Arpa ed elettronica nella musica di Floraleda Sacchi

Floraleda Sacchi – Foto Andrea Sirtori

Oggi torniamo a parlare d’arpa. Strumento affascinante, mistico, che esiste da milioni di anni. Probabilmente il primo a pizzico, con tutta probabilità nato dall’arco usato per cacciare. Testimonianze di arpe esistono nell’antico Egitto, 5 mila anni fa, ma ce ne sono anche di più vetuste, di seimila anni fa, traccia trovata su un vaso sumero rinvenuto a Ur, nella bassa Mesopotamia. Non voglio narrarvi la storia dell’arpa, ma uno strumento così antico affascina, a maggior ragione perché è presente in molte culture e popolazioni, in vari modelli, forme e grandezze, dall’Africa, all’Europa, all’Oriente.

Grazie a ottimi musicisti, da anni l’arpa ha intrapreso un lungo viaggio verso nuove frontiere della musica. Basti pensare ad Andreas Vollenweider che ha portato l’arpa, elettrificandola, in una sorta di fusion mistica, la stessa che poi sarebbe stata chiamata “New Age” e che ora viene catalogata banalmente in “musica per rilassarsi”, a riprova di quanto siano perniciose le etichette! Vi avevo già parlato di arpa qualche mese fa, quando ho intervistato Beppe Dettori e Raoul Moretti per il loro disco Animas. 

L’occasione di un concerto che si terrà sabato 12 marzo a Milano all’Auditorium Di Vittorio, presso la Camera del Lavoro, in corso di Porta Vittoria 43, sempre nell’ambito della 27esima edizione dell’Atelier Musicale, mi dà modo di ritornare sull’argomento. Sul palco ci sarà Floraleda Sacchi, comasca, una delle nostre grandi arpiste italiane, per un concerto per sola arpa, tra Bach, Satie, Arnalds, Cacciapaglia, Einaudi e brani composti dalla stessa artista. 

Floraleda, studi classici al conservatorio, ha acquisito un suono personalissimo, grazie a una sua altra grande passione, la musica elettronica. Combinando arpa, elettronica, looper ed effetti applicati allo strumento (un’arpa preparata) riesce a ottenere suoni incredibilmente attraenti, puri, attimi onirici, percorsi che hanno un che di sciamanico. Ascoltate Canzone fra le guerre, bellissimo brano di Cristian Carrara, per arpa (lei) e voce, quella di Antonella Ruggiero dall’album Ludus (2018), oppure la splendida Oltremare di Ludovico Einaudi da Ludovico Einaudi by Floraleda Sacchi (2021), o, ancora Asturiana del compositore spagnolo Manuel De Falla, una delle Siete Canciones Populares Españolas per pianoforte e soprano, qui riproposta per arpa, fisarmonica e voce assieme alla bravissima Sara Calvanelli.

Il concerto di sabato è stato l’occasione per concordare con lei un appuntamento per una chiacchierata in streaming…

Floraleda Sacchi – Foto Marco Coppola

Musica classica, musica elettronica, arpa: un bel mix…
«Mi piace molto usare l’elettronica, c’è moltissimo spazio aperto alla creatività. Ho iniziato a sperimentare perché mi piace molto lavorare sul suono. Sono anni che mi dedico allo studio dell’arpa combinato con l’elettronica. Quest’ultima è un ottimo modo per costruire un proprio linguaggio. Quello che mi interessa è partire sempre da un’idea di suono naturale, una forma di “umanizzazione” della tecnologia».

Se dovessi definire la tua musica, diresti che…?
«Bella domanda! Continuo a suonare classica e poi… boh? La mia musica la scrivo per approcci sonori, mi piace creare mondi onirici, tendo ad andare in quella direzione. È una musica… sciamanica».

Che musica ti piace ascoltare?
«Ascolto di tutto, vado molto a periodi (ride, ndr). In questo momento sono in pieno “periodo brasiliano” ascolto, dunque, molta bossanova, Tom Jobim, Vinicius de Morães».

Hai pubblicato un album rivedendo Ludovico Einaudi, dal pianoforte all’arpa…
«Sì, ho usato un’arpa di cristallo che ho lavorato con granularizzatori per dare un colore diverso alla musica di Einaudi».

L’arpa di cristallo?
«È uno strumento composto da tubi intonati di cristalli di quarzo, viene detta anche arpa angelica per il suo suono. Si suona con particolari martelletti o con l’acqua, bagnandosi le mani, metodo che preferisco».

