Sanremo, perché criticarlo?

È iniziato il Festival. Come ogni anno si officia il sacro rito di metà inverno degli italiani: una kermesse che si autocelebra. La Canzone Italiana è il contorno, servito da San Algoritmo.

Ieri sera nel mio quartiere sembrava ci fosse il coprifuoco, nessuno in giro tranne qualche umano con quadrupede al seguito per le esigenze fisiologiche di quest’ultimo. I dati appena diffusi dicono che ha avuto una media di ascolti di 10 milioni 561mila telespettatori con il 65.1% di share. Ho visto il Festival, perché non puoi criticare, discutere, giudicare se non vedi. E quello che ho visto è uno show rodato – in realtà un po’ “stanchino” per dirla alla Forrest Gump – ben fatto (e ci mancherebbe, mamma Rai si gioca una buona fetta di introiti), e trenta canzoni che sono la prova evidente che la musica, tranne rarissime eccezioni, non è di casa all’Ariston. Continua a leggere

Raffaele Spidalieri, ovvero il Segno dell’acqua e l’umanità

Confesso: era da un po’ che dovevo chiamarlo. L’ho fatto ieri sera, dopo aver ascoltato più e più volte il suo ultimo lavoro uscito nel settembre dello scorso anno, Il Segno dell’acqua. Titolo intrigante quello che Raffaele Spidalieri, classe 1971, ha deciso di dare a un lavoro di undici tracce per niente facili nei testi e anche nella musica. Raffaele è un bel personaggio, molto profondo, adora la filosofia, è un neurologo, si occupa di neuroriabilitazione, e molto “umano” nell’accezione filosofica del termine, l’essere sociale aristotelico, ma anche l’uomo pitagorico, fatto di anima e corpo, o quello kantiano, che scruta la bidimensionalità, quella tensione tra sensibilità e ragione. L’uomo e la sua umanità sono un tema centrale del lavoro di Spidalieri e proprio per questo la sua alta aspettativa verso l’essere umano pensante, sociale, teso all’altro da sé, è messa sempre a dura prova. Allora auguri, a me che resto/ con questa voglia di libertà/ questa vertigine di corde tese/ questa carezza di verità/ E ancora brindo, a me che resto/ e ancora auguri a chi non sa/ guardare avanti e andare a tempo/ trovare musica…canta in La Follìa. Continua a leggere

Interviste: VillaZuk, tecnologia, riflessioni e valori positivi

I VillaZuk: da sinistra, Francesca Paola Sirianni, Alessio Sisca, Domenico Scarcello, Andrea Minervini e Simone Stellato

VillaZuk. Ovvero Domenico Scarcello, voce e chitarre, 38 anni, e Andrea Minervini, basso, 35. Si conoscono da quando erano adolescenti. Sono nati in due paesi vicini, nella Calabria cosentina, la Sila alle spalle. Attivi dal 2010, frizzanti, creativi, i VillaZuk scrivono seguendo i dettami del cantautorato “storico” ma non si definiscono cantautori. Musicalmente, spaziano tra rock, pop, reggae, ma non sono nulla di tutto ciò. O meglio, ne sono un’azzeccata sintesi.

Testi per nulla banali e arrangiamenti positivi fanno sì che le loro canzoni, nonostante affrontino temi complessi, abbiano sempre una via d’uscita, la speranza di un lieto fine. E qui esce l’altro lato dei VillaZuk, quello dell’impegno sociale, del lavorare e tuffarsi in progetti in cui credono fermamente. La musica è il loro modo per tenere unito il tutto e far sì che tanta energia spesa per battaglie sacrosante possa essere trasmessa a chi li ascolta.

I VillaZuk hanno tre dischi all’attivo in dodici anni di sodalizio musicale, …a colorare libertà (2010), Meno male Robertino (2013) e Siamo tutti salvi (2022).

