Giacomo Tantillo, Bandistikamente… banda!

Bandistikamente. Titolo fulminante, preciso, chirurgico. È quello che il trombettista palermitano Giacomo Tantillo ha dato al suo ultimo lavoro – fieramente autoprodotto – uscito in formato fisico il mese scorso (in digitale è disponibile da novembre 2023). Otto brani per 33 minuti d’ascolto che celebrano il ruolo della banda musicale nella vasta prateria dell’orchestrazione.

In Italia, secondo dati forniti dalle associazioni bandistiche, ci sono oltre cinquemila bande che occupano dai 150 ai 180mila musicisti oltre ad altrettanti allievi, vivaio che garantisce continuità. Un’attività che parte dal basso, che dà l’opportunità, anche e soprattutto a chi non ha le disponibilità, di imparare a suonare uno strumento e studiare musica.  Continua a leggere

Ensemble Sangineto, l’altro volto della musica popolare

Unire i punti di contatto nella World Music è importante. E quando la musica popolare sconfina nella World Music può nascere qualcosa di nuovo pur ricondotto al passato, alle nostre radici culturali. 

Un lavoro esegetico importante che ritrovo in un disco uscito giusto un anno fa in supporto digitale e nell’ottobre scorso sugli scaffali fisici. Il titolo riassume il grande e attento lavoro che ci sta dietro: Grand Tour Vol. I. È firmato dall’Ensemble Sangineto, al secolo i fratelli Caterina e Adriano Sangineto e Jacopo Ventura. Tre musicisti che vengono dalla musica popolare e da mille altre strade coltivate per lavoro e passione. Il loro Grand Tour, concepito come “l’anno sabbatico” dei giovani europei nel Sei/Settecento, che arrivavano in Italia per studiare la cultura e la storia del nostro Paese, è un appassionante viaggio in dieci canzoni nella tradizione popolare italiana. Un lavoro per nulla scontato, che solo grandi esperti e bravi musicisti possono permettersi di fare. Continua a leggere

Un paio di dischi per l’estate di San Martino

Siamo in piena estate di San Martino, quel periodo dell’anno dove il tardo autunno regala un tepore ingannevole prima dell’inverno. Ascoltando due dischi usciti durante il mese, mi è venuto normale associarli a queste giornate: niente di nuovo, piuttosto di rivisto e rivissuto con gli occhi di oggi, due lavori che emozionano, mettono allegria, voglia di evasione e un pizzico di nostalgia. Gli artisti in questione sono bravi e famosi, Van Morrison e Cat Power. Il primo, il 3 novembre scorso, a pubblicato Accentuate the Positive, la seconda, il 10, Cat Power sings Dylan: The 1966 Royal Albert Hall Concert. Ve li consiglio “caldamente” entrambi, per chi ha voglia di rivangare e per chi, invece, di scoprire… Continua a leggere

Manòglia, le riflessioni folk di Davide Van De Sfroos

Davide Van De Sfroos – Foto Alessio Pizzicanella

Manòglia, in laghée, il dialetto della gente del lago di Como, è la magnolia. Ed è il titolo del lavoro che Davide Van de Sfroos pubblica oggi, 15 ottobre, per per BMG/MyNina in versione vinile, Cd e download, oltre a un vinile colorato in edizione limitata e numerata (nessuna uscita in streaming).

Undici brani per 43 minuti d’ascolto dove il songwriter di Mezzegra racconta con maestria personaggi, siano essi di fantasia come El Mekanik, o veri come Zia Nora, farfalle, boschi, funghi, spore, foglie…

Mi sono letto i testi più volte prima di ascoltare il disco: Davide riesce a creare, in quel magico mix di dialetto e italiano, mondi fantastici dove entri come Alice nel Paese delle Meraviglie e dove tutto non è come sembra. L’ovvio con Van de Sfross diventa stupore, una raffica di vento si trasforma in una carezza liberatoria, le foglie sono punti cardinali in un bosco fitto: Quattro foglie come bandiere/ Quattro foglie come pesci nel vento/ Quattro lacrime della foresta/ Quattro sorrisi della stagione, sussurra in Foglie al Vento, brano che chiude il disco. Continua a leggere

Premio Cesa: a San Daniele c’è Massimo Priviero

Il 3 luglio a San Daniele del Friuli sarà proclamato il vincitore della XIX edizione del Premio Alberto Cesa (musicista, cantore e suonatore di ghironda, anima con Donata Pinti dei Cantovivo, gruppo folk torinese nato negli anni Settanta). Un riconoscimento meritorio per quei progetti italiani che danno voce “a una o più radici culturali di qualsiasi parte del mondo”. 

