Blues e jazz. Per questo fine settimana vi ho apparecchiato un pranzo esaltante. Primo piatto, la ristampa di un disco firmato da due assi del blues di metà Novecento, Sam “Lightning” Hopkins e Sonny Terry, registrato nel 1960 e pubblicato il primo gennaio del 1961, Last Night Blues. Come secondo piatto vi consiglio un lavoro spumeggiante direttamente da Londra: gli Ezra Collective, giovane band crossover che ha rilasciato il terzo disco Dance, No One’s Watching, un potente invito alla danza e al divertimento e, per chiudere in bellezza e bontà, come dessert, l’album del franco libanese Ibrahim Maalouf, Trumpets of Michel-Ange. Mettetevi comodi e ascoltateli, sarà un gran bel weekend di musica! Continua a leggere
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Interviste: Fede ‘n’ Marlen, Napoli e la Terra di Madonne
C’è un disco che sto ascoltando da una settimana con una certa frequenza. E dentro a questo album, custodito come in uno scrigno, c’è un brano, vecchio di 70 anni. Una piccola perla, rotonda e struggente, perfetta. Una canzone che in tanti hanno reinterpretato nel corso del tempo e che è diventata un simbolo della “napoletanità”: Malafemmena. Da Totò, che la compose nel 1951 dedicandola all’amore che la gelosia divorava, quello per Diana Bandini Lucchesini Rogliani, che sposò e da cui ebbe una figlia (ci sarebbe da aprire un bel capitolo su questa storia di possesso dei sensi), passando per Renato Carosone, Roberto Murolo, Massimo Ranieri, Mina, Franco Califano, Gigi D’Alessio… Però, che vi devo dire? Dovete ascoltare questa nuova veste minimal! Per niente banale.
È di un duo che viene da Napoli, due donne, due musiciste che lavorano insieme da otto anni, che hanno incontrato le loro voci e non si sono più lasciate. Si tratta di Fede ’n’ Marlen. Il loro album è Terra di Madonne, uscito il 15 dicembre scorso per Full Heads Records & AreaLive. Malafemmena è l’ultimo brano del disco, solo voci, le loro, e un contrabbasso suonato, con un arrangiamento magico, da Ferruccio Spinetti. Un dialogo dove Marlen canta in spagnolo e Fede in napoletano, per 2 minuti e 2 secondi di intensa bellezza.
E proprio Terra di Madonne e Malafemmena mi hanno spinto a chiamare Fede ’n’ Marlen, ovvero, Federica Ottombrino e Marilena Vitale, per farmi raccontare il loro nuovo lavoro. Il titolo è quanto mai azzeccato: Napoli e i suoi capitelli votivi, Napoli e le sue credenze tra il religioso e il pagano, il ritratto di una città che per noi del Nord è un altro mondo.
Per me arrivare a Napoli è come raggiungere Bahia, lo stato brasiliano culla della musica brasileira. Crogiolo di razze, venute per bisogno o portate per forza. Un nuovo popolo che ha dato vita a ritmi e armonie esportate in tutto il mondo. Napoli è la nostra Bahia, penso, città dove non tutto sarà perfetto, ma la fantasia, il ieitinho, direbbero in Brasile, ti fa fare cose grandi. Nove brani, 28 minuti e 28 secondi in totale, con una narrazione fitta dove c’è il posto per il rapporto tra il divino e l’umano, ma anche per altri temi, vedi la solitudine, le incomprensioni, il rispettare chi non è come te. In Isole cantano: Le tempeste vanno dove ha sete/ Dove si può sopravvivere/ e niente le può più spegnere… Le storie continuano, come le melodie. Quello che colpisce è la fluidità con cui Federica e Marilena passano dallo spagnolo al francese all’italiano al napoletano. Passaggi voluti e cercati perché il significato è qualcosa di più alto di una semplice canzone. C’è, appunto, e voglio essere ripetitivo, inclusione, storia, tradizione, amore, consapevolezza.
Partiamo da Malafemmena…
Marilena: «È stato un omaggio a Totò per i 70 anni del brano. L’arrangiamento lo ha fatto Ferruccio Spinetti. Quando siamo entrati in sala di registrazione eravamo nel panico più totale. Massimo De Vita (il produttore artistico dell’album, ndr) ci ha messo a disposizione due salette di registrazione, preparate in modo da esaltare le nostre voci. Abbiamo registrato contemporaneamente. Una gran bella esperienza».
Federica: «È un brano che proponiamo spesso ai nostri live, come bis. Così ci siamo dette che lo dovevamo ai nostri ascoltatori che ci hanno seguito in otto anni di concerti. Marilena ha adattato il testo in spagnolo, Ferruccio Spinetti ha trovato un arrangiamento bellissimo e ci siamo lanciate».