E veniamo a quest’ultimo, pubblicato il 21 gennaio scorso. Sostanzialmente diverso dai primi due. Perché, in nove anni da Meno Male Robertino, Domenico e Andrea sono cambiati, cresciuti, maturati, e con loro chi li segue da anni. Hanno scremato tanto, selezionando ciò a cui tengono di più nella vita come nell’arte. I loro pensieri sul mondo sono diventati dodici brani dove il tema di fondo è l’uso esasperato della tecnologia che ha rimbambito tutti e rischia di far dimenticare la vera sostanza della vita. Che si racchiude in poche, essenziali cose: affetti, rispetto, amore, semplicità, passione, speranza.

Il disco mette a disposizione dell’ascoltatore questi temi, “obbligandolo” a fermarsi e a riflettere, per capire chi siamo e cosa vogliamo davvero da noi stessi. In Ti sorriderò lo stesso cantano assieme a Fabio Curto: «Siamo schiavi della quantità che vince sopra il senso e penso che la qualità non vive di consenso…». La speranza è un altro tema che ritorna spesso, «è il primo rischio da correre, come un sasso da lanciare ad occhi aperti», citazione da Sole d’Autunno, con una chitarra che ricorda quella delle classiche ballad acustiche di Billie Joe Armstrong e dei suoi Green Days.

Si parla anche di figli, di paternità e maternità, di coppia, insomma, della vita comune, inviti a vedere la bellezza del diventare genitori, di prevedere e accettare le sfide imposte senza arrendersi mai. Un crescendo che culmina nel liberatorio Fate l’amore, apparentemente una goliardata, in realtà un piccolo inno! I VillaZuk riescono a raccontare lievemente anche la demenza senile attraverso un casuale incontro d’amore e rispetto (Buongiorno Signora); c’è anche il problema della carceri: Ricordati Sempre, è un toccante brano che parla di detenuti, silenzi e riflessioni.

Siamo tutti Salvi non è, come avrete capito, solo un disco come tanti. È molto di più, un intricato percorso nell’uomo del Terzo Millennio, cantato senza mai cadere nell’ovvio e nella “facile presa”. Per questo ho chiamato i VillaZuk. Ed è stata una chiacchierata a tre divertente e istruttiva…

Chi comincia? Domenico, Andrea? Come vi siete trovati?
Domenico: «Condividiamo 20 anni di musica, praticamente siamo un caso di antropomorfismo gemellare. Siamo cresciuti a venti chilometri di distanza, abbiamo due caratteri affini…»
Andrea: «Ci siamo conosciuti grazie alla musica…».
Domenico (guardando Andrea, scherza, ndr): «Lui aveva appena 14 anni, era così piccino! Io ne avevo 17».

Siete stati folgorati dalla musica, insomma…
Andrea: «Lo racconto spesso ai miei alunni: 20 anni fa Internet non era così diffuso come ora, soprattutto dove siamo nati. Avevo la passione per il basso e per poter ammirare e provare gli strumenti marinavo la scuola passando le mattine in un negozio».
Domenico: «Abbiamo studiato musica privatamente. In comune, abbiamo avuto un bravissimo maestro d’armonia. Poi abbiamo avuto alcune esperienze insieme in un paio di progetti musicali, quindi abbiamo costituito i VillaZuk».

Da dove viene il nome della band?
Domenico: «Tanti anni fa ho scritto un brano che abbiamo pubblicato nel disco …a colorare libertà dal titolo Villaggio Zucca. Ho immaginato che dentro le nostre teste possa esistere un villaggio con una grande piazza centrale da cui si diramano tre strade, la percezione, il senno e l’immaginazione che portano a tre colline. In una c’è una capanna, in un altra un grattacielo, e nel terzo un grande prato magico che cambia colore. C’è una bimba che ogni mattina nella capanna prepara i biscotti e li lascia al portiere del grattacielo, scombussolando la vita così perfetta e scontata di tutta quella gente che vive pensando solo a se stessa. Spesso, quando cresciamo, abbiamo paura di non vedere la cura, finché il senno si arrende all’immaginazione… Nel testo c’è un refrain che dice: “è meglio una direzione giusta di una risposta facile”! Da qui siamo nati noi, i VillaZuk».