A contenderselo quest’anno, scelti tra duecento partecipanti, i Femina Ridens dalla Toscana, i Luarte Project dalla Liguria, i Dimotika da Emilia e Trentino, i Grama Tera dal Piemonte, gli Yerba Buena Trio dal Friuli Venezia Giulia e gli Yaràkä dalla Puglia. In questa serata in chiusura dell’edizione Folkest – International Folk Music Festival 2023, domani sera sul palco ci sarà, oltre ai gruppi appena citati, anche un ospite d’onore di gran rispetto, Massimo Priviero.  Continua a leggere

Torna Bob Dylan, meraviglia analogica

Sei giorni fa Bob Dylan, 82 anni compiuti il 24 maggio, ha pubblicato, via Columbia Records, il suo 40esimo album in studio, Shadow Kingdom. Quattordici brani suonati da vecchio cantautore folk, senza pianoforte, né violino, né batteria, né percussioni. Chitarre acustiche ed elettriche, contrabbasso e basso, fisarmonica. E la sua voce, che alla sua età è addirittura migliorata, più pastosa e smussata.

Si tratta di composizioni completamente riscritte su brani degli anni Sessanta con tre eccezioni: Forever Young, contenuto in Planet Waves, album pubblicato nel 1974, What Was It You Wanted, da Oh Mercy del 1989, e l’ultimo, Sierra’s Theme, strumentale, un brano cinematografico che ricorda un tramonto, la palla infuocata del sole che scende e lui, il menestrello di Duluth, chitarra in spalla che si avvia in controluce verso la sera. Continua a leggere

Disco del Mese: “What Does It Mean to Be American”, Robert Stillman

Nel 2022 troverete una nuova rubrica su Musicabile. L’ho battezzata – banalmente – Disco del Mese. Qui scriverò di quello che, per i miei ascolti, è, appunto, il lavoro più intrigante e interessante, bello ed emozionante del mese. A gennaio vi segnalo un album pubblicato venerdì 21, degno di un attento ascolto…

È l’ottavo lavoro in studio composto, suonato in tutte le sue parti, prodotto e registrato da Robert Stillman, americano del Maine, residente dal alcuni anni nell’East Kent, in Gran Bretagna. Si intitola What Does It Mean to Be American?, sette tracce per la durata totale di 34 minuti e 15 secondi. Un solo brano cantato, Cherry Ocean, il primo e il più lungo (8 minuti e 34 secondi).

Here lives a family where opposites collide
A brearthing tapestry, the youngest and the guide
A fear of chilly old bones, where influence lies
You dream of a cherry ocean, with a white light
sailing over…

Questa la prima strofa. Sembra di ascoltare le atmosfere minimal del Novecento, il Simbolismo di Debussy, con un sottofondo marchiato Pink Floyd…

Il disco è suonato dal polistrumentista Robert in tutte le sue parti. Sax, pianoforte, piano Rhodes, batteria, clarinetto basso, elettronica. Frammenti volutamente scomposti e poi inseriti in un puzzle perfetto di suoni e generi. C’è jazz, certamente! Ma c’è anche folk americano, accenni classici, appunto, drone music, avanguardia. Tutto scomposto, liquido, come il musicista vede la società americana di oggi.

La seconda traccia, It’s All Is, un’allegra sessione di fiati con un sax tenore predominante, è una rassicurazione dopo la fluttuante Cherry Ocean. Il riff del sax è caldo e invitante, ci si ritrova. Nel video che l’artista ha girato – sempre da solo! – scorrono a ogni “It’s All… Is” parole in coppia di opposti: sofferenza e felicità, bei tempi, tempi bui, risate e pianto, realizzare qualcosa o far niente… indecisioni che si avvertono musicalmente ogni volta che il tema finisce e ricomincia, inciampi voluti. E questa incertezza sul fare scivola, inesorabile, verso un drone ambient, dove tutto s’annebbia…

Passata Self-Image, nella quale il tema iniziale, funk, chiaro, finisce per scomporsi in echi di un sax sovrapposto, si arriva al brano che preferisco in assoluto, Acceptance Blues: il suono ovattato di un piano a muro, un tema che scivola leggero sui tasti, e un fragore primordiale, prima sommerso poi sempre più insistente, un blob sonoro che avvolge lentamente le note dominanti: iniziano dissonanze volute, mentre tutto viene nascosto da una coltre sempre più pesante di noise che poi finisce per esplodere, assordante. Sembrano i frastuoni di un incendio. Alla fine, tra le macerie fumanti, s’innalza il suono nitido e calmo di un fiato. Il canto solenne di speranza dopo la distruzione?