Ti prepari le basi prima di un concerto oppure lavori dal vivo?
«Entrambi, dipende da quello che devo suonare. Tendo a usare sempre meno i looper e privilegiare un’effettazione in tempo reale. Molte volte elaboro lo strumento a monte, con smorzatori delle corde. Uso anche l’archetto per ottenere i pad».

Ho visto che usci anche lo shrinti indiano…
«L’harmonium indiano a mantice mi serve quando devo usare dei bordoni, come, per esempio, nell’Asturiana che ho suonato con Sara Calvanelli…».

Brava la Calvanelli!
«Sì molto brava, e poi compone benissimo. Mi piacciono quei musicisti che condividono la mia visione di musica, come il flautista Fabio Mina o il pianista Francesco Tristano».

Floraleda Sacchi – Foto Galapono

Floraleda, come mai hai scelto l’arpa?
«C’era un disco che avevano i miei, aveva una cover impressionista, che mi attirava, mi piaceva guardarla. Era eseguita da un’arpista francese piuttosto brava. Poco alla volta mi sono innamorata del suono e dello strumento».

Fai molti concerti da sola…
«Dopo il conservatorio la scelta era entrare in un’orchestra sinfonica, cosa che ho fatto, ma mi annoiava molto, oppure suonare in formazioni più ristrette, musica da camera, più interessante. La verità è che suono spesso sola, mi piace. I miei concerti sono molto “user-friendly”, ho bisogno di avere il contatto con il pubblico, regalare bei ricordi, dare armonia. Non mi interessa spingermi in sperimentazioni e produrre suoni sparsi fini a se stessi».

Lavori molto all’estero?
«Sì, moltissimo in Spagna, ma anche in Germania, in Svizzera, nei Paesi Nordici. Con la pandemia non mi sono più mossa. Speriamo di ricominciare. Qui in Italia per noi artisti è stato difficilissimo. In Spagna, invece, non hanno chiuso i teatri, si continuava a fare musica con capienza dimezzata e pubblico distanziato. Lo stato risarciva i teatri per il pubblico mancante. In questo modo gli artisti spagnoli hanno lavorato tutti e molto, visto che gli stranieri non potevano viaggiare…».

Se siete a Milano, dunque, sabato 12 alle 17:30 andatela ad ascoltare. Ne vale la pena! Vi lascio il programma del concerto:

Johann Sebastian Bach: Preludio dal Clavicembalo Ben Temperato BWV 846
Floraleda Sacchi: Images e Spaceship
Erik Satie: Gnossienne n. 1
Ludovico Einaudi: Oltremare
Ólafur Arnalds: Near Light e Till End
Roberto Cacciapaglia: Temple of Sound e Antartica

Tre artisti per il weekend: Kiah, Owusu, Kidjo

Per quest’ultimo fine settimana di giugno vi voglio proporre tre artisti apparentemente molto diversi tra loro, per generi, origini, contaminazioni ma che in fondo hanno più di una radice comune. Dalla beninese Angélique Kidjo, al giovane ghanese-australiano Genesis Owusu, al suo primo disco – e che disco! – alla potentissima Amythyst Kiah che ha pubblicato un album che è un capolavoro di forza e di country blues. Musica dinamica, viva, pulsante, per i tre artisti, giusta per il momento, l’estate e la speranza di riconquistare una nuova normalità.

1 – Wary + Strange – Amythyst Kiah
La trentaquattrenne artista del Tennessee ha confezionato un disco praticamente perfetto. Dove c’è posto per tutto l’universo di Amythist Kiah, folk, blues, country, rock che nei precedenti due lavori aveva tenuti ben distinti. Il primo, Dig, uscito nel 2013 erano cantate folk ricche di pathos (d’altronde con la voce che il buondio le ha donato può permettersi praticamente tutto), il secondo, Songs of Our Native Daughters, pubblicato assieme ad altre tre musiciste – Rihannon Giddens, Leyla McCalla e Allison Russell – sotto il nome di Our Native Daughters, oltre a un rifacimento in chiave folk di Slave Driver di Bob Marley, proponeva punti di vista su questioni dirimenti per gli afroamericani, dal razzismo, alla schiavitù alla discriminazione sessuale, in chiave “americana” con inserti blues. Wary + Strange è finalmente un disco completo, interpretato con la giusta grinta e quel senso di sicurezza di chi ha finalmente trovato la sua strada artistica. La stessa Black Myself, presente nel precedente album, è stata trasformata in una vigorosa ballata rock blues. Ascoltatela, alzate il volume e caricatevi!

