Tre dischi freschi di scaffale

In questa settimana, da venerdì scorso a oggi, sono usciti tanti lavori interessanti. Ne ho selezionati tre, che spaziano tra jazz, musica afrobrasiliana e rock alternativo. Tutte produzioni di qualità elevatissima, visti gli artisti: il mitico pianista Abdullah Ibrahim, Josyara, giovane cantautrice brasiliana e The Smile, il supergruppo spin-off dei Radiohead composto dall’inarrestabile Thom Yorke e da Jonny Greenwood più l’ex batterista dei Sons of Kemet, Tom Skinner. 

Gran buona musica, anche per chi, per esempio, naviga poco tra le onde del jazz o non conosce la Timbalada, gruppo afro carnevalesco bahiano fondato da quell’istrione di Carlinhos Brown e da Tony Mola, da cui Josyara ha ricavato i brani riarrangiati di questo disco. Per chi ha amato i Radiohead, il ritorno sotto smentite spoglie di Yorke e Greenwood  (non nuovi a questi progetti) è un sound che riporta dritti dritti agli anni Novanta. Continua a leggere

Buon 2023, che sia un anno di musica

Ci stiamo lasciando alle spalle un anno difficile, dove, al di fuori della musica, si sono concatenati molti avvenimenti che hanno (stanno) condizionando il nostro vivere. E la musica, così capace di annusare il mondo, seguirà sicuramente le traiettorie delle Mongolfiere, quelle cantate da Gianmaria Testa: cercherà quelle tracce impercettibili che solo un artista può fare nella sua lucida creatività. Continua a leggere

Piano City Palermo, nuova edizione in corso fino a domani

Ricciarda Belgiojoso, direttrice artistica di Piano City Palermo

È iniziata ieri la quinta edizione di Piano City Palermo, tre intensi giorni di musica dedicati allo strumento per eccellenza, quell’arpa, come mi disse un artista, racchiusa in uno scrigno di legno che riesce sempre a incantare e catturare, indispensabile per ogni musicista. Molto spesso le partiture, anche se per altri strumenti, vengono composte al pianoforte. 

Sto scrivendo questo post mentre ascolto uno degli album – secondo me, ovviamente – più intensi dedicati a questo strumento, You must belive in Spring di Bill Evans, con Eddie Gómez al contrabbasso ed Eliot Zigmund alla batteria. B Minor Waltz, The Peacocks, We Will Meet Again sono opere d’arte. Nel disco, rimasterizzato proprio quest’anno, c’è anche una versione del classico Without a Song davvero strepitosa.

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Eurovison 2022: Europa in musica e cultura massificata

Stasera spegnerà le sue mille luci Eurovision Song Contest, il Sanremo d’Europa. Essendomi imposto di ascoltare tutte le canzoni in concorso, ascoltate nude, senza il corollario di tori roteanti, lucine, sfavilliii, ho avuto più e più attimi di sconforto. Lo confesso.

Nulla contro lo spettacolo in sé, uno storico festival della canzone famoso nel mondo. Nato nel 1956 per presentare, sull’onda di Sanremo, la tradizione musicale e canora d’Europa, è stato un modo per contribuire ad avvicinare i Paesi riconciliati, la musica e le culture in essa espresse potevano diventare uno dei collanti per costruire una nuova Europa, possibilmente unita. Con gli anni il senso è cambiato ed è diventato un evento, un grande spettacolo mondiale, Insomma, una macchina da soldi.

Ho ascoltato le canzoni “nude”, dicevo. Delle peculiarità dei singoli Paesi, a parte qualche accenno di ritmo o qualche strumento tradizionale inserito per titillare la memoria dell’ascoltatore, il resto è un pop light, dove s’è attinto a piene mani impastando rock, popmusic anni Ottanta e Novanta, echi di acid jazz, pizzichi di funk e frammenti di Morricone q.b. Un piatto ben servito!