Si continua con What Does It Mean to Be American?, strumenti che diventano tante voci diverse di quel melting pot che sono gli Stati Uniti. Forse oggi il significato di essere americani non è poi così tanto chiaro come era in passato. Il Paese ha bisogno di “accordarsi” nuovamente, scoprire nuovi modi per stare insieme. Deep Time, USA, penultimo brano, è l’amara considerazione del caos organizzato che regna in questo millennio, c’è bisogno di pace, di certezze, di unioni e non di divisioni politiche, razziali, di classe.

No Good Old Days è l’ultima traccia: una classica chitarra folk, la tentazione di ritornare a chiudersi in ambienti confortanti, “accordati”, che però è assai improbabile che ritornino. Un pezzo intriso di nostalgia, mentre il folk si fonde in un caos onirico di suoni. Chiude il lungo, umano respiro del musicista, l’ultima aria che si vuota dai polmoni e che preclude ogni nostalgia di un tempo che fu…

Interviste: Cisco, il folk, la politica e le sue Canzoni dalla Soffitta

Stefano Cisco Bellotti – Foto IlariaDRPhoto

Me ne sto su in montagna, Veneto, massiccio del Grappa, in una casa che domina la pianura. Neve e silenzio, il fuoco che arde nel caminetto e in cuffia I Contain Multitudes di Bob Dylan da Rough and Rowdy Days. Mi sono scelto con cura la canzone perché mi accingo a scrivere un’intervista a cui tengo molto. L’artista in questione, non a caso un appassionato di Dylan, è un menestrello nostrano, che in trent’anni di attività non ha mai lasciato i binari di un certo tipo di musica, quella che negli anni Settanta veniva definita “impegnata”. Nelle sue ballate c’è sempre un perché, sia esso sociale, sia politico, sia il ricordo di un amico prezioso che il Covid s’è portato via, armoniche che riportano a un certo modo di concepire la musica, un mezzo per dialogare non solo di futilità ma anche e soprattutto di “Essere”.

Lui è Cisco, al secolo Stefano Bellotti da Carpi, 53 anni, una vita artistica spesa soprattutto nei Modena City Ramblers come frontman e una scelta, tanti anni fa, sempre per via di quei binari dove corre da sempre la sua vita, di mettere su famiglia e raccontare il mondo da una posizione più tranquilla.

L’ho chiamato perché, oltre a sentire il suo punto di vista sulla musica italiana corrente, volevo parlare con lui anche del doppio disco che ha pubblicato il 29 ottobre scorso, Canzoni dalla Soffitta. Folk, chitarre aperte e sincere, brani scritti nel suo studio-soffitta di casa dove ha passato i lockdown di questi due anni assurdi.

Ballate dove si racconta e narra storie importanti, belle, aperte dove trovano luogo naturale collaborazioni con musicisti e artisti molto interessanti, dall’ex Roxy Music Phil Manzanera con i The Solidarity Express – band composta, oltre che da Phil, da musicisti di varie provenienze ed estrazione che mandano un messaggio di integrazione, fusion sociale e musicale, lo scorso aprile ha pubblicato il suo primo album, Radio Ubuntu a Simone Cristicchi, a Franco D’Aniello, mitico flautista, uno dei “padri fondatori” dei MCR con il suo inconfondibile tin whistle.