2 – Smiling With No Teeth – Genesis Owusu
Smiling With No Teeth, uscito nel marzo scorso, è il primo album di questo ventitreenne nato in Ghana e cresciuto a Canberra (Australia), dove i suoi genitori lo portarono all’età di due anni. La famiglia è ritornata in Ghana, lui divide la sua vita tra i due Paesi. Il fratello maggiore è un rapper noto in Australia, Citizen Kay. Premessa necessaria: Genesis adora i manga giapponesi, i videogiochi e in genere le arti visive. E ancor di più ama alla follia le musiche dei videogiochi, oltre al funk, al punk, al rap e al pop. Queste sue passioni si riversano tutte nel disco che riassume un caos di generi dove Owusu si muove a suo agio, alimentandolo a dovere. Si sente la stessa fluidità di Prince nel fare musica… A partire dal primo brano, On The Move che introduce The Other Black Dog, è un crescendo di melodie e generi che stimolano e incuriosiscono. Ti invogliano ad andare avanti per questa strada apparentemente sconnessa – vedi Waitin’ on Ya – e divorare il disco fino all’ultimo brano, By By.

3 – Mother Nature – Angélique Kidjo
Ancora Mama África, per citare una vecchia canzone del brasiliano Chico Cesar. Dal Ghana ci spostiamo al Benin, da dove viene Angélique Kidjo, una delle grandi voci del continente. La sessantenne artista che vive a New York, con questo album continua la sua missione, e cioè, divulgare la cultura panafricana come un insieme di grande valore. Grazie ad artisti come lei la musica africana negli anni è diventata punto di riferimento nella world music. E Mother Nature vuole essere proprio questo, attorno al solido pilastro che è Angélique trovano voce molti artisti, come i nigeriani Mr. Eazi e Burna Boy e il chitarrista e jazzista beninese Lionel Loueke (che vi avevo presentato lo scorso anno). Come riporta Pitchfork, la Kidjo ha registrato l’album in Francia chiamando virtualmente a raccolta un collettivo panafricano composto da musicisti e cantanti provenienti dall’Africa agli Stati Uniti per presentare brani che contenessero le sonorità dell’Afrobeat, la spiritualità dello Zilin, tecnica vocale tipica del Benin, l’improvvisazione dei griot, cantastorie dell’Africa Occidentale, uniti al banku e all’hip hop. Un disco che è, dunque, anche uno scambio di memorie condivise. Da una solida versione di Africa, come specificato nel titolo, One Of A Kind, del maliano Salif Keïta, che canta assieme a Mr. Eazi, a Omon Oba che la Kidjo interpreta con Zeynab e Lionel Loueke. Una vera e propria avventura in musica.

Alessandro Deledda e la sua Linea del Vento

Alessandro Deledda – Foto Federico Miccioni

Sono qui, davanti al foglio bianco di Pages. La mia base sonora è La Linea del Vento, ultimo lavoro di Alessandro Deledda, classe 1972, perugino con origini sarde, pianista, compositore, polistrumentista. L’ho intervistato un paio di giorni fa. Ma qui mi blocco: come posso presentarvelo? Perché Alessandro è un musicista classico, ma anche un jazzista, ma anche un appassionato di musica elettronica, ma anche uno che si è formato con il cantautorato italiano e il rock, quello solido, e ancora un appassionato dell’insegnamento della musica, un produttore, un arrangiatore. Il prossimo 16 luglio nell’ambito di Bari in Jazz 2021 suonerà nel The Evolution Trio assieme al sassofonista Dimitri Grechi Espinoza. Potrei sostenere che è un artista contemporaneo, parola che non dice assolutamente nulla. Oppure… un musicista genialmente curioso. Ecco, questa mi piace già di più. Mi sembra che lo rappresenti al meglio. Ci siamo dati appuntamento su Zoom per parlare una mezz’oretta del disco. È finita dopo un paio d’ore (ma avremmo potuto continuare ancora a lungo). Il tempo è trascorso veloce, a parlar di musica e passioni. Quindi, quello che leggerete qui di seguito è il condensato della lunghissima chiacchierata (parola chiave che tornerà ancora nel corso dell’intervista) tra Alessandro e il sottoscritto.

Alessandro, parto subito forte: come intendi la musica?
«Mi piace contaminare, esplorare. Già a sei anni ero attratto dalla musica. Mi divertivo a suonare l’organo della chiesa. Quando non c’era il prete, mi impegnavo a tirare fuori i primi accordi. A otto anni ho iniziato gli studi di pianoforte. Studi classici. Volevo suonare l’organo, ma l’organista titolare era il vecchio sacrestano, quindi…».