Qualche esempio? Gli sloveni LPS con Disco, sono un’imitazione imbarazzante dei Jamiroquai… la svedese Cornelia Jackobs in Hold Me Closer richiama sostanziosamente la Lady Gaga di Shallow. I Cechi We Are Domi in Lights Off ricordano tanto il pop sbarazzino di Ariana Grande

E se la lituana Monika Liu con Sentimental fa tornare alla mente la brava Caro Emerald, con un pezzo ben assemblato, il tedesco Malik Harris in Rockstars si allinea alle tante ballad cantate e rappate con crescendo alla Eminem (non è il solo…). Continuo: l’inglese Sam Ryder, con Space Man, oltre a portare lo stesso nome, assomiglia, all’inizio del brano, terribilmente a Sam Smith, per cambiare progressivamente e trasformarsi in Freddie Mercury, in uno dei classici crescendo alla Queen… E ancora: l’estone Stefan con Hope, fa il verso al grande Ennio Morricone con tanto di cori, chitarre western e fischio: cosa non si fa… Per un Pugno di dollari.

Capitolo a parte per gli ucraini Kalush con il brano Stefania. È un classico rap con rimembranze local, cori inclusi. Sono ucraini, inevitabile che stiano funzionando da catalizzatore, un simbolo di quanto sta succedendo oggi in quel Paese. Vien da sorridere, se non ci fossero di mezzo distruzione e morte. Siamo a quasi tre mesi di guerra scatenata dalla Russia e alimentata dall’America con lo scopo di “aiutare”… Una guerra dove chi deve guadagnare, guadagna e chi deve morire, muore, senza imbarazzi. Li danno per favoriti, anche se la musica, credo, c’entrerà poco nelle scelte dei votanti.

C’è da tener d’occhio anche il Portogallo con Maro e la sua Saudade Saudade, e Mahmood & Blanco (nell’ascolto generale devo ricredermi sul loro brano, nettamente una spanna sopra). Un solo rammarico, ovviamente per il sottoscritto: l’eliminazione dei georgiani Circus Mircus con il brano Lock Me In, un funk rock con accenni beat anni Sessanta, ben suonato. Allegri, spavaldi, teatranti, lo specchio della Georgia, terra aperta e accogliente da sempre.

Concludo: vinceranno probabilmente i Kalush e mi starà bene, l’attenzione del mondo è lì. D’altronde quello dell’Eurovision è un festival fatto per stupire con effetti speciali, ricchi premi e cotillon, come diceva Renzo Arbore a L’Altra Domenica. Ma anche per riflettere, a gentil volo d’angelo, sui problemi e sulle battaglie sociali. Tutto all’acqua di rose: lo show deve andare avanti, divertire, commuovere, con un pizzico di tristezza e uno di verità. Ricetta sperimentata non si cambia. 

Caro Lucio rispondo… la “lettera” di Rossomalpelo a Lucio Dalla

L’altro giorno, con Dan Costa, siamo finiti a discutere di estetica della musica. Per il musicista italo-lusitano la musica non può avere interferenze, vedi il testo, perché questo “rovinerebbe”, anzi, interpreto meglio, “altererebbe” l’armonia e la purezza del suono. Visione più che legittima, se aprissimo un dibattito staremmo giorni a dire la nostra. Non per semplificare, ma c’è musica per ogni momento, un linguaggio che può assorbire altri linguaggi, e sta proprio qui la sua meraviglia! Per questo voglio condurvi, per dirla con i Pink Floyd, on the other side of the moon, per parlare non di melodie ma di parole, testi, poesie, estetica del linguaggio.

Me ne offre l’occasione un artista romano, una bella persona, di gran cultura e altrettanta passione, uno di quelli che usa la scrittura per far suonare la vita. Si chiama Sergio “Rossomalpelo” Gaggiotti. Di professione è musicista, paroliere, scrittore, sceneggiatore di testi teatrali, autore di colonne sonore. Nel suo lungo curriculum è stato pure arrangiatore e direttore artistico per il primo disco dei Presi per caso, gruppo musicale formato nel carcere di Rebibbia, attivo ancora oggi. Proprio questa settimana, Rossomalpelo è stato invitato dall’Instituto Cubano de la Música a esibirsi, in maggio, al festival Cubadisco, ma anche a tenere, con orchestre locali, una tournée sull’isola da cui nascerà un disco.