Nel secondo disco, i Live dalla Soffitta, una selezione di brani che Cisco ha suonato in streaming – uno ogni giorno – durante il lockdown, per chi voleva ascoltarlo. Qui, c’è anche una bella versione di Ovunque Proteggi di Vinicio Capossela…

Eccoci qua Cisco, prima di parlare del tuo disco – mia indagine personale – voglio chiederti un parere sulla situazione della musica italiana, quella mainstream per intenderci…
«Che ti devo dire? Terribile. In 15 anni siamo riusciti a tirare fuori il peggio del peggio che abbiamo, incapaci di valorizzare qualcosa che c’era già, trasformando la musica in un nulla cosmico! Quello che conta è il fatturato. A dir la verità, la situazione risale a molto tempo fa, quando le case discografiche non sono state in grado reggere le nuove tecnologie. Ricordi quando è uscito Napster? Si sono messe tutte a fargli la guerra non rendendosi conto che lì dovevano lavorare, non combattere. Ora si scelgono i gruppi in base alla visualizzazioni sui social. L’ultima ondata di musicisti scelti perché avevano qualcosa da dire risale agli anni Novanta, quando Stefano Senardi, alla Polydor, aveva intuito la potenzialità di alcuni gruppi sconosciuti, ecco come sono esplosi i CSI, i Modena City Ramblers, i Negrita, gli Africa United. Oggi nel mainstream non c’è più diversità, ma omologazione».

Vale per il nuovo pop, rap e trap?
«Non solo ma penso anche – ed è un mio parere personale, forse un po’ naïf – alla nuova scena cantautore italiana, dove nessuno degli artisti prende una posizione. Ho visto un’intervista a Lodo Guenzi, de Lo Stato Sociale, si stupiva proprio di questo e lo diceva anche di se stesso e della band».

Cioè, hai successo se non rompi le palle con testi impegnati?
«Più o meno così, la scena più “impegnata” lavora nei bassifondi. Esiste, certo! Ma non trova uno spazio. Non è che mi rifiuto di ascoltare rap o trap, tanto per fare un esempio tra i tanti mi piace Willie Peyote, fa cose bellissime, ma il problema è che tutti devono rincorrere il mainstream per emergere».

Con i Modena City Ramblers facevate politica?
«Non eravamo un gruppo legato a un partito. Avevamo le nostre idee, che a volte coincidevano con certe aree politiche, ma sempre aperti a chi la pensava come noi. Il problema  è arrivato poco prima degli anni 2000, quando è iniziato un costante lavoro di delegittimazione da parte di una parte politica, di tutti quei pensieri che si potevano ricondurre alla sinistra, sostenendo che, tanto è tutto uguale, che  non esiste più né la destra né la sinistra. Ci è stato detto e ripetuto per anni sui giornali al punto che oggi, dichiararsi fascista, per alcuni è una cosa di cui fregiarsi. Sono spariti i freni inibitori e così viene sdoganato il peggio del peggio che c’è in Italia. Ma va tutto bene, tanto la vita è un circo, il tempo passa e tutto può succedere, il problema è che si stanno minando le radici della nostra storia».

Cisco in concerto – Foto IlariaDRPhoto

In tutto ciò anche la musica…
«Sì anche la musica ha subito questa omologazione. Ho letto di artisti impegnati che si sono lamentati di non essere stati scelti a Sanremo… Il Festival non c’entra niente, non è lui il problema, piuttosto il fatto che non esistano altri contenitori musicali dove possa trovare spazio un altro tipo di musica. In Italia non esiste qualcuno che abbia la forza e la voglia di costruire un canale di musica impegnata. Così, nonostante la nostra storia millenaria rimaniamo un paese provinciale dove, per esistere, come artisti siamo ridotti a sperare di andare a Sanremo…».

Veniamo al tuo disco, Canzoni dalla Soffitta, un bel titolo…
«Vuol essere un riassunto di questi due ultimi anni vissuti pericolosamente. Sono istanti fissati, ma anche un lavoro che guarda al futuro».

Tra le tante canzoni, ben 24, che proponi, c’è anche una rivisitazione in italiano del mitico The Ghost of Tom Joad di Bruce Springsteen (album del 1995), che si rifà a Furore di Steinbeck, il  cantore della Grande Depressione…
«È un regalo a Luca Taddia (FEV, ndr). È un brano che dice tutto, per Springsteen è la sua Cent’anni di Solitudine, ma che racconta ancora con estrema modernità, quello che siamo noi stessi oggi. Una trasformazione che sta accadendo e che della quale nemmeno ci accorgiamo».

Mi incuriosiscono tanti brani, uno mi ha colpito in particolare, Lucho
«È dedicata al nostro amico Luis Sepúlveda, che familiari e amici hanno sempre chiamato amichevolmente Lucho. Sepúlveda è stato un grande amico dei MCR, un mio amico, ci siamo visti più volte, abbiamo suonato anche alla sua festa di compleanno quando ha compiuto cinquant’anni. È parte della nostra storia, mi sembrava giusto dedicargli una canzone, omaggiarlo…».