Quando ti è venuta la passione per il jazz?
«Fino a 16 anni non lo sopportavo proprio. Trovavo assurdo non seguire la lettura degli spartiti… Poi, approfondendo Bach ho capito che lui improvvisava. Bach unì il virtuosismo italiano – adorava Vivaldi, lo studiava a fondo – l’eleganza francese e il contrappunto tedesco. Ho capito che l’improvvisazione lascia un’impronta unica e irripetibile. Poi ci sono quelli che trascrivono queste improvvisazioni e le studiano. Così, a 17 anni ho iniziato a frequentare un laboratorio di musica jazz. Avevo, vista l’età, anche un secondo fine: a quell’epoca suonare uno strumento era il modo più congruo per conquistare una ragazza!».

Giusto, chitarre, spiaggia, falò, musica…
«Proprio quello! Ho cominciato a indagare, studiare il jazz, il perché da poche note, la melodia, esce un mondo meraviglioso».

Ti sei appassionato anche all’elettronica…
«Sì, amavo la tecnologia che stava arrivando. Ho iniziato con il computer Atari 1040ST, te lo ricorderai, e un expander per ricavare suoni. La mia rivelazione è stato il concerto dei Pink Floyd a Livorno nel maggio del 1989. Mi ci portò un mio grande amico. Conservo ancora il biglietto d’ingresso, pagato 37.500 lire… Lì mi si aprì un mondo. Allora, nemmeno ventenne, volevo essere tante cose, ma mi trovavo a studiare gli autori classici, leggere ed eseguire. Non mi bastava più».

Avevi gettato le basi per il tuo lavoro attuale.
«A 23 anni mi chiamarono a gestire lo studio Fonit Cetra di Perugia. A Milano, dove c’era la casa madre, conobbi Vince Tempera e Ares Tavolazzi. Con Tavolazzi, avrei suonato negli anni successivi… splendido è stato il concerto all’abbazia di Farfa…».

La musica classica però non l’hai abbandonata…
«No assolutamente. La Classica è il Pin della musica. Attraverso di lei puoi accedere a tutto. Prima di un concerto mi faccio sempre una fuga o un preludio, serve a defragmentare il cervello, una sorta di reset. Solo così riesco a improvvisare meglio».

Cos’è per te l’improvvisazione?
«Come stare tra amici, seduti a una cena o a bersi qualcosa, e chiacchierare, dialogare, raccontarsi. Solo che non lo fai con le parole ma con le note».

Prima di parlare de La Linea Del Vento, raccontami dell’insegnamento, altro capitolo fondamentale della tua vita professionale.
«Insegno da trent’anni. All’inizio, visto che non mi vedevo né in banca né nelle forze dell’Ordine come mio padre, per dimostrare ai miei che il musicista era un lavoro a tutti gli effetti, insegnavo per due lire. Dopo essermi laureato (con lode al conservatorio Francesco Morlacchi di Perugia, ndr), ho insegnato nei corsi preaccademici al Conservatorio di Perugia. Nel 2009 ho fondato un’associazione, Piano, Solo, dedicata al pianista Luca Flores (uno dei più grandi jazzisti italiani, morto suicida a 39 anni nel 1995, ndr). È diventata una scuola di musica. All’inizio era soltanto per pianoforte, ora abbiamo tutti gli strumenti. Con 120 ragazzi a Umbria Jazz presenteremo una versione di So What di Miles Davis con 20 chitarre, 8 bassi, fiati, coristi, ecc. Sono di tutti i livelli di preparazione e, alcuni, hanno imparato a suonare in dad (didattica a distanza). È stato un esperimento anche per noi insegnanti. Credo che la dad abbia un vantaggio, farti entrare subito nella parte pratica. Per il resto non va bene perché manca quella comunicazione spontanea che arricchisce la lezione».

Gli allievi di Piano, Solo sono tutti giovanissimi?
«Abbiamo circa duecento iscritti che vanno dai sei ai sessant’anni e 15 insegnanti. All’interno della scuola c’è uno studio di registrazione e sale per tenere piccoli concerti. Di base prepariamo gli alunni per i licei musicali e i conservatori».

