Raffaele Spidalieri, ovvero il Segno dell’acqua e l’umanità

Confesso: era da un po’ che dovevo chiamarlo. L’ho fatto ieri sera, dopo aver ascoltato più e più volte il suo ultimo lavoro uscito nel settembre dello scorso anno, Il Segno dell’acqua. Titolo intrigante quello che Raffaele Spidalieri, classe 1971, ha deciso di dare a un lavoro di undici tracce per niente facili nei testi e anche nella musica. Raffaele è un bel personaggio, molto profondo, adora la filosofia, è un neurologo, si occupa di neuroriabilitazione, e molto “umano” nell’accezione filosofica del termine, l’essere sociale aristotelico, ma anche l’uomo pitagorico, fatto di anima e corpo, o quello kantiano, che scruta la bidimensionalità, quella tensione tra sensibilità e ragione. L’uomo e la sua umanità sono un tema centrale del lavoro di Spidalieri e proprio per questo la sua alta aspettativa verso l’essere umano pensante, sociale, teso all’altro da sé, è messa sempre a dura prova. Allora auguri, a me che resto/ con questa voglia di libertà/ questa vertigine di corde tese/ questa carezza di verità/ E ancora brindo, a me che resto/ e ancora auguri a chi non sa/ guardare avanti e andare a tempo/ trovare musica…canta in La Follìa.

Ce n’è abbastanza farci una bella conversazione anche se a distanza (avrei preferito davanti a un solido rosso toscano, visto che vive in un luogo spettacolare, San Gimignano, in provincia di Siena). Stesso discorso per la sua musica. Non etichettabile, per le sue complessità e aperture armoniche che passano da impianti jazz a graffianti chitarre rock a ballate di certo cantautorato colto, ascoltare per credere Il segno dell’acqua, l’unico brano musicale del disco, arrangiato da Mauro Grossi, pianista jazz livornese. Sui musicisti vale la pena aprire una parentesi: oltre a Grossi, ci sono il grande Ares Tavolazzi ai bassi e contrabbasso con Franco Fabbrini, Luca Ravagni ai fiati, tastiere e programmazioni elettroniche, Diego Perugini alle chitarre, Andrea Beninati, Gianni Cerone, Gianluca Meconcelli alla batteria e percussioni. Tutti toscani, tutti amici. Una superband dove prima viene l’amicizia, il comune sentire, dal quale deriva la musica. Si parla la stessa lingua, di note e di cuore.

Raffaele partiamo dalle tue professioni, medico e musicista. Un’apparente bipolarità, ma non è così, vero?
«Ricordo che fin da piccolo sostenevo di voler diventare un medico, probabilmente un retaggio della mia vita pretendete! Sempre da bambino ho iniziato a studiare il pianoforte e ad appassionarmi di musica. Così’, a 18 anni mi sono trovato a un bivio: ho scelto le lusinghe della medicina…».

Ti occupi di neuroriabilitazione a Volterra, mestiere complesso!
«Studiando medicina ho scoperto il cervello, questa “arancia meccanica”, e me ne sono innamorato. Quello del medico è un mestiere difficile perché hai in mano la cosa più preziosa di un uomo, la sua salute, è un lavoro che ti cambia la vita».

La musica è una cura?
«È l’esternalizzazione della tua anima, mi sento come una sorta di dottor Jekill e mister Hyde, devi avere la sensibilità e la capacità di scrutare dentro. Mi piace definirmi “medico dell’anima”, non puoi ridurre tutto a molecole biologiche. Come sosteneva del resto Ippocrate: c’è anche l’anima che deve essere curata».

Essere un medico influisce sulla tua musica?
«È un osservatorio privilegiato che alza i tuoi orizzonti. Io la vedo così, volare alto, essere un rapace che vede tutto in basso. Non è un lavoro facile conquistarsi le ali, parti da pesce e devi progredire fino a diventare un’aquila. Non è semplice a volta fa male, ma poi senti che hai dato un senso alla vita, ed è bellissimo».

Perché fa male?
«Perché il prezzo da pagare è la solitudine. Esagero, ovviamente. Ma riesci a riconoscere quelle che De Andrè chiamava le “anime salve”, e scambiare con queste persone pezzi di buona energia. Così si riesce a crescere».

La tua musica non ha un genere predefinito è… musica…
«Sono un uomo curioso di nascita. Quindi do molta importanza al testo. Con lui arriva anche la melodia. Quest’embrione di canzone, fatto di accordi, testo, linee di arrangiamento, melodia e struttura armonica poi lo passo a chi è davvero un musicista formato perché lo rivesta sartorialmente. Cioè ai miei amici che mi accompagnano da tempo, come Mauro Grossi o Ares Tavolazzi. È un lavoro di squadra, ci sentiamo quasi dei fratelli, facciamo tutto insieme, viviamo in totale armonia, costruiamo insieme. Ho studiato musica una vita ma non ho la genialità di un Mauro Grossi. Il disco è stato scritto nota per nota!».

Il Segno dell’acqua che significato ha?
«La cover del disco è il simbolo alchemico dell’acqua: vuole essere un lavoro introspettivo, dentro ci sono le mie esperienze e conoscenze da Erasmo da Rotterdam a Platone».

Perché avete scelto Cloro, per lanciare il disco?
«Se la ascolti sembra una canzone d’amore, in realtà lo è, ma d’amore verso se stessi. In fin dei conti perché ti innamori di una persona? Perché questa riesce a tirarti fuori qualcosa che hai nascosta dentro. È questo che fa scattare la scintilla. Dunque nell’innamoramento c’è sempre qualcosa di te stesso che ami. Dovremmo volerci bene, amarci di più, credimi».

Il Covid cosa ci ha lasciato? Te lo chiedo da medico e da musicista.
«Ha provocato un’accelerazione evolutiva troppo veloce. La dimostrazione è che c’è stato un aumento dell’80% dell’uso dell’alcol e il consumo medio degli psicofarmaci è più che raddoppiato. Non ci ha insegnato bene: invece di essere più umani siamo diventati più stronzi. A me ha fatto bene: avendo i turni compattati in ospedale mi trovavo con tanto tempo libero che usavo per scrivere, comporre, suonare e leggere».

È tutto passato?«Credo che il peggio debba ancora arrivare. Il sistema sanitario è stato messo in ginocchio e si continua a non fare niente per rialzarlo. Quanto all’essere umano: siamo diventati più cattivi, accidiosi, iracondi, superficiali…».

Non hai mai pensato di fare solo il musicista?
«Eccome! Lo avevo deciso nel 2020. Mi ero dimesso da primario di neurologia riabilitativa, poi l’8 marzo ha cambiato il mondo e anche le mie sorti. Avevo già date fissate per concerti, tante idee da realizzare».

I tuoi colleghi medici cosa dicono della tua attività artistica?
«Mi suggeriscono di andare a fare il cantante, gli artisti, invece, di continuare a fare il medico. A parte gli scherzi, mi hanno sempre sostenuto, figurati i mei fratelli musicisti! Raffaele significa dio guaritore: se lassù cambiassero il punto di vista, mi farebbero un favore…».

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