E poi ci sono La Finestra sul Cortile e Leonardo Nimoy…
«(Ride, ndr) La prima è un omaggio a Hitchcock. Quando eravamo in lockdown, guardavo fuori dalla finestra e vedevo un mondo intorno a me e mi è venuto naturale pensare al grande regista e al suo film, la seconda, invece, è un brano che guarda al futuro, un modo per accompagnare i figli (io ne ho cinque!) nella loro crescita, permettendo che commettano i loro errori, imparando da questi, senza preoccuparci di evitare che non cadano nei nostri. I ragazzi devono saper distinguere da soli, perché i costumi li vestono i supereroi ma anche i pagliacci…».

Mentre la seconda parte, il Live dalla soffitta?
«Un live senza pubblico presente. Mi collegavo dalla mia soffitta-studio ogni giorno durante il lockdown, un appuntamento per chi mi seguiva, un modo per dire ci sono, condividiamo. Sono brani con arrangiamenti minimali, chitarra e voce. Chitarra e voce è la prova del nove di una canzone, se regge, vuol dire che è buona».

Qui, hai voluto omaggiare altri artisti…
«In Manifesto ho voluto ricordare Erriquez (Bandabardò, ndr) mancato nel febbraio scorso, un messaggio d’amore, per lui e per la sua arte. In Ovunque Proteggi, ho celebrato uno dei miei artisti preferiti, Vinicio Capossela».

Cisco cosa stai ascoltando?
«Sto regredendo. Dopo aver cercato di restare al passo con i tempi, mi sto reinnamorando di chi mi ha fatto innamorare della musica. Dunque, Bob Dylan e il suo Rough and Rowdy Ways, un lavoro magnifico! Poi, rileggendone i testi, gli U2, Sunday Bloody Sunday fa venire i brividi ancora oggi, quella è la musica che mi piace. Ascoltavo con piacere anche i Mumford & Sons e in questi giorni Raise of the Roof, il secondo album che, a distanza di 14 anni hanno pubblicato Robert Plant e Allison Krauss…».

Cisco, come ti definiresti?
«Sono un ottimista di natura, penso di aver capito qual è il mio posto nel mondo. L’abbiamo ereditato e abbiamo l’impegno di lasciarlo al meglio. Pensa, noi stiamo vivendo 80 anni di pace, non c’è mai stato un tempo così lungo senza conflitti in Europa. E penso anche ai miei, a tutti coloro che, prima di noi, non sono vissuti senza guerre. Molta gente, questo, non lo capisce…».

Eccoci arrivati alla fine. Parlare con Cisco è come stare un sabato pomeriggio qualsiasi seduti a un tavolino con un buon rosso davanti e un saggio amico che ti fa riflettere. Ascoltare il suo folk senza età, è un ottimo esercizio per la memoria e il pensiero. Atto che in questi anni è quanto mai necessario.

Voglio finire lasciandovi il testo di Riportando tutto a casa, brano contenuto nel primo dei due dischi di Canzoni dalla Soffitta. È anche il titolo dell’album d’esordio dei Modena City Ramblers. Un testo autobiografico, che ripercorre i suoi trent’anni di musica, da quando, ragazzo di provincia impallinato con la musica folk irlandese, è salito sul palco durante un concerto “irish” dei Modena, e ha cantato con loro. Da quel palco non è mai sceso: anche se ha lasciato la band da anni è rimasto quel ragazzo che aveva il folk nella testa e le parole giuste nella penna.