Veniamo a La Linea Del Vento. Perché questo titolo?
«La Linea Del Vento è dove va la musica. Mi sono lasciato portare come una foglia che rotola e vola fin dove il vento vuole. Credo sia questo il modo più significativo per raccontarsi. È un disco in piano solo. La sua genesi è casuale. L’anno scorso la scuola era chiusa, come tutte le altre per il Covid19. Mi chiama il fonico che collabora con noi, un ragazzo bravissimo e con una sensibilità estrema. Mi dice: “Alessandro, proviamo quei nuovi microfoni, andiamo in sala d’incisione, tu stai dentro, io fuori a registrare. Tu suona quello che vuoi”. “Ma sei matto”, gli ho risposto. “Cosa suono, siamo tutti a casa, non se ne parla proprio”. Chiuso il telefono ho riflettuto e ho pensato che poteva essere un modo di vincere quell’apatia che mi aveva preso. Abbiamo approntato il tutto, ho cominciato a suonare altre tre del pomeriggio e sono andato avanti fino alle sei e mezza. Dopo alcuni giorni il fonico mi manda un wetransfer con il file della registrazione. Lo ascolto e inizia l’autocritica, l’autolesionismo: per una sorta di timidezza che ho sempre quando si tratta di giudicare me stesso, ho deciso che non era una registrazione all’altezza. Il fonico, invece, ero entusiasta. L’ho chiamato e gli detto: “Cancella tutto non mi piace”. Lui, invece, senza farmelo sapere, l’ha spedito a Claudio Carboni della casa discografica Egea, fondata da Tonino Miscenà. Mi hanno chiamato entusiasti. “Un gran bel lavoro!” mi hanno detto. Così è nato il disco, undici racconti che parlano di me».

Alcuni brani li hai anche suonati in barca con Federico Ortica e Andrea Palombini…
«Sì, conosco Federico da molto tempo. Ho partecipato a Onde Sonore perché l’idea e i progetti che porta avanti Federico li condivido, è quella la direzione. E poi, il vento, il mare, s’intonavano perfettamente al disco, tra l’altro uscito per Egea Le Vele…».

Inizi con Madreterra, poi passi a Ginevra… ma chi è Ginevra?
«Madreterra è una dedica alla mia terra d’origine, la Sardegna (le mie origini sono a Pattada), Ginevra, invece è una cagnolina che ho adottato. Come Charlie Was Here, brano dedicato al mio vecchio amico a quattrozampe che non c’è più. L’ultimo brano del disco, quello più “jazz”, Have You Met Mr. Pongo?, parla dell’altro cane che ho, un trovatello pure lui. Amo gli animali, infatti, una parte del ricavato delle vendite del disco andrà a un’associazione animalista. Gino e l’Olivo, invece, è il ricordo di un anziano agricoltore. Insomma, quando ho suonato in quelle tre ore e mezza, ho davvero ripercorso i miei pensieri più profondi che ho associato a melodie. È la mia linea del vento…».

Parallelamente stai seguendo altri progetti, come Aura Safari
«Aura Safari (qui Sahara) ci sta dando molte soddisfazioni. È la mia parte elettronica, di esplorazione e composizione, un progetto jazz-funk, nato da quattro amici dj con il mio coinvolgimento. Stiamo andando molto bene in Giappone, in Nord Europa, in Gran Bretagna. È un progetto a cui tengo moltissimo, sono l’unico musicista del gruppo e anche uno dei produttori».

Alessandro, per chiudere, riprendendo la prima domanda, cosa trovi nella musica?
«Per me l’importante sono le tracce che tu lasci. In questi anni ne ho lasciate parecchie, dal jazz alla musica per cartoni animati, a quella per film, ai concerti. La musica è una forma di abnegazione, richiede tanto sacrificio per entrare in quel mondo infinito. Sai, sono convinto che Chick Corea quando è morto non era ancora arrivato dove voleva arrivare, perché la musica è un percorso infinito. Infatti, per come la vedo io, il jazz puro ha già dato tutto, è come la musica classica. Bisogna guardare oltre, sperimentare, contaminare per creare nuovi mondi, come faceva Corea, appunto».

Cosa stai preparando ora?
«Sono indeciso tra un disco di piano solo con cover dei Depeche Mode, band che adoro, o uno che riprenda brani dei Metallica, altro gruppo che ho ascoltato tanto. Non sembra, ma ho un animo decisamente rock!».

Hip Hop: Denise Chaila e Pan Amsterdam, due artisti fuori dal coro

Oggi vi voglio parlare di hip hop. O meglio, di un certo tipo di hip hop, non propriamente di largo consumo e appiattito su canoni commerciali. Me ne hanno dato l’occasione due album usciti lo stesso giorno agli inizi di ottobre. Si tratta di due artisti molto diversi tra loro, per provenienza e formazione, ma che, seppure con tutte le dovute e rispettabili differenze, hanno in comune quel certo modo di sentire e interpretare un genere, riportandolo alla sua essenza primordiale con freschezza e coscienza musicale.