Mi ha incuriosito il suo ultimo lavoro uscito il 4 marzo: Carlo Lucio rispondo, album che risente fortemente della pandemia e dei lockdown, interpretati come smarrimento dell’oggi, dove in questo etereo benessere, l’arrivo di un virus, seppur bastardissimo, ha fatto saltare i concetti di libertà, condivisione, cultura, democrazia. La guerra di Putin, poi, non ha fatto altro che confermare la deriva di un mondo che ha perso i contatti con la realtà. Mi ha colpito il titolo dell’album, che richiama la frase iniziale de L’anno che Verrà, una delle canzoni più famose di Lucio Dalla, pubblicato nel 1979. Senza essere alla ricerca di facili protagonismi, visto il decennale della morte dell’artista bolognese, Sergio pensando a tutto quello che abbiamo passato e stiamo vivendo, ha trovato il modo per raccontare l’attualità rispondendo alla famosa lettera che Lucio indirizzò 43 anni fa e a cui nessuno, finora, aveva dato ufficialmente risposta.

Uno scambio epistolare, insomma. Dice: «Da piccolo ero rimasto colpito dal brano, uno che “canta una lettera”, ma anche dal fatto che nessuno si fosse pensato di dire: me lo chiedi? Ecco, ti spiego io cos’è successo».

Venendo al disco: sono 24 minuti e 15 secondi ricchi di considerazioni, c’è tristezza, apatia, ironia, allegria. Gaggiotti è riuscito a riassumere due anni di pandemia in nove, concentrati, flash. Un equilibrismo perfetto. In questa narrazione c’è una piccola perla alla Tenco, nel più elegante ermetismo, che ho apprezzato molto, appena 44 secondi dove è racchiuso tutto il senso della solitudine, della lontananza, del desiderio, Il Peso dell’Assenza:

Così è questo
il peso dell’assenza.
Il vuoto, disegnato in frasi articolate,
oggi diventa sostanza
si fa massa.
Lo spazio è occupato dal nulla
e restano pugni chiusi
al termine di queste braccia.

Il “tutti liberi” dal lockdown è descritto in Aprono i bar, ambientato a Roma, in un bar d’angolo, una bella giornata di sole, la gente che cammina, le auto percepite come “un ingorgo diffuso”, mentre Quarantella, la traccia finale, un romanesco spoken word, accompagnato da un riff iniziale alla Calibro 35, ricongiunge il tutto in una forma ironica ma sostanziale…

Hai scritto a Lucio una bella e composta “missiva”, in nove punti…
«Questa mancata risposta è stato un mio cruccio per molti anni. Non capivo perché un cantante, allora, avesse sentito l’esigenza di prendere carta e penna e scriverci. Ho aspettato tanto prima di rispondere e il lockdown mi ha convinto a farlo. Aveva immaginato un futuro migliore, invece…».

Com’è nato il disco?
«Ho fatto tutto da solo, sia per il lockdown sia perché l’ho presa come una cosa personale. E poi sono un “indipendente” non devi rendere conto a nessuno, faccio quello che mi pare. Così ho pensato di pubblicarlo il primo marzo, il giorno che Dalla se ne andò. Caro Lucio rispondo vuol essere una narrazione del nostro presente per ricordare ciò che lui aveva previsto per il futuro».

Veniamo alla musica e al cantautorato, come la vedi?
«La musica si è sempre divisa in due, quella mainstream e “l’altra”. Quest’ultima è sempre stata in opposizione alla cultura dominante. Negli anni di Dalla c’era ancora chi desiderava scoprire musica interessante, c’erano i talent scout che frequentavano i locali, andavano in cerca di artisti validi… infatti sono nati i vari Graziani, De Gregori, Fossati e tutti i cantautori di quella generazione. Oggi non vedo più questo interesse. L’assurdo è che mi chiamano dal Messico per andare a fare una tournée, ma devo declinare perché non ho i mezzi per potermi permettere una serie di date così lontano. Il mercato c’è, c’è chi ha voglia di ascoltarci. Ma è più facile puntare su una musica da consumo».

