L’arte di Lonnie Holley e la musica in… trance

Oh Me Oh My è l’ultimo lavoro pubblicato da Lonnie Holley. Il quinto disco. Lonnie è un artista afroamericano di 73 anni, di Birmingham, Alabama. Scultore, pittore, fotografo, poeta, regista e anche musicista. La sua è un’arte povera, stratificata e rimodellabile, come la vita. Le sue opere sono esposte in molti musei americani al Fine Arts di San Francisco, al Metropolitan di New York, allo Smithsonian, alla National Gallery of Art di Washington, in una permanente all’Onu. Ad ascoltarlo è spiazzante quanto coerente con la sua filosofia di vita: nei brani del disco senti Miles Davies, Gil Scott-Heron, gli Animal Collective – con cui per inciso ha collaborato – e un sacco d’altri musicisti che hanno influenzato i suoi ascolti.  Continua a leggere

Interviste: Electric Sheep Collective, ne sentirete parlare!

Fifty years ago in Vietnam… People were fighting for nothing.

Right now, in Afghanistan, Indonesia, Burundi, Colombia, Congo, Philippine, Yemen, Libya, Nigeria, Syria, Somalia, Sudan… (People are) still fighting, killing each other, fathers, mothers, sons, daughters, sisters, brothers… friends… human beings.
People are fighting every day. Fighting for money, fighting for more petrol, more authority, more richness.

So, if you don’t want any war, Say Nope to racism
Say Nope to exploitation
Say Nope to segregation

Say Nope to violence

Let me take your minds to the fact just yesterday I was watching in CNN, I see the destruction of Syria, middle East on crisis! I see the atrocity committed by my black brothers I could not comprehend them I said to myself that this fucking word is coming to an end…
The rich always want to oppress the poor. They take advantage of their weakness …is a useless world where we live and where we die… please don’t take this personal.

Say Nope to racism
Say Nope to exploitation Say Nope to segregation Say Nope to violence

Some believes in wars. For me, I don’t believe in war, I don’t believe in fight, because so many warriors are dead. I am the last man standing, I got so many names like I had the feeling my name will be lost. On top of the highest mountain, I was named great Joe Nize, my hands above my head, my belts fit my shoulders, my aim is to make the street alright. No more crime, everywhere will be peaceful like that’s of river Nile I can see it from miles. Good Italy, good people, peace is what I see

Evocativo, vero? Quanto mai attuale, visto il periodo. Il brano si intitola Nope e potete ascoltarlo, come del resto l’intero album uscito poche settimane fa dal titolo Nope-Hope, su Bandacmp. È il primo lavoro di un collettivo chiamato Electric Sheep Collective. Suonano da molti anni insieme, ma hanno deciso di pubblicare solamente quando hanno trovato il loro giusto – e complesso – equilibrio creativo.

Torniamo a Nope: come avrete capito, l’invocazione in forma di spoken word alla Gil Scott-Heron, è una denuncia contro le guerre. Troppe contemporaneamente sul nostro Pianeta – il collettivo non poteva prevedere l’invasione “putinesca”, avendo inciso il disco prima. Troppa violenza, troppi interessi, si combatte sempre per soldi, per accaparrassi più petrolio, più potere, più ricchezza. A questo proposito: fresco fresco di stampa, vi consiglio di leggere l’editoriale su Domani, di Mario Giro.

Quella degli Electric Sheep Collective è una gran bella scoperta, sicuramente una delle più interessanti e qualitative ascoltate da un bel po’ di tempo a questa parte. Un lavoro che ha catturato la mia attenzione perché tutti e otto i brani dell’album (il titolo è la composizione del brano iniziale e di quello finale) sono stati composti, arrangiati, scritti insieme, da vero collettivo quale sono. Non si tratta di esecuzioni stucchevoli, ma vive, cariche di impegno con percorsi armonici non scontati, un groove che non è groove, ma molto di più, come vedremo tra poco. Stratificazioni attente per rendere in note quello che le parole raccontano.