Passiamo ai nomi. La prima è una giovane zambese naturalizzata irlandese. Si chiama Denise Chaila. Nata a Chicankata, Zambia, da anni residente in Irlanda, a Limerick, dove vive tuttora. Padre neurologo, madre radiologa, lei una laurea in sociologia, anche se la madre, come ha dichiarato la stessa artista recentemente in un’intervista, la vedeva un avvocato di successo. Denise s’è avvicinata al rap nel 2012, collaborando con i Rusangano Family, crew di Limerick e con altri artisti irish.

Giusto aprire un inciso: l’Irlanda sta vivendo un buon momento quanto a hip hop. La versione irlandese vanta buoni nomi, Costello, Ophelia McCabe, Lethal Dialect (al secolo Paul Alwright), Mango X Mathman, Kojaque, e ora anche Chaila. In un bell’articolo su The Journal of Music di qualche settimana fa Andrea Cleary, l’autrice, sintetizzo, scrive che può apparire un ossimoro che il paese di Joyce, Beckett, della giovane Sally Rooney e di Yeats si stia spostando nella metrica hip hop. Eppure non è così: l’Irlanda ha i suoi nuovi poeti, «il prossimo, logico passo per la nostra nazione di parolieri», scrive la Cleary. E Denise Chaila con il suo primo album pubblicato il 2 ottobre dal titolo Go Bravely contenente il brano Chaila, diventato l’hit dell’estate irlandese, è certamente su questa strada.

Testi ricercati, sfrutta la sua identità multietnica per intrecciare storie che racchiudono culture e modi di vedere diversi, che parlano della sua esperienza, del razzismo, dell’integrazione… in Chaila rappa: «Sono di parola/E il mio nome è la mia parola/ L’anima del mio mondo (e)/ Non è Chillay/ Non è Chilala/ Non un boccone amaro da mandare giù/ Chailie o Chalia/ Chia, Chilla, Dilla/ Quello non è il mio nome/ Dì Il mio nome/ Chaila/ Chaila/ Chaila/ Chaila/ Chaila…». In Go Bravely, brano che chiude il disco, interpretata con il rapper MuRLI va oltre: «Sii l’intrepido esploratore di ciò che è sconosciuto, ignora le persone che non riescono a capire che sei molto di più, più del tuo dolore, più del tuo trauma, più delle persone che conosci, delle cose che fai o del modo in cui sei cresciuta. Prenditi del tempo per studiare la tua anima, osserva e vedi, punta in alto e pensa intensamente, vai e basta, coraggiosamente!». Con Denise Chaila le parole vengono prima della musica, a costo di rendere quest’ultima un etereo ma efficace e solido scheletro su cui appoggiare i concetti che le interessa sostenere.

Lo stesso giorno dell’uscita di Go Bravely, vedeva la luce anche HA Chu, nuovo lavoro di Pan Am (che sta per Amsterdam). E qui entriamo in un altro mondo. Pan Am è l’alter ego di un musicista jazz, un trombettista, adocchiato agli inizi del Duemila come una delle promesse del jazz newyorkese, Leron Thomas. Molto critico con le label jazz ed evidentemente deluso da un mondo che non immaginava così, ha deciso di vivere una vita parallela, fondendo stili, sperimentando, usando l’hip hop come filo conduttore. Quello che ne è uscito (Pan Am è in attività da un paio d’anni) è «un’altra musica», come l’ha definita lui stesso, «collisioni a ruota libera di generi e collaborazioni». Nello specifico, HA Chu è il frutto di una tournée che il trombettista ha fatto con Iggy Pop lo scorso anno. L’Iguana, lo aveva chiamato per scrivere e produrre il suo album Free, pubblicato il 6 settembre del 2019.

Si tratta di registrazioni catturate, molti vocali di amici che ha incontrato durante i concerti. Un album strano, dark, con inevitabili accenti jazz, trombe nostalgiche. Ascoltate Carrot Cake, costruita su una base tipicamente afro-disco anni Settanta, dove “rappa”: «Trying to control my fate?/ Have a talk with your mom after I’m done with carrot cake», «Stai cercando di controllare il mio destino? Parla con tua madre dopo che ho finito la torta di carote». Molto bello il breve intervento di tromba che chiude il pezzo.

Probabilmente è stato un caso, ma sempre il 2 ottobre Leron Thomas ha pubblicato un altro disco, questa volta con il suo vero nome, per l’inglese Lewis Recordings dal titolo More Eevator Music. Anche qui grandi contaminazioni e la collaborazione con musicisti di molte estrazioni, dal rocker Iggy Pop al rapper poeta Malik Ameer Crumpler, dal jazzista Florian Pellissier, al bassista Kenny Ruby e al batterista Tibo Brandalise sezione ritmica che ha suonato con Iggy. Se non lo conoscete, ascoltatelo, ne vale la pena.