Riportando tutto a casa,
in un soffio di polvere e in una maglia da pallone,
col sudore ho scritto anche il mio nome.
In silenzio ci ho messo la mia vita e la mia voce,
e non è un caso se canto in Re minore.
Ho viaggiato in furgone verso la rivoluzione,
ho fatto sosta nei bar di quartiere
come un uomo qualunque, un poeta un po’ cialtrone,
come un piccolo Hemingway senza pretese.
E ancora oggi sono qua tra Spotify e un vecchio disco,
tra una festa di paese, tra i Pogues e il liscio,
da qualche parte tra Carpi e San Francisco,
da qualche parte tra Carpi e San Francisco.
E ancora oggi sono qui tra una pinta e il Lambrusco,
fra il tanto e il poco, tra la roccia e il muschio.
Sulla strada di un sogno e il posto giusto,
sulla strada di un sogno e il posto giusto.
Ho dormito la mattina per rubare via alla sera
e ora porto i miei ricordi sulla schiena.
Ho gambe molli ogni sera prima di tornare in scena,
mangiarmi il mondo o andare a cena con la iena.
Avevo un trono di legno dentro notti illuminate,
l’ho buttato per tornare sulla strada.
Ho gli occhi rossi bagnati dal vento caldo dell’estate,
ho visto il mondo e riportato tutto a casa,
ho visto il mondo e riportato tutto a casa.
E ancora oggi sono qua tra Spotify e un vecchio disco,
tra una festa di paese, tra i Pogues e il liscio,
da qualche parte tra Carpi e San Francisco,
da qualche parte tra Carpi e San Francisco.
E ancora oggi sono qui tra una pinta e il Lambrusco,
fra il tanto e il poco, tra la roccia e il muschio.
Sulla strada di un sogno e il posto giusto,
sulla strada di un sogno e il posto giusto.

Interviste: Beppe Dettori, Raoul Moretti e le tante “Animas”

Beppe Dettori e Raoul Moretti in concerto – Foto Claudio Muzzetto – PHOTO&PANO

Echi lontani, etno folk, progressive rock, preludi bachiani, cori millenari. Quando mi sono trovato ad ascoltare Animas, lavoro uscito nel maggio scorso dalla creatività di Beppe Dettori e Raoul Moretti ammetto di essermi sentito perso in una dimensione dove tempo e generi non esistono. Ci sono solo parole e armonie che si fondono per chi ha la pazienza e la curiosità di ascoltare. Esattamente il punto di forza di questo album. Un’isola dove convivono suoni e canti creati con il chiaro intento di raccontare. Un ricordo, una storia, una sensazione, un’emozione. Ho citato isola non a caso, visto che i due artisti vivono in Sardegna.

Beppe è nato a Stintino e Raoul, comasco di nascita, da una decina d’anni ha scelto Cagliari come suo luogo di vita. Nel mio lavoro di autostoppista musicale la Sardegna è un luogo magico, come la Sicilia. Isola sonora (ne avevo parlato con Paolo Fresu qualche settimana fa), dove il crocevia di popoli e culture ha fatto sì che anche la musica, espressione popolare, venisse contaminata. Isola legata alle tradizioni, da cui riparte alla ricerca di nuovi orizzonti musicali.

Beppe e Raoul sono due esempi cristallini di quello che ho scritto sopra. Il primo, virtuoso della voce – è stato per otto anni anche il cantante dei Tazenda – il secondo, diplomato al Conservatorio in arpa, è una delle migliori espressioni di questo strumento in Italia e non solo. Dopo la formazione classica s’è dedicato allo studio e al suono dell’arpa elettrica che usa in vari modi (poi leggerete). Suonano insieme da alcuni anni. “Ci siamo trovati”, dicono entrambi, e “ci divertiamo un sacco a far musica insieme, soprattutto dal vivo, un proficuo scambio artistico”.

In Animas ci sono collaborazioni importanti e varie. I Tenores di Bitti Remunnu ‘e Locu, i Cordas et Cannas, i Concordu e Tenores de Orosei, Paolo Fresu, Franco Mussida, Davide Van de Sfroos, Gavino Murgia, Flavio Ibba, Alberto Pinna, Daniela Pes, Lorenzo Pierobon, i FantaFolk, Andrea Pinna, Giovannino Porcheddu, Massimo Canu e Federico Canu, Massimo Cossu… Un ensemble che ha avuto piena libertà di espressione nel suonare o cantare i brani composti dal duo.

Si tratta di dieci inediti e una cover, l’ultimo brano dell’album, la rivisitazione in sardo di una canzone di Peter Gabriel, Fourteen Black Paintings – che qui è diventata Battordicchi Pinturas Nieddas – dall’album Us, non una delle più conosciute, ma sicuramente una delle più affini a Beppe e Raoul, grandi fan dell’ex-frontman dei Genesis e del suo percorso personale nel prog e nella worldmusic. Fra l’altro, Gabriel da anni è un assiduo frequentatore della Sardegna, dove ha casa vicino alla Costa Smeralda.