I tuoi concerti sono un po’ all’antica…
«Vado a suonare raccontando, mi piace partecipare con il pubblico, ridere con lui, parlarci. Non sono io il protagonista della serata ma le persone che hanno scelto di venire ad ascoltarmi. Credo, inoltre, che nella musica ci siano fasi cicliche, come nella storia. La gente ora ha voglia di ascoltare racconti, musica “per adulti”».

Condivido la tua analisi, anche perché c’è molto di più oltre ai dolori egocentrici di tanti giovani Werther…
«Quello che manca, e sarebbe psicologicamente da studiare, è un racconto sociale. Le visioni dei trapper non mi piacciono. La strada diversa esiste: artisti come me non sopravvivono, lavorano! Un mio singolo, Il mare mi salva, ha venduto nel mondo oltre 250mila copie. Quando uscì la playlist di papa Benedetto XVI e si scoprì che al quarto posto c’era il mio brano, ho iniziato a ricevere telefonate da tutto il mondo, richieste di concerti, persino dalle Hawaii. Mi son detto “‘Ammazza che so’, Elvis Presley?”… Un artista non ha bisogno di essere mainstream per guadagnare. Credo nel successo personale, la fama è un’altra cosa. Per questo vado avanti a raccontare la mia realtà da indipendente. Il mercato batte altre strade, deve occuparsi di persone che fanno vendere».

Come hai iniziato a suonare?
«Da autodidatta. A 16 anni ho preso in mano la mia prima chitarra, mi riusciva facile imparare, avevo orecchio, vedevo chi sapeva suonare e imparavo. A 20 anni ho saputo che c’era un’orchestra in cerca di musicisti. Così, da incosciente, mi ci sono fiondato. Durante le prove per ottenere il posto, finché s’è trattato di eseguire un brano tutti insieme è andato liscio, fingevo di leggere lo spartito invece andavo a orecchio. Il problema s’è manifestato quando è arrivato il momento di fare la mia parte, non sapendo leggere la musica non lo avevo capito. Ho fatto una figura così brutta che mi sono vergognato di me stesso, mi sono imbarazzato da solo!  Il direttore mi ha guardato e mi ha detto: “Impara a leggere e poi torna”»…

L’hai fatto?
«Certo, mi sono impegnato, mi sono iscritto al conservatorio, ho frequentato i primi tre anni di chitarra. Poi ho capito che la mia vera passione era la composizione. Mi piace scrivere per tutte le parti, chitarra, basso, pianoforte, batteria… Comunque sì, il direttore poi mi prese a suonare nell’orchestra. Avevo imparato la lezione».

Quando componi scrivi prima i testi o la musica?
«Ho l’esigenza di raccontare quello che sento e che vedo. Lavoro tanto sui testi fino a quando il mio “io” ipercritico non è soddisfatto. Poi adatto la musica al testo. Se sono in 4/4 e le parole non ci stanno, passo ai 9/4. Detto questo, la musica deve avere comunque un buon livello qualitativo».

La scrittura ti coinvolge molto…
«L’unica cosa che non oso affrontare è il romanzo. Scrivo racconti, ci sono narrazioni per le quali non basta una canzone. Il teatro mi piace molto, anche quello moderno, amo l’attore che non mi fa più sentire che sono a teatro, mi piacciono molto i monologhi. Scrivevo molto per il teatro e il cinema, ma i due anni di pandemia hanno bloccato questo flusso».

Curiosità personale, ma scrivi a penna o a computer?
«Le canzoni che le scrivo a mano, mentre i racconti al computer, altrimenti, conoscendomi, mi perderei tutti i fogli».

Domanda alla Marzullo e chiudo: c’è qualcosa che porti sempre con te?
«La mia chitarra, non esco senza! Mio padre me ne regalò una a 16 anni e dopo due mesi morì. Non osavo tirarla fuori dalla custodia. Ci sono voluti un paio d’anni perché mi decidessi a prenderla tra le mani. Per l’amore di quel gesto, ora la porto sempre con me. Non è la stessa, ne uso una, più piccola, una Parlor, ha un gran bel suono!».