Musica e immagini/ La doppia arte di Rinaldo Donati

Ci siamo reincontrati per caso, grazie a un post che ho pubblicato alcune settimane su Musicabile: l’intervista a Paolo Alesssandrini autore di Matematica Rock. Nel testo di presentazione che avevo scritto su Facebook, sostenevo che la distanza tra musica e matematica non è poi così siderale; lui è stato il primo a intervenire con un breve ma efficace: “Ma no, dai, per favore”! E subito s’è preso la reprimenda di un altro lettore a cui, sempre lui, da gran signore e uomo intelligente qual è, ha risposto spostando il focus sulle emozioni, sul “sentire” la musica, su quello che può dare a ciascuno di noi, pronto a recepire sensazioni, sogni, immagini. Così, l’ho chiamato e… intervistato. Il lui in questione è un musicista, un bravo musicista. Ed è anche un fotografo, un bravo fotografo.

Rinaldo Donati

Si chiama Rinaldo Donati ha 58 anni ed è un chitarrista di rara raffinatezza con cui condivido una passione infinita per un Paese magico quanto a cultura e musica, il Brasile. Parentesi: il gigante sudamericano da tempo sta passando una crisi culturale e di identità culminata con l’elezione di un presidente ultraconservatore, che si richiama ai “valori” della  dittatura militare degli anni Sessanta e Settanta, poco propenso all’apertura mentale che da sempre ha caratterizzato la cultura, soprattutto musicale, brasiliana.

Giorgio Gaslini, mitico compositore e jazzista, di Donati  ha scritto: “Un’indiscutibile qualità musicale con una cifra stilistica del tutto rara”. Sono incuriosito dalla contaminazione delle arti praticata dal Nostro. Musica e fotografia hanno molto in comune. Bryan Adams, la rockstar canadese, è anche un fantastico ritrattista. Le sue foto rispecchiano la sua musica (e viceversa). Rinaldo è così, un visionario che ricostruisce i suoi sogni a volte con la musica, altre con la fotografia e, sempre più spesso, fondendo le due attività.

Rinaldo, sgombriamo subito il campo: la matematica nella musica c’è, è innegabile, ma la musica non vive solo per questa “commistione”…
«Premetto, non ho letto il libro di Alessandrini, ma mi son permesso di rispondere a un’osservazione fattami: la matematica può essere una parente della musica, sicuramente lo è, ma la musica, come espressione intima dell’essere, traduzione di un mondo emozionale e immaginato non ha nulla a che vedere con la matematica. Come nella letteratura: la grammatica è essenziale per la conoscenza di una lingua ma non può imbrigliare la poesia o la letteratura. L’arte, in generale, è un canale intuitivo…».

Rio de Janeiro, Posto Nove – Foto Rinaldo Donati

Secondo la tua esperienza…
«… La musica si può fare in tanti modi diversi. Quando compongo immagino luoghi non visti, vite non vissute. Quindi, le rielaboro in armonie e note. Negli anni Novanta scrivevo musica per spettacoli di danza contemporanea dove mi è capitato più d’una volta di essere sul palco con i ballerini, far parte dello spettacolo. Il mio sforzo era quello di comporre non solo tappeti musicali dove i danzatori potessero esprimersi, ma concepire una musica che potesse avere una vita a sé stante».

Da anni ormai, oltre alla musica ti esprimi anche con le immagini…
«La fotografia, quel particolare tipo di fotografia a cui mi sono dedicato, è stata per me la naturale conseguenza del mio lavoro in musica: ho cercato di riprodurre ciò che avevo composto, fissavo nell’obiettivo immagini “lavorate” attraverso il mio mondo, grazie all’uso di filtri e di un ben definito settaggio della macchina fotografica. Cercavo di trovare e trattare un mondo visuale che rispettasse la mia musica. È stato come ritrovare  visivamente quello che avevo immaginato con il suono. Un esempio è stato il lavoro che ho fatto a São Paulo. Non avevo mai visitato la megalopoli brasiliana, anche se me l’ero immaginata nei suoni e nelle armonie. Armato di macchina fotografica l’ho percorsa per 15 giorni in lungo e in largo grazie ad amici che mi hanno ospitato. E, mentre fotografavo, ho trovato un parallelo visivo con la musica in un “suono globale”».

Ti senti più musicista o fotografo?
«La fotografia è l’altro lato della mia creatività. Mi servono entrambe per riconoscere chi sono. Costruisco forme di empatia verso l’altro ma anche verso me stesso. Non sono legato a un genere, ho molti colori che scopro di attraversarli e unirli».