Gli ESC sono italiani, vivono tra Roma, Latina e Viterbo, a parte Joe Nize, il cantante, nigeriano fuggito dal suo Paese e da anni in Italia. C’è poi Ashai Lombardo Arop, la voce femminile, italo-sudanese, nata a Genova, artista poliedrica, cantante, coreografa, attrice, danzatrice, insegnante di danza e teatro-danza. Joe e Ashai sono due punti di riferimento per la band. Sono tutti più o meno giovani, studi al conservatorio, impegnati socialmente, determinati nelle loro scelte di vita e arte. Il motore è Angelo Olivieri, trombettista di fama, uno che ha percorso molte vie del jazz, avendo ben chiaro da che parte stare nella musica e nella vita. E poi ci sono Vincenzo Vicaro ai sassofoni, Andrea Angeloni al trombone, Lewis Saccocci alle tastiere, Manlio Maresca alla chitarra, Joe Serafini alla consolle, Riccardo Di Fiandra al basso e Daniele Di Pentima alla batteria.

Vi consiglio di ascoltare questo disco. Ci sono richiami a Heron, appunto, ma anche Terri Lyne Carrington e ai suoi Social Science, ai Sons of Kemet, uno dei progetti di quell’istrione di Shabaka Hutchings, al trombettista americano Christian Scott aTunde Adjuda, c’è l’Afrobeat di Fela Kuti, c’è Tony Allen, si sentono, sparse e più elaborate, quelle punte afro-funk alla Michael Wimberly (mettete in cuffia il suo bel lavoro Afrofuturism pubblicato lo scorso anno).

Con cinque di loro mi sono collegato via streaming per conoscerli. Ne è uscita un’istruttiva conversazione durata un’ora e mezza, dove ho capito – ritorno all’intervista con Ferdinando Faraò dell’altro giorno – quanto siano importanti il confronto e la creatività messi a disposizione degli altri.

Domanda scontata, tanto per rompere il ghiaccio: come vi siete conosciuti?
Riccardo Di Fiandra: «Alcuni di noi hanno iniziato a suonare, giovanissimi, al limite della maturità (scherza Riccardo, ndr.), con Angelo (Olivieri, ndr) in un suo progetto, chiamato Zy Project. Sono stati anni di crescita, non solo musicale ma umana, di amicizia. Anche con Andrea Angeloni abbiamo suonato in un’orchestra insieme. Siamo tutti, innanzitutto, molto amici, c’è un rapporto di grande stima tra noi. Ed è un punto fondamentale. Quindi siamo approdati nel progetto Electric Sheep che Angelo ha ideato in questi anni con un lavoro di sintesi e di ricerca molto lungo… ed eccoci qua!».

Venite tutti dal conservatorio?
Riccardo: «Io e Daniele (Di Pentima, ndr) abbiamo studiato al conservatorio di Frosinone, anche Angeloni ha frequentato il conservatorio… sì, più o meno tutti veniamo da lì».
Angelo Olivieri: «Sono l’unico che viene dal conservatorio. Sono un autodidatta. Ho costruito la mia conoscenza musicale “alla vecchia maniera”, suonando; ho frequentato un sacco di seminari, scuole, non ho però il pezzo di carta in mano, che ho, invece, in altri ambiti. Anche Lewis (Saccocci, ndr), il tastierista, arriva dal conservatorio; Ashai viene da altre esperienze (si è laureata in Discipline Teatrali a Bologna, ndr), è una performer che ha molte frecce a disposizione. Joe Nize è come me».