Come sono solito fare, per capire la nascita di un album così denso di riferimenti stilistici ed emozionali ho deciso di fare quattro chiacchiere con loro. Abbiamo parlato del disco e, poi, siamo finiti, come dei ragazzini alle loro prime scoperte musicali, a raccontarci di questo o quell’altro artista, della musica che si ascoltava e di quella che si sta ascoltando, delle abilità di certi musicisti di fare più cose contemporaneamente sul palco… Insomma, tre amici al bar davanti a una birra e con l’entusiasmo per la stessa passione.

Parto subito diretto: cosa rappresenta per voi Animas?
Beppe – «Quello che noi siamo. Dentro al disco c’è tutta la mia esperienza, ci sono vari generi musicali che mi piacciono. Raoul viene da studi classici, io dalla musica leggera. Ho studiato lirica per qualche anno e poi ho virato verso il pop. Insieme, con le nostre differenze, ci divertiamo tantissimo. Le nostre anime si divertono. Questo è un progetto studiato apposta per il palco, il live. Abbiamo deciso di metterlo anche su un supporto meccanografico con l’idea di “archiviare” questo lavoro, lasciarne traccia. Fino a qualche anno fa suonavamo in un gruppo i Dolmen Project, in quattro più una performer coreografica. Poi, come spesso accade nelle band, siamo rimasti in due. Raoul a Cagliari, io a Sassari e per suonare ci siamo trovati a metà strada, a Oristano!».

Avete fuso parecchi generi musicali, dal folk al prog…
Raoul – «I generi mi (ci) stanno stretti. Sono molti quelli che ci dicono: “Musicalmente non riusciamo a collocarvi”. Sono cresciuto con il progressive, il Rock e le radici folk dell’arpa, quindi, celtiche e sudamericane. Sono comasco di nascita e crescita ma in Sardegna ho trovato un terreno prolifico per la musica che voglio fare e collaborazioni meravigliose».

A proposito di di Sardegna, perché quest’isola vanta così tanti musicisti e di varie estrazioni?
Beppe – «Perché è un territorio adatto a liberarsi da tante costruzioni mentali. Qui c’è un’apertura totale alle connessioni e posso esprimere tutto quello che ho imparato. Con Raoul abbiamo deciso di far uscire qui la nostra creatività. Suonando in mezzo alla gente. Nel progetto live S’Incantu ‘e Sas Cordas, diventato un album (2019, ndr), ho lavorato su vari linguaggi per la vocalità. In S’incantu I e II il testo non ha significato, sono frasi inventate, parole in diverse lingue che mi interessava inserire per ottenere un determinato ambiente sonoro della voce».
Raoul – «Nel nostro lavoro, nei live c’è tanta improvvisazione anche in pezzi con strutture ben definite. Ci riserviamo dei momenti “liberi”, che poi è la filosofia che sta alla base del jazz. Per esempio, il brano di Gabriel, Battordicchi Pinturas Nieddas, non lo facciamo mai uguale dal vivo. Nel disco c’è l’intervento dei cori dei Tenores di Bitti e di Lorenzo Pierobon, sul palco il brano si svuota, c’è solo l’arpa, la chitarra e la voce di Beppe, si dà più spazio ai silenzi».

Quindi Animas è un lavoro di sottrazione?
Raoul – «Effettivamente con le collaborazioni ci è sfuggita la mano, abbiamo invitato tanti artisti, amici, lasciandoli liberi di esprimersi e l’album è ricco di tutto ciò».
Beppe – «C’è molta introspezione in Animas. Ci siamo tenuti sulle note bordone sulle quali appoggiare e giostrare armonie in quella tonalità che è madre e padre».

Beppe Dettori e Raoul Moretti – Foto Claudio Muzzetto – PHOTO&PANO

Beppe tu lavori molto anche sul canto diatonico…
«Più che diatonico, è difonico. Il canto armonico mi appassiona molto, l’ho studiato e continuo a farlo. Può sembrare di origine orientale, in realtà, da oltre 4mila anni si usa anche in Europa: i canti nuragici esistevano già duemila anni prima di Cristo. D’altronde la struttura del canto a tenore (inserito nell’Unesco tra i Patrimoni orali e immateriali, ndr) non è altro che il tentativo di connettersi alla natura attraverso le imitazioni dei tre animali importanti per la vita dell’uomo in migliaia di anni, su bassu, un suono baritonale, gutturale che rappresenta il bue, sa contra, il contralto, la quinta sotto, è il verso del muflone, mentre sa mesu oghe, la mezza voce, il belato dell’agnello.  Il pastore è la voce solista, su tenore, quella che dà il senso al motivo. Di solito è una poesia, non necessariamente scritta, può essere anche di tradizione orale. Il solista ha il potere di scegliere lo stile (da ballo, d’ascolto, di musica sacra), sempre comunque connesso con la natura. Il muggito del bue è dato da un uso delle false corde (quelle di cui si servono anche i monaci tibetani o le versioni growl del metal, ndr).