Un canzone, un nome, praticamente un manifesto!
Domenico: «In sostanza sì, in molti brani raccontiamo che la vita è uno sputo, un istante che vale la pena condividere con cose belle, nuove sensazioni…».

Com’è la vita a VillaZuk?
Domenico: «Ciascuno di noi ha fatto i suoi percorsi. Quello che è sicuro è che non riusciamo a stare senza musica. Lei guarisce da tutte le cose che accadono. Non ne fai più a meno. A Casali del Manco, nella presila cosentina, ho aperto una scuola, Kasa Klam che sta per cultura, lingue, arti e musica. Insegno ai bimbi e ragazzi mescolando tanti linguaggi».
Andrea: «Da un anno vivo a Roma. Qui insegno in una scuola primaria di Tor bella Monaca, una scuola di periferia con tanti colori di vissuto».

Con quali musicisti e canzoni vi siete formati?
Andrea: «Ho ascoltato e ascolto di tutto, molta fusion e jazz, sono molti gli artisti che seguo».
Domenico: «In una canzone ho sempre seguito di più i testi. Ascoltavo De Andrè (si percepisce, ndr!), Guccini, De Gregori. La parola è importante!».

Musica, insegnamento ma anche impegno sociale…in carcere e non solo!
Domenico: «Detta così sembriamo dei santoni tutti peace&love! Siamo sempre stati molto liberi nelle nostre scelte e ci piace condividere questo nostro essere con gli altri. La musica in questo è un grande veicolo, è importante per noi e per chi ci ascolta. Proprio in questa direzione va il nostro aiuto nelle carceri».
Andrea: «Nel 2014 abbiamo avviato un progetto, La Musica per un nuovo inizio, sulla musica e la scrittura di canzoni nella casa circondariale di Cosenza. Un percorso che avevamo intrapreso nel 2011, dopo un corso di formazione a Zaandam in Olanda, nell’ambito del PEETA project (acronimo di Personal Effectiveness and Employability Through the Arts), che coinvolgeva diverse nazioni. In Italia siamo stati i primi».
Domenico: «Tutto merito del nostro primo disco …a colorare libertà! Dopo la pubblicazione siamo stati contattati da un’associazione che si occupava di carceri perché aveva notato che eravamo particolarmente sensibili a certi temi sociali. Entrambi siamo sempre stati portati alla trasmissione dei saperi, dunque ci siamo buttati in quest’avventura».

Siete soddisfatti?
Domenico: «Sì, anche perché non potendo introdurre strumenti musicali nelle Case circondariali, abbiamo fatto un grosso lavoro di creatività, che ci ha regalato una forte emozione. Sono stato recentemente, come VillaZuk, una settimana nella Casa Circondariale di Taranto, da solo perché Andrea stava lavorando a Roma. È stata una bella esperienza, proficua. Abbiamo concepito un brano con i detenuti che è uscito pochissimi giorni fa, il 28 febbraio. Nel disco, invece, c’è Ricordati Sempre, brano scritto durante il secondo percorso che abbiamo tenuto nel carcere di Cosenza. ».

Avete mai avuto problemi dietro le sbarre?
Domenico: «No, nessuno, e nessun timore. L’unica mia paura vera sono i cani. Se, passeggiando da solo sulla Sila, per caso, vedo un lupo in lontananza, mi blocco, vado in panico! In cella, invece, mi trasformo (Andrea annuisce e concorda, ndr ). Dopo tanto tempo, riusciamo a gestire quest’esperienza molto bene. Il contatto è importante perché il detenuto è uno scrutatore attento che ti offre un altro sguardo su qualsiasi cosa. Nella detenzione di un individuo ci sono lunghi momenti di solitudine e silenzio, ed entrambi portano alla riflessione».