Visto che Joe non c’è, potete raccontarmi come lo avete conosciuto?
Angelo: «Alla festa di compleanno di mio figlio (la figlia era una compagna d’asilo). Di lui sapevo poco, mi dissero che prima di scappare dalla Nigeria era un cantante professionista, aveva un ingaggio, una casa discografica, faceva una musica chiamata Afrobeats, con la esse finale, che non ha nulla a vedere con l’Afrobeat. Essendo nigeriano, però, aveva una venerazione per Fela Kuti. L’incontro con Joe è avvenuto per caso, ma nel momento più giusto: come collettivo eravamo in forte impasse: avevamo capito che il nostro sound aveva bisogno di una voce che narrasse delle storie e, soprattutto, ci serviva quel tipo di ritmica, non rap ma spoken word. Avevo iniziato a girare tra Roma e Viterbo intervistando africani a cui chiedevo che mi raccontassero a loro modo opinioni rispetto a certe tematiche. Con Joe Serafini, il nostro dj, montavamo in studio le voci per vedere che effetto facevano unite alla nostra musica. Abbiamo sentito anche Joe: era perfetto. Questo accadeva quasi sei anni fa. Con Ashai, invece, è nata proprio l’esigenza di avere un’altra voce per essere completi. Poi abbiamo deciso che eravamo già tanti e poteva bastare così».

Siete un bel gruppo effettivamente…
Angelo: «La nostra idea di musica è una sorta di piazza, una piazza condivisa, dove le voci sono tante. Esistono, però, dei limiti logistici. Sarebbe bello dare spazio a molte altre voci dentro la nostra musica, perché vorremmo fosse la colonna sonora di un tempo, e, attraverso questi brani, poterlo anche cambiare. Le prime parole del nostro primo brano del nostro primo disco sono più che mai attuali. Pensa che l’abbiamo scritto in occasione del cinquantesimo anniversario dell’inizio della guerra in Vietnam…».

Nel vostro fare musica siete attenti a presentare “senza filtri” il mondo come è oggi…
Angelo: «Per noi è un’esigenza, sono un po’ le nostre storie. Joe è un uomo scappato da una sorta di guerra, quando suonavamo in un’orchestra c’era un signore ucraino che suonava il trombone. È il nostro vissuto, abbiamo frequentato e lavorato con persone fuggite da tragedie. Si rischia di essere ovvi a parlare di discriminazioni, a dichiararsi contro il razzismo. Ma evidentemente non lo siamo così tanto. Non basta aver cantato un miliardo di volte Imagine di John Lennon, capirne il significato ma continuare ad ignorarlo. Sono stanco di essere trattato da utopico, perché mi sembra molto più utopico far esistere un mondo dove si rischia un conflitto nucleare che non uno dove è normale passare da un confine all’altro. Ho una vita di ricercatore al CNR, un phd in fluidodinamica, mi sono occupato di navi e, come puoi capire, non tutte le navi sono fatte per trasportare i pesci. A certi progetti ho detto no, ci vuole coerenza…».

A parte Angelo (classe 1968), siete tutti molto più giovani…
Vincenzo Vicaro: «Mi colloco, come età, esattamente a metà tra Riccardo, Daniele e Angelo. Ricordo i conflitti nei Balcani, che avevano un altro connotato. Il contesto attuale è unico. Si vivono paradossi mediatici, pensa alla Prima guerra del Golfo. Non puoi permetterti, come sta facendo qualche nostro politico, di stare di qua e di là allo stesso tempo, vieni sgamato subito. Noi non siamo utopici. Cerchiamo di vivere il mondo che vorremmo, lo fa Joe, puro nella fonetica, ma duro, e noi con la musica. Il nostro è un sodalizio che nasce prima del conservatorio, la nostra relazione è scevra da diplomi e lauree. Siamo un gruppo di amici da oltre dieci anni, ci confrontiamo di continuo su tutto, siamo uniti. La musica è un mezzo per intrattenere, ballare, raccontare. Tanti artisti se ne dimenticano, diventando astratti… dei dadaisti concettuali!».
Riccardo (scherza, ndr): «Bella questa! Te l’eri preparata?».
Angeloni: «Ci siamo conosciuti – non a caso – in un’orchestra multietnica, dove non esistevano né barriere musicali né confini di altro genere. Stiamo vivendo un periodo molto complesso ed è importante che le radici di questo collettivo provengano da un percorso senza barriere, confini né limiti. Angelo, con il suo lavoro ha contribuito non poco a ottenere tutto ciò. Prendi il jazz: nella sua forma più idiomatica ha anche lui molti limiti. È difficile dare una connotazione a quello che suoniamo, perché è frutto di tante esperienze. C’è il jazz, certo, c’è quello che ha fatto studi classici, l’altro che ha studiato improvvisazione, è una storia eterogenea, ideale…».

