguito un percorso coerente, testimoniato dai suoi precedenti lavori, soprattutto Práxis, del 2011, e Três, del 2016 (rieditato due anni dopo per la casa discografica inglese Foom), coprodotto con Arto Lindsay.

Proprio ieri è stato pubblicato un remix firmato da Cornelius, il musicista, produttore e dj giapponese, di Pele de Leopardo, secondo brano di Mente. Così, dopo mesi che lo seguo attraverso la sua musica, ho deciso di chiamarlo via Meet e intervistarlo.

Lui ha accettato volentieri: «Che bello, l’Italia si sta sempre più interessando a me, con lei ho un legame, una connessione, anche perché mia nonna materna era italiana», mi dice contento, sorseggiando il primo bicchiere di un intero bricco di caffè. Mi incuriosiva conoscerlo anche perché, quando uscì Mente, il New York Times lo inserì in una sofisticata playlist estiva. La recensione del disco terminava con un complimento categorico: “It’s music of nowhere and everywhere, disappearance and arrival, the archive becoming the now”.

Se credete, come io credo, alla ripetitività della storia, ebbene, permettetemi questo paragone: se il Tropicalismo si basava su un’antropofagia culturale, presa a modello dal Manifesto Antropofago stilato dal poeta Oswald de Andrade nel primo Novecento, oggi Thiago è uno dei consapevoli esponenti di un’antropofagia cultural-musicale, che si manifesta in un desiderio di usare tutto quello che l’eredità della sua terra – e non solo – mette a disposizione, dai canti indigeni alla bossanova, dal samba al funk brasileiro, proponendo un suono nuovo, dove conta molto il rumore e anche il silenzio. Non è un caso che il grande Arto Lindsay lo abbia capito e spronato. Ora sono grandi amici, compongono insieme, si intendono alla perfezione. Arto di Thiago dice: «È la musa ispiratrice della nuova generazione di compositori brasiliani».

La cover del singolo “Pele de Leopardo”, remix di Cornelius uscito il 28 maggio 2021.

Thiago, sono curioso, ho un sacco di cose da chiederti. È giusta la mia sensazione di un Brasile culturalmente impoverito nell’ultimo ventennio?
«Al contrario, c’è molto movimento, pensa al funk brasileiro, nato nei sobborghi, nelle favelas. Ogni città, ogni stato di questo Paese ha il suo funk, c’è quello carioca, quello Paulista e via dicendo. Anche il funk, come il samba, è una musica che ha una discendenza africana, che è nato dal basso ed è espressione popolare. Credimi, il Brasile oggi ha molto da offrire, grazie alla musica dell’Afro-diaspora. Per esempio, pensa alla musica nordestina, a Siba (artista pernambucano con il quale ha collaborato lo stesso Arto Lindsay, n.d.r.), un costrutto tradizionale che si evolve. Ma anche ai canti indigeni – non dobbiamo dimenticare il loro apporto alla nostra musica, il loro costrutto canoro è molto geometrico, ma non inteso in forma pitagorica! Si tratta di un lavoro a cui ho partecipato come musicista e produttore, è un disco di canti degli indios Huni Kuin. Al canto, Bella e io abbiamo aggiunto delle sculture sonore, Bruno di Lollo il sintetizzatore,  Domênico Lancellotti l’MPC1000. Il tutto per esaltare il potere della voce di Ibã Sales, Uma voz da Floresta Encantada».

Con quale genere musicale ti sei formato? Cosa ascoltavi da ragazzo?
«Mio padre, Zé Nassif, aveva tantissimi dischi, ascoltava molta musica, soprattutto rock, musica strumentale, adorava l’arpista Andreas Vollenweider e il compositore greco Vangelis Papathanassiou, autore di numerose colonne sonore, tra cui quella di Blade Runner…». Verso i dodici anni mi ha preso il blues, la musica nera americana, il movimento di Chicago che gravitava intorno alla Chess Records. Lo studiavo a fondo, ero rapito e interessato al punto che ero arrivato a una conclusione: volevo suonare il Blues. A mio padre piaceva la musica straniera, io, crescendo, mi sono appassionato alla musica brasiliana tradizionale, grazie a mia nonna che abitava all’interno dello Stato di São Paulo. Adoravo la Moda de Viola, una musica delle radici, legata alla terra, eseguita con quello splendido strumento che è la Viola, una chitarra a dieci corde. Ad ascoltarla potrai notare che ha basi di blues e country, quello del Mississippi. Crescendo ho imparato ad amare lo Choro…».

Lo Choro, un antesignano del jazz…
«Esatto, una musica dove si improvvisava dentro rigidi canoni. La mia svolta musicale l’ho avuta a 13 anni con la chitarra elettrica. Per me è stata un vero impatto, mi affascinava l’elettrificazione dei suoni, come li puoi cambiare. Ricordo che mio papà comprò una pedaliera: non riuscivo ad usarla, non la capivo anche se mi ci applicavo. Un giorno venne un suo amico con un solo pedale, e lì mi si è aperto un mondo, ho iniziato a curiosare tra i suoni, a registrarmi con un registratore a quattro piste, ad ascoltarmi, ad apprezzare il rumore della cassetta che emetteva il suono. A 18 anni ho deciso di registrare un album. Andai in studio di registrazione ma ho odiato il suono che il tecnico mi presentava. Non c’era proprio, dovevo imparare a costruire il suono come lo volevo io…».