Raoul, curiosità mia, come ti sei appassionato all’arpa?
«È stato puramente casuale. In realtà agli inizi degli anni Novanta l’arpa aveva ben poca diffusione, soprattutto tra gli studenti maschi del conservatorio. Avevo cominciato, infatti, con il pianoforte. Quando si trattò di scegliere l’altro strumento di studio obbligatorio, qualcuno mi suggerì di mettere l’arpa perché pochissimi la seguivano. Grazie ai miei insegnanti mi sono appassionato al punto di farlo diventare il mio strumento di studio principale e, poco a poco, abbandonare il pianoforte. Durante il percorso accademico ho iniziato a vederlo come uno strumento dalla grandi possibilità anche fuori dai canoni orchestrali. Infatti, con i miei amici,  suonavo rock con l’arpa. È stato lì che mi sono interessato all’arpa elettrica. Ho passato notti a casa di Francesco Zitello, un grandissimo arpista, ascoltando e suonando. Negli ultimi anni il nostro strumento sta prendendo sempre più visibilità». «Usa il distorsore!», interviene Beppe. E continua: «E poi fa lo slide con un cacciavite, potrei raccontartene tante su Raoul e l’arpa…». (Raoul ride e continua): «Con l’arpa elettrica faccio assoli simili o uguali a quelli della chitarra elettrica, spesso uso anche l’archetto per suonarla…».

Ditemi a quale brano di Animas siete più affezionati…
Beppe – «Non è semplice, però, fammi pensare… beh, credo sia Figiura’, dove ha collaborato Franco Mussida. È uno sfogo consapevole su cosa siano la vita e la morte. L’ho scritta in un periodo particolare della mia vita. Con il Covid ho perso una sorella, ho così riflettuto sulla perdita, sul vuoto che rimane, ho cercato di farmene una ragione. Un altro brano, che è collegato al precedente, è Eziopatogenesi, tecnicamente lo studio delle cause di una malattia e di come questa si manifesta, un gioco ironico per vincere la paura di ammalarsi. Come venirne a capo? Affidarsi alla medicina allopatica o ai rimedi omeopatici? Ognuno reagisce a suo modo. Abbiamo voluto esorcizzare tutti questi timori quanto mai attuali».
Raoul – «Difficile dire quale brano preferisco, ognuno ha avuto la sua genesi. Se Beppe è legato al contenuto di Figiura’ ed Eziopatogenesi, io lo sono per questi due brani a livello musicale, alla partitura. La prima nasce da un tema di un brano solista che ho improvvisato sul palco durante un concerto».

Che musica state ascoltando in questo momento?
Beppe – «Bella domanda! Posso risponderti che ho avuto modo di incontrare Ambrogio Sparagna (musicista importantissimo non solo in Italia per i suoi studi sulla musica popolare, ndr). Il suo ultimo lavoro, un cd book realizzato per i 700 anni dalla morte di Dante Alighieri dal titolo Convivio – Dante e i cantori popolari, è molto interessante. Ha preso alcune terzine, quelle più conosciute della Divina Commedia, facendole cantare da voci “estreme” come quelle di Raffaello Simeoni e Anna Rita Colaianni, messa in musica dai solisti dell’Orchestra Popolare Italiana dell’Auditorium Parco della Musica di Roma (c’è anche un prezioso intervento di Francesco De Gregori, ndr). Poi c’è il messicano Israel Varela, batterista e pianista che collabora con la cantante italiana Serena Brancale, c’è tanto flamenco e tanto jazz. Poi, continuo ad ascoltare Peter Gabriel e Nusrat Fateh Ali Khan, quest’ultimo mi ricorda quanto circolare sia la musica…»”.
Raoul – «Tra i miei ascolti c’è sempre Peter Gabriel! Ora sto interessandomi a progetti provenienti dalla Scandinavia, con una virata ad autori italiani. Vabbè te lo rivelo: tutto ciò perché Beppe mi sta convincendo/costringendo a cantare!».