Infatti la vostra musica non è definibile classicamente “jazz”, siete piuttosto vicini ad altre esperienze, per esempio, ai Sons of Kemet, a Shabaka Hutchings…
Andrea: «Rispondo io perché seguo Shabaka da una decina d’anni e non solo lui, anche i suoi musicisti. Noi prendiamo quell’energia anche dal gruppo degli Ancestors (band sudafricana che ha suonato anche con Shabaka, in un altro progetto del vulcanico barbadiano, ndr). Gli Ancestors sono nati in contemporanea con la nostra musica. Abbiamo notato il messaggio di unione che ha voluto trasmettere Shabaka. Fanno session di improvvisazioni lunghe, qualità e interpretazione dei singoli è fondamentale, ma l’energia è quella che nasce dallo stare insieme».

C’è molta Africa nel disco…
Angelo: «C’è ed è precedente all’incontro con Joe Nize. È colpa mia, risale a tanti anni fa, mi ha catturato. In realtà, la matrice di tutta la musica afroamericana che ascoltiamo è… completamente africana! Il Blues, come le poliritmie sono già nella musica africana. La parte americana dell’afroamericana può essere lo swing. Ho conosciuto uno dei primi suonatori di Kora arrivati qui in Italia, Madya Diebate, ho suonato tanto con lui e ho ascoltato un repertorio infinito di musica del Senegal e del Mali. L’ho sentita molto vicina: sono nato a Pitigliano, nota come La piccola Gerusalemme, a cui abbiamo dedicato il terzo brano (Little Jerusalem) dell’album. Ho in testa la musica ebraica sefardita che comunque c’è ancora nell’aria del borgo. Ma non ci sono solo io! Daniele (Di Pentima, srl) è anche uno dei migliori suonatori di tabla che abbiamo in Italia. Ogni tanto se ne va in India a perfezionare lo studio e con Riccardo ha costruito un progetto sulla musica indiana. Nell’Electric Sheep Orchestra c’è un delirio di roba, per questo abbiamo impiegato tanto a pubblicare il primo disco. Avevamo bisogno  di far decantare il tutto».
Daniele: «Tempo per canalizzare molte suggestioni e non solo musicali! Anche ideologiche e di pensiero».

Avete composto un pezzo dedicato a Fela Kuti, This Is For Fela. Mi raccontate il vostro rapporto con il groove?
Angelo: «Abbiamo lavorato molto sull’idea di groove. Sette, otto anni fa, durante una cena a casa di Vincenzo, sostenni che dovevo capire come si potessero trasferire umanamente le imperfezioni della macchina nel linguaggio musicale. Quello che ha fatto un po’ J Dilla e che Chris Dave ha in qualche modo codificato a livello di copia. La mia idea, forse l’unica cosa utopica, era: riusciamo a fare qualche cosa che abbia nell’incertezza un punto cardine e che mantenga il groove? Tutto ciò ha a che fare con i miei studi di fluidodinamica, con i flussi turbolenti: sembrano caotici ma in realtà, dietro al caos, c’è un ordine. Così è anche nella musica. Stiamo ancora lavorando per creare un qualcosa di imperfetto, ma perfetto, un groove non groove, un po’ come la musica africana».

Prendiamo ad esempio il secondo brano, Afriks…
Angelo: «Afriks l’avevo inciso una decina d’anni fa ma non l’ho mai pubblicato perché non suonava come doveva, suonava “dritto”. Fatto così, com’è nel disco, ora ha un senso, è una cosa che groova, anche se ci sono miriadi di irregolarità lì dentro, che hanno tutte un senso comune».
Riccardo: «Questo approccio alla pulsazione, quasi coreutico, siamo stati in grado di realizzarlo dopo tanti anni di studio, confronto, prove, anche grazie a un background comune legato a un certo tipo di freejazz».