Ma non ci sono solo le esperienze con i detenuti…
Domenico: “Ci siamo interessati e ci interessiamo tutt’ora di temi come l’Alzheimer o, ancora più intimi, della donazione degli organi».

Oltre a voi, della formazione VillaZuk fanno parte anche tre altri musicisti…Andrea: «Sì, Francesca Paola Sirianni al violino e voci, Simone Stellato alle tastiere e voci e Alessio Sisca, batteria e voci».

Siamo tutti salvi è una dichiarazione provocatoria…
Domenico: «Non è certo un’affermazione! Tutto ruota attorno alla tecnologia, le nostre vite sono piene di tecnologia. C’è poco spazio di comunicazione reale a scapito di quella fittizia, virtuale. Siamo sempre più schiavi di regole che ci impongono e che accettiamo senza senso critico. Siamo diventati tante pecore remissive, seguiamo un pastore che non conosciamo, non sappiamo nemmeno che faccia abbia. Nel brano Siamo tutti Salvi, scritto con Francesco Scarcella, rincariamo la dose…».

E siamo alla fine dell’intervista. L’ascolto del disco è vivamente consigliato, perché è un percorso nelle ossessioni, speranze, aspettative di questi anni. A ben ascoltarlo, si possono trovare riferimenti alla pandemia e anche alla guerra che Putin ha scatenato in Ucraina una settimana fa. In realtà tutti i brani sono stati scritti prima del 2019. Sono attuali perché raccontano le nostre paure, i nostri pensieri, il nostro essere devotamente tecnologici senza se e senza ma. Sono testi che impongono, a chi li ascolta, una riflessione “forzata”. Qui di seguito le parole di Siamo tutti salvi: ognuno trovi il suo perché

Siamo tutti salvi
Avanti i ladri ed i signori lasciate fuori i sogni buoni e le intenzioni
portate dentro i portafogli, le mogli, i vostri figli
e qualche dose di paura e di consigli
Avanti il povero ed il ricco, chi resta sempre indifferente e chi di stucco
chi ha voglia di sentire oggi le emozioni forti forti
e le parabole precise di contorti
E il tendone si aprirà davanti agli occhi con la bocca piena di demagogia
non si muore se si muore con i maghi e con i trucchi
non si cambia se si cambia geografia
e per magia siamo tutti salvi
Avanti tutta bella gente non trascurate il deretano accomodante
lanciando solo una moneta che delega stasera
i vostri sogni come in una vita intera
Avanti senza l’incertezza passate il limite che ancora v’imbarazza
portate dentro i vostri cuori a togliere i rancori
delle croci sopra tutti i nostri nomi
E il tendone si aprirà davanti agli occhi …
Il circo fa il pienone, il pienone del pianeta
e cambiano le facce e può cambiare la moneta
e non importerà la lingua, il colore e quale sesso
lo spettacolo continuerà e sarà sempre lo stesso
Con un domatore al traffico un mimo alla dogana
un trapezista all’attico che fa volare grana
al grande mago bravo a far vedere il paradiso in una banca
ed i pagliacci alle poltrone a raccontar cos’è che manca
e quando arriva il mangiafuoco e le sorelle
anche il cannone sarà pronto a non buttare tra le stelle
E il tendone si aprirà davanti agli occhi
non si muore se si muore con i maghi e con i trucchi
non si cambia se si cambia geografia
E il padrone sceglie i nostri desideri e staremo tutti bene e così sia
un biglietto per amore ed in omaggio un bicchiere
e si lava tutto con filosofia e per magia siamo tutti salvi

Sanremo, Mauro Ottolini, l’Ottovolante e… “Il Mangiadischi”

Mauro Ottolini con Vanessa Tagliabue Yorke e l’Orchestra Ottovolante

È iniziato Sanremo! In buona compagnia con San Valentino, caratterizza questo febbraio graziato da un sole tiepido che annuncia l’affacciarsi di una Primavera precoce. I due “santi” hanno in comune un bel marketing oliato, il buonismo delle migliori occasioni e i cuoricini pulsanti sui social.