Rio de Janeiro, Nave – Foto Rinaldo Donati

Dammi una definizione di musica…
«Il mio senso della musica? Un posto dove esprimermi, per questo sono sempre alla ricerca di luoghi che siano “onde d’urto” emozionali molto forti. Tornando alla matematica e alla musica: il Conservatorio è essenziale per imparare la base di questo linguaggio, come la grammatica lo è per una lingua, ma il Conservatorio ti può imbrigliare, trattenerti dall’esplorare il tuo mondo emozionale, irrigidire in schemi…».

D’altronde, se parliamo di artisti soprattutto rock ma anche jazzisti, molti di questi hanno realizzato grandi brani senza saper leggere la musica…
«Qui entra in gioco l’attitudine: devi averla, devi possedere quel qualcosa in più che ti faccia appassionare alla musica. Per me è come l’innamorarsi. Il sentirti talmente attratto che nulla e nessuno può fermarti. Un’onda emozionale molto forte. Al musicista piace giocare con le note, al fotografo con la luce, allo scrittore con le parole, è un gioco che ci si porta dentro fino da bambini: come puoi tarpare le ali a un bimbo che, con un legnetto in mano, sogna di essere alla guida di un’astronave alla scoperta di nuovi mondi?».

Rio de Janeiro, Ipanema – Foto Rinaldo Donati

La musica inevitabilmente si evolve, segue il cammino e le scoperte dell’uomo
«È un discorso molto complesso. Quello che ti posso dire, è che oggi tra i nuovi generi e nuovi musicisti ci sono alcune perle che fanno fatica a uscire da un mucchio confuso. Il linguaggio (musicale e scritto) è imploso, non c’è praticamente più nessuno che ha il coraggio di mettere il culo su un seggiolino davanti a un pianoforte e cercare sulla tastiera di riprodurre generi, nuove armonie, tecniche senza far ricorso a suoni campionati. Arnold Schönberg nel suo Trattato di Armonia a un certo punto scrive: “C’è ancora tanto da scoprire sulla scala di Do”, cioè la base dello studio della musica. Ognuno si nutra del cibo che crede, massima libertà. Mancano però elementi di libertà espressiva, i generi che vanno per la maggiore oggi sembrano tutti dei carillon prefabbricati, uguali uno all’altro…».

Di te hanno scritto: “Il suo suono costeggia la musica brasiliana e il jazz, le sonorità tribali e l’elettronica, le suggestioni della danza e delle arti visive. Un animo da esploratore “salgariano”, nella cui musica e immagini convivono un raffinato impressionismo e un gusto innato per lo spazio…
«Sono molto attratto dal linguaggio del jazz, mi ispira grande libertà, mi affascina, ma non sono uno da free jazz, improvvisazione pura, e poi adoro la musica brasiliana».

Rio de Janeiro, Granchio – Foto Rinaldo Donati

Rinaldo, torniamo alla nostra passione, il Brasile…
«Probabilmente in un’altra vita stavo da quelle parti. Una passione che ho fin da bambino, da quando ho letto il Corsaro Nero di Salgari: mi aveva attirato quel mondo tropicale così lontano da noi. Crescendo e suonando la chitarra, sono rimasto fulminato da João Gilberto. Quando l’ho scoperto, sono letteralmente impazzito. La sua musica mi dava un grande senso di pace. Quando arrivo in Brasile, ci vado sempre da europeo. Non pretendo di essere uno di loro, ma lì, mi sento a casa. Da questa mia passione sono nati due progetti, Rio Noir e Paulistas»(da vedere assolutamente!, ndr).

São Paulo, Fusca – Foto Rinaldo Donati

Il tuo ultimo disco risale al 2008…
«Mi sono un po’ perso: ho tre album pronti da pubblicare nel cassetto, ma non mi decido mai. Sto lavorando da tempo su alcuni progetti che includono anche grandi musicisti internazionali, su brani noti, restando sempre sul discorso delle colonne sonore della mia vita. Mi interessa molto il dialogo tra musicisti, rimanere in un certo ambito armonico attraverso varie composizioni che siano un “continuum”. Se riuscirò a portarlo a termine, potrebbe diventare anche un  bellissimo live. Ovviamente, musica ma anche immagini. Da alcuni anni mi sono trovato un rifugio, una casa di fine Ottocento sul lago d’Orta, in mezzo a un bosco. Il mio sogno, che spero si realizzi, è creare una “piccola Woodstock” tra gli alberi, una due giorni di musica, con artisti da tutto il mondo che suonano, gente nei prati, una lunga catena armonica…».

Se volete ascoltarlo, trovate i suoi album su Spotify: buoni sogni!