C’è stato tutto il freejazz anni Sessanta…
Riccardo: «Lì c’era un’idea di pulsazione regolare, non scandita, ma comunque costante, che ti abituava a una sequenza di impulsi regolari. Sono due musiche apparentemente distanti che però si ritrovano, non è che suoniamo a caso! È tutto l’aspetto del freejazz, legato nell’approccio ritmico e nell’habitus del suonare ritmicamente in un contesto libero, che riporta a quello che stava raccontando Angelo».
Daniele: «Se poi approfondiamo: cosa vuol dire regolare? Che il suono è scandito da durate che valgono ognuna la metà dell’altra? Sono cose artificiali, un meccanismo per misurare la musica in modo molto arbitrario. Ciò non vuol dire che se le lunghezze delle pulsazioni che si usano siano di metri, dimensioni, diverse non siano intellegibili. Basta fare un passo indietro e guardare il macroinsieme di impulsi che si ripetono con una fase molto più lunga, e questo non pregiudica poi la risultante di una musica che, come direbbero i giovani, “groova”. È un po’ l’opposto di tutta la corrente musicologica che parte da Vincenzo Caporaletti che afferma che il groove parta da microframmenti di impulsi, chiamati grooveni!».

Farete concerti live?
Angelo: «Lo speriamo tantissimo, ma non è così semplice. Faccio un’osservazione senza polemica: frequento da anni il mondo del jazz italiano e ho imparato che c’è un ambito di jazz costruito per gli italiani e uno che italiano non è, preferibilmente americano o inglese. Noi facciamo una musica internazionale, non jazz italiano. Per un organizzatore di concerti, quindi, è più facile chiamare formazioni straniere invece degli Electric Sheep Collective. È una questione di mercato. Sono più di trent’anni che il jazz italiano è fermo. Non si esce da lì, se fai cose diverse da quelle canoniche sei fuori mercato. Per questo ero per non dichiararci, perché se ci ascolti non pensi che siamo italiani…».

Come vedete la musica in questo Paese?
Vincenzo: «Essendo io un pre-millenial, ho vissuto il passaggio del digitale partendo dalle vecchie fasi. Il mio modo di scoprire musica è andare ai concerti o parlare con i Dj, loro ne sanno tantissimo sugli ascolti, più di noi musicisti. La musica in Italia è condizionata dai cartelloni, dai media e, purtroppo, due anni di Covid mi hanno tolto una delle mie due fonti primarie di ricerca. Spotify ha buoni pro ma mostruosi contro, piuttosto utilizzo Soundlclouds, Bandcamp…».
Angelo: «Su SoundCloud c’è il rischio di imbattersi in un artigianato eccessivo…».
Andrea: «È bello anche quello, puoi ricavarne delle idee!».

I “Millennials” del collettivo come la pensano?
Riccardo: (scherza, ndr) «Millennials? Siamo del ’91, l’anno in cui è morto Miles Davis e c’era la Prima guerra del Golfo!».
Angeloni: «Condivido con voi alcune riflessioni ascoltate a un convegno: il livello della musica italiana non conosciuta, jazzistico e “para-jazzistico”, jazz non idiomatico per intenderci, è molto interessante. C’è tanto talento, gente che suona bene e ha tante idee fighe: è banale fare il nome di Manlio Maresca, che ruota attorno al collettivo. Lui come altri pubblica la sua musica, spende soldi per fare il disco, per mettere dei punti fermi. La scena musicale italiana in questo momento non ha niente da invidiare ad altre, prendi per esempio l’utopia berlinese…».
Daniele: «A livello di contenuti no, ma di possibilità e fruibilità sì!».
Andrea: «C’è più possibilità di suonarla all’estero perché c’è anche tanto più pubblico, disposto ad accogliere il nostro prodotto».