Lo state vedendo? (che domanda!). La musica, as usual, è un pretesto per mettere in scena uno show generalista. Un classico, saporito ragù come quello che faceva mia mamma, preparato con tutti i crismi, soffritto di cipolla, carote, sedano, tre tipi diversi di carne, aggiunta di un paio di chiodi di garofano, pomodori freschi, sale e pepe quanto basta…

A Sanremo non conta necessariamente saper cantare o conoscere la musica e nemmeno essere dotati di un guizzo armonico meno scontato. Delle 25 canzoni in concorso, ne ho annotate tre, quelle di Elisa, di Giovanni Truppi e dei siciliani La Rappresentante di Lista

Noia… ho detto noia, non gioia, per dirla alla Franco Califano…

Pensando a un Festival della canzone italiana diverso, meno scontato, ho approfittato dell’uscita recente di un doppio cd, Il Mangiadischi, firmato da Mauro Ottolini e dalla sua Orchestra Ottovolante, per un divertissement in parallelo con la kermesse ligure. Ventuno brani che ripercorrono la storia di un grande periodo della canzone italiana, tra i Cinquanta e i Sessanta del secolo scorso, con alcune escursioni addirittura negli anni Trenta e Quaranta.

Un ripasso doveroso della cultura musicale dell’epoca, tra ritmi per lo più latini, cavalcate swing, merengue e mambo a manetta, fiati che pompano come se non ci fosse un domani, scanditi dalle percussioni dell’ottimo Simone Padovani, un extra-Ottovolante che marca il ritmo latino dell’orchestra! Il bello – e attuale – della faccenda è che molte di queste canzoni hanno fatto la storia di Sanremo quando era “soltanto” un semplice Festival di musica e la costruzione dei brani era studiata con l’intento di lasciare ai posteri qualcosa, se non di “infinito”, almeno di lunga durata.

C’è Grazie dei Fior, cantata magistralmente da un’altra ospite dell’Orchestra incredibilmente brava, Vanessa Tagliabue Yorke; Mi va di Cantare, brano portato da Louis Armstrong al Festival nel 1968 assieme a Lara Saint Paul (su 14 canzoni in gara, arrivò penultimo…), con la voce dello stesso Ottolini in versione Louis… E ancora, Il tuo bacio è come il Rock, di Celentano; Tu vuo’ fa l’Americano di Renato Carosone; Consoci mia cugina del torinese Ernesto Bonino, swing di fine anni Quaranta; Mia cara Venezia, Il Dritto di Chicago e Sì sì papà di Fred Buscaglione, quest’ultima la interpretava Fatima Robin’s; Nebbia di Caterinetta Lescano, anno domini 1941… I brani si susseguono con gli interventi del trombettista Fabrizio Bosso e del pianista Stefano Zavattoni, in un coinvolgente mondo armonico senza tempo dove c’è un solo punto fermo: suonare buona musica e farlo al meglio. Un lavoro tutto registrato dal vivo, per questo ancora più coinvolgente…

E così… mi sono preparato il mio Festival di Sanremo Alternativo mettendo in gara i 21 brani de Il Mangiadischi. Unico spettatore, seduto comodo comodo sul divano, volume in cuffia per non esser linciato dal resto della famiglia e dai vicini, un bicchiere di Rum, qualche quadretto di cioccolato fondente… In questo personale Sanremo atemporale ho previsto anche la giuria, anzi, Il giurato. Lo ammetto, uno un po’ di parte: è lo stesso Mauro Ottolini, in grande spolvero, pronto a raccontarmi il disco e, quindi, a votare il vincitore del mio Personal Festival.