Cosa hai fatto per trovarlo?
«Mi sono iscritto a ingegneria del suono negli Stati Uniti, nel Tennessee, a Nashville, nel punto nevralgico della musica americana. Mi sono laureato. In quegli anni di studio avevo messo su una band con altri colleghi e grandi amici, i Cowboy Movie. Facevamo un folk psichedelico con molti interventi di Noise. Tornato a São Paulo con alcuni amici abbiamo formato un’altra band, gli Epicac Tropical Banda (ci trovi su Bandcamp), band concettuale con improvvisazioni quasi jazzistiche».

Quando hai deciso di andare a vivere a Rio de Janeiro?
«Nel 2014. Mi sono trasferito a Rio perché la scena musicale – e non solo – era molto diversa da quella di São Paulo. La libertà era un’altra, c’era una forte relazione tra i vari movimenti culturali, Rio era un frullatore: arti visive si mescolavano a jazz, musica brasiliana a musica sperimentale suonata solo da macchine. Tutti facevano capo per lo più allo studio di registrazione Audio Rebel».

Arto Lindasy e Thiago Nassif – Foto Rogerio Vonkruger

E lì c’era anche Arto Lindsay…
«Sì ci siamo conosciuti in quell’ambiente, ci siamo scambiati idee. Lui ha prodotto il mio terzo album Três, siamo diventati amici, lavoriamo spesso insieme. Arto mi chiama per collaborare a suoi lavori, che sia un disco o un’installazione sonora. Lui suona la chitarra al di fuori delle convenzioni, usando delle melodie con inserti ispidi, rumorosi…».

Veniamo a Mente, lo hai definito un disco di connessioni…
«Perché è proprio questo, un disco costruito su una mia base da molte persone che ho scelto con attenzione. Ciascuna di queste ha dato quello che era necessario al lavoro. Quando componevo con una chitarra elettrica e un semplice pedale Looper pensavo a quali fossero gli artisti giusti che potessero dare il loro apporto in termini estetici, melodici e armonici. In questo viaggio mi hanno accompagnato, formando strati musicali, Pedro Sá, Guilherme Lirio, Menino Brito, un percussionista fantastico che suona samba con Pretinho da Serrinha. Lui ha portato il suo bagaglio, che è diverso dal mio, suonando la cuica in Vóz Unica Foto Sem Calcinha. Lo stesso dicasi per Sergio Azul: viene da Bahia suona in un afro-bloco gigantesco di percussionisti. Il suo “toque” viene dal Candomblé, è diverso da quello carioca. Ognuno ha il suo timbro…».

Thiago Nassif – foto Hick Duarte

Al disco ha partecipato anche Vinícius Cantuária…
«Sì, lui vive a New York, ma era a Rio de Janeiro, così sono riuscito a coinvolgerlo. È un “violonista”, suona la chitarra, ma per caso l’ho sentito suonare la batteria: aveva un suono e una tecnica tutta sua, parte dell’universo di Vinícius. Così, in Soar Estranho e Plástico lui suona la batteria».

Non ci sono solo musicisti in Mente. O meglio, sono anche musicisti ma si occupano d’altro…
«Ho chiamato anche Bella, artista che fa una musica di ricerca, lei si costruisce gli strumenti. Ha messo strati ai brani, approfondendo sempre di più la complessità del suono. Come vedi, questo disco non l’ho fatto solo io, ma anche Arto e tutti gli amici coinvolti. È frutto della ricerca di ciascuno. Il disco cerca proprio questo equilibrio di saperi».

Apriamo una parentesi sul “rumore” a cui tu tieni molto.
«Per me il rumore è ritmo, quello che ti fa danzare, ti dà la carica, l’energia. Può essere anche una prateria testuale o musicale. Comunque è sempre presente nella nostra vita e per me dà il ritmo, scandisce il silenzio».

Perché hai deciso di chiamare il tuo album Mente?
«Mente ha un doppio significato. La mente umana, il pensare in modo razionale ma anche, nella sua forma verbale, il mentire, e mi riferisco alla situazione politica soprattutto attuale. Quest’ultimo è un discorso lungo e complesso da fare, che il Covid ha amplificato. Siamo in un momento di “post verità”, un momento molto delicato per il mio Paese. Allo stesso tempo la mente è uno specchio, una riflessione di se stessi che ci confonde. Non a caso l’immagine della cover rappresenta uno specchio dove io butto un secchio d’acqua. Riprendendo il mito di Narciso che muore affogato nel suo continuo compiacersi e specchiarsi, ecco, lui è la mia speranza, prima o poi deve svegliarsi e non finire preda di se stesso».

Arrivati a questo punto, come posso definire la tua musica? Elettronica? No-wave?
«Non solo, ho cercato di prendere l’essenziale da ogni genere della musica brasiliana una connessione più che una contaminazione per raggiungere l’essenza della musica. Dentro c’è Tropicalismo, jazz, musica sperimentale, funk carioca, musica elettronica, praterie di suoni e ritmi, lo stesso fatto di cantare in portoghese e inglese è una dimostrazione delle connessioni anche attraverso le parole».

La chiudo qui. Vi assicuro che di sostanza nella musica di Thiago Nassif ce n’è molta. I suoi lavori vanno ascoltati con attenzione, vanno apprezzate le texture melodiche, i singoli rumori mai buttati a caso, il gran lavoro percussivo, l’amalgamare suoni che apparentemente stridono. L’antropofagia culturale diventa una necessità, una sorta di chiamata a raccolta del proprio passato e delle esperienze musicali universali. Tutto viene ricondotto in melodie che contengono mondi diversi, generi diversi, strutture diverse. Connessioni reali e non virtuali…Vi lascio con Plástico, suonato con Arto Lindsay, Vinícius Cantuária, Negro Léo e Laura Wrona…