Tanto per ricordare la lettera di speranza del grande Lucio e la risposta di Rossomalpelo, vi allego i testi…

L’Anno che verrà

Caro amico, ti scrivo, così mi distraggo un po’
E siccome sei molto lontano, più forte ti scriverò
Da quando sei partito c’è una grande novità
L’anno vecchio è finito, ormai
Ma qualcosa ancora qui non va
Si esce poco la sera, compreso quando è festa
E c’è chi ha messo dei sacchi di sabbia vicino alla finestra
E si sta senza parlare per intere settimane
E a quelli che hanno niente da dire
Del tempo ne rimane
Ma la televisione ha detto che il nuovo anno
Porterà una trasformazione
E tutti quanti stiamo già aspettando
Sarà tre volte Natale e festa tutto il giorno
Ogni Cristo scenderà dalla croce
Anche gli uccelli faranno ritorno
Ci sarà da mangiare e luce tutto l’anno
Anche i muti potranno parlare
Mentre i sordi già lo fanno
E si farà l’amore, ognuno come gli va
Anche i preti potranno sposarsi
Ma soltanto a una certa età
E senza grandi disturbi qualcuno sparirà
Saranno forse i troppo furbi
E i cretini di ogni età
Vedi, caro amico, cosa ti scrivo e ti dico
E come sono contento
Di essere qui in questo momento
Vedi, vedi, vedi, vedi
Vedi caro amico cosa si deve inventare
Per poter riderci sopra
Per continuare a sperare
E se quest’anno poi passasse in un istante
Vedi amico mio
Come diventa importante
Che in questo istante ci sia anch’io
L’anno che sta arrivando tra un anno passerà
Io mi sto preparando, è questa la novità

 

Caro Lucio rispondo
Caro Lucio rispondo, con molto ritardo
Ma qui le cose non vanno, stiamo ancora lottando
Aspettiamo che il mondo rinasca nel vuoto di giorni in cui non si esce
E non è più stato Natale
è soltanto un lunghissimo tempo sospeso nel vuoto
Al quale gli uccelli però, fanno ancora ritorno
Ma non ci sono preti che si sposano
E qualcuno crede ancora che ammazzare
Sia naturale conclusione di un amore
E non ci son più santi né uomini, che i capitani
fuggono e non si riesce a fermarli.

Non è mai lo stesso quando sei diverso
Non è più lo stesso quando qui è diverso
Non sei mai lo stesso quando sei diverso
Non sei più lo stesso, non sei più lo stesso (x2)

Caro Lucio comunque qualcosa è cambiata davvero
Bergamo ha un Marzo rubato,
le sedie dei vecchi son vuote
E Rosso è di nuovo l’esatto contrario del bene
Ma è solo un lunghissimo tempo sospeso nel vuoto
Al quale gli uccelli, sicuro, fanno ancora ritorno
E anche se non ci sono preti che si sposano
Crediamo ancora nell’amore che non distingue generi
Ma si fa cogliere
E non ci son più santi né uomini, che i capitani
fingono e non si riesce a fermarli.

Non è mai lo stesso quando sei diverso
Non è più lo stesso quando qui è diverso
Non sei mai lo stesso quando sei diverso
Non sei più lo stesso, non sei più lo stesso (x2)

Ecco, caro Lucio, non ho scritto forte come hai fatto tu
Che non son mai stato lontano
Ma ho ricordi, di vetri appannati e disegni e pomeriggi di capelli da contare
Con lo sguardo fino in fondo al buio di quel mare
Dove in fondo, nessuno, è mai solo davvero

Non è mai lo stesso quando sei diverso
Non è più lo stesso quando qui è diverso
Non sei mai lo stesso quando sei diverso
Non sei più lo stesso, non sei più lo stesso

Riflessioni: la lezione del violoncellista Vedran Smailović

Vi ricordate Vedran Smailović, primo violoncello dell’Orchestra Filarmonica di Sarajevo, mentre, vestito in frac, si esibiva solitario tra le macerie della sua amata città, in quell’assedio durato 1495 giorni (dal 5 aprile 1992 al 29 febbraio 1996)? Suonava l’Adagio in Sol Minore di Albinoni, in una versione lentissima, struggente e potente. La musica contro la guerra, come balsamo salvifico per le anime dei morti e degli assediati. Potete toglierci tutto, case, chiese, biblioteche, vita, ma non potete impedirci di suonare e ascoltare. Un piccolo gesto che in sé aveva una portata dirompente.