Con il musicista veronese sono andato a colpo sicuro a prescindere: conosce bene la macchina di Sanremo – quello vero – per aver collaborato con alcuni cantanti saliti sul palco dell’Ariston, uno per tutti, Rafael Gualazzi…

Mauro, eccoci. Mi sono stancato delle canzoni di Sanremo…
«Dammi retta, visto che anche noi ne stiamo parlando vuol dire che la manifestazione ha comunque raggiunto il suo scopo. Il suo successo sta proprio nel catalizzare l’attenzione».

Ok, ma… possibile che – parlando sempre di musica – l’encefalogramma del festival sia praticamente piatto?
«Ricordati che il Festival va di pari passo con la cultura, lo sviluppo e i gusti delle persone».

Quindi, l’ascolto attuale s’è livellato su una musica di facile presa?
«Ripassa la storia della manifestazione: Sanremo è nato come un vero Festival, cioè come un contenitore nel quale doveva esserci il meglio del meglio della canzone italiana di quel periodo. Oggi si è inesorabilmente adattato a un pubblico digitale, dove tutto deve essere veloce, arrivare subito, non deve far riflettere perché non c’è tempo né voglia di pensare… Un pubblico a cui la canzone deve subito piacere, dunque».

Certo, a Sanremo non va la musica d’avanguardia perché sarebbe un flop, ma almeno un po’ di sostanza…
«L’eccellenza, la sperimentazione sono visti come un rischio. Comandano gli affari e non la cultura, ma per questo non incolpo gli artisti. Ripeto, in un mondo dove tutto è veloce, superficiale sono sufficienti personaggi alla Achille Lauro che non sanno cantare, né suonare, né parlare… Sono personaggi utili al momento, costruiti per uno show che deve essere confortante. In questo comfort ci stanno anche le pseudo-provocazioni, ma coloro che hanno provocato veramente, per andare indietro nel tempo, l’hanno pagata… ricordo Xavier Cugat e la moglie Abbe Lane, attrice e cantante americana, donna tutta sensualità e décolleté, considerata troppo scandalosa per i censori della Rai, che la tagliarono».

La struttura dei brani è cambiata di conseguenza
«Di solito le canzoni avevano una introduzione suonata più o meno lunga, serviva a preparare l’ingresso della voce. Ora il cantato arriva subito e così anche l’inciso, formula che, comunque, vale per tutto il mondo pop! Sono scomparse le grandi melodie. Pensa a Il Cielo di Renato Zero, ai brani di Mia Martini, per me l’Aretha Franklin italiana, a Riccardo Cocciante, Luigi Tenco, Umberto Bindi, che cantò anche con Chet Baker, Domenico Modugno… Ma quanti ne abbiamo avuti!».

Mauro Ottolini – Foto Roberto Cifarelli

Perché un doppio disco su una musica lontana anni luce da oggi?
«Mi piace molto lavorare su questo genere di brani e anche sul jazz anni Venti. Sulle 21 tracce dell’album ho cercato di proporre arrangiamenti innovativi. Le introduzioni, ad esempio, sono sviluppate in maniera certosina. Ho inserito delle sorprese, dei cambi di tonalità e ritmo come in Grazie dei Fior (cantata da Nilla Pizzi che vinse, nel 1951, la prima edizione del Festival di Sanremo, allora al Salone delle Feste del Casinò della città ligure, ndr).

Non vorrei fare l’antipatico e il pensionato disfattista seduto in panchina ai giardinetti di quartiere, ma… non ci sono più le canzoni di una volta!
«Mi faccio spesso una domanda: nella musica c’è stata un’evoluzione, nel bene o nel male? La mia risposta è che semplicemente la musica si adatta alla società. Alla fine della Seconda guerra mondiale, quando si iniziò a ricostruire, c’era una voglia di fare enorme che portò al benessere degli anni Sessanta. Una crescita economica a cui è corrisposta anche una crescita culturale. Quando c’è fermento sociale anche l’arte è sublime. Nel periodo attuale non c’è quella spinta a migliorare e i livelli si sono abbassati vertiginosamente. La musica richiede passione, conoscenza, sviluppo, bisogna avere voglia di studiarla».