Marilena: «È un regalo a noi stesse e al pubblico!».
Così è nato un piccolo gioiello! Voi usate spesso, oltre all’italiano e al napoletano, anche il francese e lo spagnolo.
Federica: «Napoli è terra di francesi e spagnoli. Questo è il motivo “storico”. Poi c’è anche una sonorità in queste lingue che ci permette di esprimerci al meglio. Il napoletano ti dà un certo ritmo. E poi le parole sono fondamentali, il suono ha un significato. Se parlo di pancia, parole viscerali, carnali, è come se parlassi a mia madre e parlo in napoletano. Se devo calibrare le parole, come se mi rivolgessi a mio padre, uso la testa e, quindi, l’italiano viene spontaneo. Non so spiegarti il perché, da sempre è così».
Marilena: «Le parole hanno una grande importanza per noi, al punto che la produzione artistica può mettere becco sulla musica ma non sul testo. L’italiano ha tante sfumature per dire la stessa cosa, il napoletano ne ha una, ed è quella. Per farti un esempio, la parola gabbia ti fa venire in mente la prigione, la gabbia dove rinchiudere grossi animali, un posto chiuso da dove non si esce. Invece, se dico caiola, questa in napoletano ha un solo significato: la gabbietta per gli uccellini (citazione da Fantasma, brano scritto da Marilena, ndr), una gabbietta con la chiave che puoi aprire quando vuoi. Il napoletano è uno strumento sonoro ma anche molto settoriale».
Come vi siete trovate? Avete delle voci complementari…
Federica: «Non siamo noi che ci siamo trovate ma le nostre voci. Queste sono diventate amiche molto prima di noi. Devi trattare bene la voce, è come un’altra persona che ti abita, la devi accudire, rispettare, amare. Otto anni fa le nostre voci si sono incontrate. Da allora abbiamo fatto tre dischi insieme».
Marilena: «Vero, è andata così, e poi abbiamo un modo simile di intendere la vita».
Come nascono le vostre canzoni?
Federica: «Scriviamo separate perché abbiamo diversi modi di lavorare. Io prima scrivo i testi poi la melodia. Marilena, invece, fa tutto contemporaneamente…».
Marilena: «Suono un giro di accordi, quando vedo che hanno un senso, inizio a cantare una melodia».
Federica: «Devo ritagliare degli spazi per me. Tre anni fa sono diventata mamma e tutto, ovviamente si è complicato. Ma va bene così. Quando è possibile mi chiudo nella mia stanza al pomeriggio con la chitarra e compongo. Scrivere è terapeutico».
Poi sottoponente una all’altra le vostre idee?
Federica: «Per farti venire l’ispirazione ti compri un libro, ti vai a vedere una mostra. Le parole le studiamo una a una, possiamo stare anche cinque mesi su una sola che non ci convince».
Federica, tu suoni anche la fisarmonica?
«Una passione nata per caso quando sono andata a vedere un concerto di Dolores Melodia (nome d’arte di Antonella Monetti, musicista e attrice, ndr). Quella donna che suonava la fisarmonica sul palco, mi ha provocato un impatto così forte di bellezza e potenza che mi ha spinto a studiare questo strumento. Ne suono uno che ha un secolo di vita, è del nonno di mia moglie. Comunque è uno strumento molto difficile…».
Marilena tu, invece, suoni la chitarra?
«Ho iniziato presto, a 13 anni. Suonavo le canzoni di Carmen Consoli. Mi piaceva come cantava, mi piace come ha affrontato la sua carriera artistica. Ha iniziato a studiare musica dopo aver pubblicato tre o quattro album, quando era già famosa. Peccato che sia sottovalutata come cantautrice».
A questo proposito: che cosa vi piace ascoltare?
Marilena: «Posso dirti che non ascolto musica così. Piuttosto mi fisso su un genere, un autore. Ho delle specie di ossessioni, magari per un anno mi dedico solo a Caetano Veloso, un altro anno ai Tinariwen, un altro ancora voglio sapere tutto sulla musica russa… Sono convinta che se fai ascolti generici assorbi poco, per capire è necessario apprendere con calma, così vai in profondità. Oltre alla Consoli, comunque, mi piace anche Cristina Donà».
Federica: «Il mio modo di ascoltare musica in questo momento è focalizzato allo studio. Dunque, ascolto per imparare, capire. Ultimamente sto sentendo molto La Rappresentante di Lista…».