Se non siete ancora stati a Sarajevo andateci. Gli orrori di quella guerra non sono stati dimenticati. Sono racchiusi nei musei, incisi sulle case, lastricati sui marciapiedi. La foto di Smailović è esposta nel Museo Storico della città.

Oggi, in Ucraina, siamo allo stesso punto. Golia vuol prendersi Davide e lo fa con un dispiegamento di forze brutale. È la volontà di uno dei tanti “fucking Psycho” come cantavano i Muse nel disco Drones del 2015. Dopo una settimana di guerra, negoziati a rilento in casa dell’amico e sodale Lukaschenko, boss (non possono essere elevati al rango di capi di stato!) della Bielorussa, uomo che teme l’Arte, come ho avuto modo di scrivere un paio di anni fa in questo post, Putin non accenna a placare il suo desiderio di ricostruire una storia che è finita 30 anni fa. La Grande Russia, il “celodurismo” imperante, il “tispiezzoindue”, il nazionalismo esasperato, l’essere qualcuno nel mondo che conta, stretto tra Cina e Occidente, l’evitare qualsiasi dissenso, il dominare in casa e nei paesi dell’ex Unione Sovietica con pugno di ferro, la democrazia, anzi, democratura, che è pura dittatura, nemmeno abbellita con un filo di fard…

Lascio i commenti ad altri più saggi colleghi. Mi limito a una sola osservazione: tra un tiranno che tiranneggia, gente che muore sotto i razzi e i mortai, esodi di massa, il ricatto all’Occidente di un’escalation nucleare, la Cina silenziosa perché pensa solo al dio denaro, da questa parte del mondo si fanno le “vere repressioni politiche”: cacciare Valery Gergiev, il grande direttore d’orchestra, licenziato dalla Scala perché non si è espresso contro la guerra. Certo Gergiev è amico ultradecennale di Putin. Ma cosa c’entra la musica con tutto ciò? O la letteratura? Sempre a Milano, e sempre con lo stesso spirito, l’università della Bicocca aveva deciso di rinviare una lezione sullo scrittore russo Fëdor Dostoevskij di Paolo Nori, decisione pare saggiamente rientrata in corner… Cosa ha a che fare la musica con la politica?, si domanda – a ragione – la saggia Natalia Aspesi.

E ritorno a Vedran Smailović: la musica non ha padroni, non la si tiri in mezzo per colpire qualcuno. Ci pensano già i dittatori con le loro logiche di ossessivo controllo. Noi no, noi dovremmo essere diversi. Siamo liberi, di pensare, di dire o non dire, di esprimere dissenso anche in modo pesante, ma non serviamoci della musica per colpire qualcuno. Le note dell’Adagio di Albinoni risuonano ancora a monito, dopo quasi trent’anni. La musica, come la Letteratura, e l’Arte in generale, portano in sé una carica positiva, emozionano, raccontano, fanno più paura delle bombe.

Servirebbe in questo momento un altro Live Aid, un altro Bob Geldof che radunasse, indignato, artisti di tutto il mondo per far sentire il reale peso della musica, la sua potenza dirompente. Un concerto trasmesso a tutto volume ovunque, grazie agli hacker di Anonymus, anche nei costosissimi caschi delle ipertecnologiche milizie mandate a cancellare uno stato sovrano. Sarebbe un bel segnale, non vi pare?

Chiudo con un brano-preghiera sempre da Drones dei Muse, ed è la traccia che dà il titolo all’album, l’ultima. “Ascoltate” le parole:

Killed by drones
My mother, my father
My sister and my brother
My son and my daughter
Killed by drones
Our lives between your finger and your thumb
Can you feel anything?
Are you dead inside?
Now you can kill from the safety of your home with drones
Amen