Il discorso vale anche per chi la ascolta: ci si “accomoda” su facili canoni espressivi, evitando complessità sonore perché non si hanno gli strumenti per capirle…
«Io stesso ho apprezzato certi dischi dopo averne ascoltati altri. Prendi ad esempio il Quartetto Cetra: lì c’era divertimento, c’erano arrangiamenti incredibili, studio dell’impostazione della voce, altissimi livelli musicali».

A proposito di canto: ma sei tu la voce maschile nel disco?
«Ebbene sì sono io! Ti confesso che all’inizio, da adolescente quando formavamo i primi gruppi per suonare, io facevo il cantante. Sarà per questo che amo la musica e la canzone italiana…».

Ottima l’imitazione della voce di Louis Armstrong!
«Basta fumarsi un pacchetto di sigarette al giorno e bere una generosa dose di whisky…».

Tra le 21 in gara c’è anche una versione di Brava della mitica Mina (1965) cantata da Vanessa Tagliabue Yorke…
«(ride, ndr) Ho voluto inserirla nel disco perché nasce da uno scherzo che mi ha fatto Vanessa. Non voleva cantare Brava, la sua erre moscia, sosteneva, glielo impediva. Alle prove mi ha fatto una sorpresa: invece del testo originale cantato da Mina, ne ha scritto uno alternativo, dove ironizzava sulla sua pronuncia. Un pezzo intelligente! Abbiamo chiesto alla casa editrice che detiene i diritti di Bruno Canfora, l’autore, di inciderla così, ma non ci è stato autorizzato. Ormai avevo già pronto l’arrangiamento, una settimana di lavoro. E dunque, eccola qua!».

Un brano fantastico, potrebbe essere lui il vincitore, che ne dici Giurato Unico?
«Potrebbe ma…».

Vabbè, andiamo oltre. L’Orchestra Ottovolante se non sbaglio quest’anno festeggia un bel traguardo?
«Facciamo i vent’anni di attività insieme. Nella formazione base siamo in undici elementi. In aggiunta c’è Vanessa. Su Mambo 5 c’è l’incredibile Vincenzo Vasi, che suona un numero indefinito di strumenti giocattolo».

Mauro, dobbiamo chiudere, mica aspettiamo sabato! Deciditi! Devi scegliere la canzone vincitrice del primo Festival di Sanremo Alternativo Il Mangiadischi, sennò mi devo far fuori la bottiglia di Rum e il cioccolato l’ho finito…
«Sono tutti grandi brani, hanno arrangiamenti frizzanti. Però, uhmm, beh… a una ci sono davvero affezionato, sì mi piace proprio… credo che…».

E dai, non farmi stare sulle spine, non abbiamo interruzioni pubblicitarie!
«Ok ok. Il vincitore della prima edizione del Sanremo Alternativo Il Mangiadischi con un voto su uno è… Nebbia, di Caterinetta Lescano, arrangiamento di Pippo Barzizza, cantato da Vanessa Tagliabue Yorke, arrangiamento di Mauro Ottolini. È un gran brano; il genovese Barzizza era un compositore del livello di Armando Trovajoli ed Ennio Morricone. Ha una poetica pazzesca, un testo magnifico!».

Noi la finiamo qui, sotto una liberatrice e purificatrice pioggia di note swing in Conosci Mia Cugina e Tu vuo’ fa l’americano. Fiati in crescendo, musica a bomba, irrefrenabile, afrori coloniali, corpi che roteano… Che festival, gente! Whisky’n’soda’n’rock’n’rollWhisky’n’soda’n’rock’n’roll…