Avete fatto molti live, finché era permesso…
Federica: «Non ci siamo mai volute fermare solo in Campania. La nostra musica senza il viaggio non è la stessa. Il viaggio è la terza gamba su cui poggiano Fede ’n’ Marlen. In tutti questi anni abbiamo conosciuto molte persone, sono nate tante amicizie. Abbiamo le nostre famiglie ovunque, che andiamo a trovare, dove trascorriamo del tempo insieme, ceniamo, ci divertiamo. Ora il disco lo stiamo portando in giro nella nostra regione causa Covid. Ci fermeremo in tutte le province!».
Prima di salutarvi, un’ultima domanda: che cos’è per voi la “napoletanità”?
Marilena: «Se guardiamo con attenzione, in Italia ci sono due mondi riconoscibili, quello siciliano e quello napoletano. Penso che il luogo ti abiti. La “napoletanità” come modo di vivere, di suonare servirebbe tantissimo a tutti. Ma poi, siamo disorganizzati, poco professionali e poco credibili. Napoli è una città dove “me la suono e me la canto”, quel patriottismo che ti fa essere accogliente e si finisce nei luoghi comuni, molto autoreferenziali e poco curiosi. Che so, a Napoli non esiste che esci una sera e vai a mangiare in un ristorante thailandese…si va a mangiare la pizza!».
Federica: «C’è poi la parte positiva, l’altra faccia della medaglia, abbiamo una grande tradizione, musicale, letteraria, culinaria. Siamo radicati in quello che abbiamo e poco aperti al mondo».
Marilena: «Fuori di qua ci sono dieci mondi! Napoli sta nel settimo. Quando torni qui lo noti subito: ci sentiamo a casa, ovvio, in una città con le sue verità e umanità ma con una burocrazia 0.1! E così è anche nelle produzioni…”.
Federica: «Logisticamente per noi è ottima. Poi, se decidi di vivere qui è una scelta d’amore!».
Backbone, soundtrack e la bravura di Arooj Aftab
Nello scorso giugno è uscito in Italia Backbone, videogioco sviluppato dalla canadese EggNut. Non oso addentrarmi nel vasto mondo dei games, innanzitutto perché non ne so un accidenti, secondo perché non mi hanno mai attirato (mea culpa), nonostante ne riconosca una creatività senza limiti e una bellezza intrinseca.
Tornando a Backbone, ve ne parlo perché la colonna sonora è stata scritta da Nikita Danshin, cofounder di EggNut, e pure musicista, e da una nostra apprezzata conoscenza, Arooj Aftab, autrice di un bellissimo disco uscito il 23 aprile scorso, Vulture Prince di cui vi ho parlato qui.
Il fatto che la Aftab abbia voluto mettere la sua firma assieme a quella di Danshin sulla colonna sonora di un videogioco lo trovo perfettamente in linea con il lavoro artistico e culturale di una musicista curiosa, colta, intrigante come è lei, di origine pakistane, laureata al Berklee College of Music di Boston, da anni a New York. Quello che ne è uscito è un lavoro di bella struttura, dove atmosfere jazz, doom e trip-hop si fondono, cupe, per arricchire un racconto/gioco noir, dedicato a chi ama le sottili trame della crime story investigativa, ambientato in una Vancouver distopica, dove i vari personaggi che popolano la sceneggiatura sono animali antropomorfizzati (l’investigatore, Howard Lotor, è un procione). Così, tra scimmie, topi, cavalli, cani, maiali si snodano la strada investigativa e, con questa, le trenta tracce musicali che incanalano ansie, colpi di scena, dialoghi e deduzioni dei personaggi. Ascoltate I Wonder oppure The Warmth of Parents’ Hands, e poi ditemi la vostra.
Non ho scoperto nulla, ovvio. Molti artisti da anni si cimentano nel rendere i videogames un prodotto d’alta qualità anche nell’aspetto musicale, basti pensare a Jeremy Soule, pluripremiato pianista e compositore, che ha lavorato in oltre 60 produzioni, tra queste, le serie di Harry Potter e di The Elder Scrolls, oppure le avvincenti avventure western, vera epopea, di Red Dead Redemption 2, dove si possono trovare Woody Jackson, altro pioniere della musica per video games, che in qualche brano, da intenditore, si rifà a Ennio Morricone, il sassofonista jazz Colin Stetson, il trombettista Michael Leonhart e la dj, produttrice, cantautrice venezuelana Arca, o la soundtrack di The Last Of Us dell’argentino Gustavo Santaolalla, vincitore di due premi Oscar (Brokeback Mountain, 2005, e Babel, 2006).
Se ne avete voglia dedicatevi all’ascolto di soundtrack per videogames, al di là dello scopo per cui sono state create. Troverete ottima musica, dove la bravura e la fantasia degli autori permettono loro di spaziare oltre i canoni di un semplice – e scontato – disco da pubblicare per il proprio pubblico. Altamente raccomandabili!