Non è anche una questione di educazione all’ascolto? La scuola non la dà…
Angelo: «È vero, chi sta sotto al palco fa la musica quanto chi sta sopra. La nostra musica è popolare. Il jazz è una musica del popolo per il popolo e noi ogni volta che saliamo sul palco non possiamo scordarci questo. Non significa che non possiamo suonare qualcosa di complesso, ma deve poter essere condiviso con chi ti ascolta. Quello che è successo in Italia è la combinazione di due fattori, lo sviluppo di una musica incomprensibile, diventata la nicchia di super esperti, e lo sviluppo di quella ammiccante, di coloro che la sera si incontrano all’Auditorium. Queste due strade divergenti tolgono spazio a chi sta in mezzo…».
Vincenzo: «In Europa, l’ho sperimentato di persona, soprattutto nelle zone anglosassoni, esistono molti livelli intermedi di musicisti e tantissimi appassionati. Da noi ci sono musicisti di buon livello, poi un vuoto, e quindi tanti appassionati e alcuni di questi strimpellano. Il musicista italiano che vuole proporsi è un mezzo eroe. Dopo gli studi al conservatorio il 90 per cento molla. Non dico che debba avere un posto garantito, d’altronde il musicista per sua definizione è un po’ cane randagio, vive l’instabilità. Però, questo sì, è necessaria un’educazione alla musica. In Svezia, dove si insegna canto fin da piccoli, non trovi un bimbo stonato!».

Interviste: Ryan Dooley, l’ingenuità, l’arte, lo spoken word e i Little Pony

I Little Pony. Sullo skate il frontman, Ryan Spring Dooley

Ingenuità. Tenete a mente questo sostantivo, perché sarà il filo conduttore di tutto il post. È la prima parola che mi è venuta in mente quando mi sono messo ad ascoltare il nuovo disco – uscito oggi, venerdì 18 febbraio – dei Little Pony, dal titolo Voodo We Do, negli store per Soundinside Records. I Little Pony sono una band composta da un istrionico frontman di Minneapolis, che risponde al nome di Ryan Spring Dooley, e da tre musicisti napoletani, Marco Guerriero al basso e cori, Valerio De Martino alla batteria, synth e cori, e Pierluigi D’Amore, synth, effetti e cori.

I Little Pony, come ci racconterà tra poco lo stesso Ryan, sono attivi da anni nell’underground italiano. Sono nati come buskers, musicisti di strada: nel 2014 erano un trio (allora alla batteria c’era Fulvio Laudiero), si sono fatti conoscere in tutta Italia e anche in Europa, viaggiando dove portavano il vento e gli amici. Rigorosamente in treno, in maniera “molto umile”, per dirla alla Ryan, che di formazione e professione è uno street artist e un pittore. Napoli è piena dei suoi lavori firmati con il moniker Marvin Crushler.

Proprio l’ingenuità del loro modo di presentarsi, dell’essere artisti, che mi ha spinto ad ascoltarli. Vale la pena metterli in cuffia. Sono un mix di anni Settanta, anni Novanta e anni Duemila, con influssi jazz, punk, funk, elettro… insomma un Voodoo sonoro, come richiama il titolo dell’album, indefinibili nel genere, catalogati giocoforza nella grande casa dell’Alternativa, dove ci abita di tutto e di più. Il loro sound fa venire in mente un set di Jim Jarmousch, dove tutto è al limite della follia e della psichedelia, i personaggi sono portati all’estremo, caricati di ironico simbolismo.

Ascoltate il brano d’apertura, CPC che sta per Check Point Charlie: basso e batteria introducono belli tosti, quindi arriva il sax, lavorato con effetti che lo fanno sembrare una vecchia chiatarra elettrica con il wah wah sparato. Poi parte la voce e un coro che urla fino alla nausea: So free like? Così libero, come? E ancora in Voodoo We Do, traccia che dà il titolo all’album Ryan canta: My phone, I phone, down in the mud, my phone, your phone, little buddy gonna suck your blood, my phone, your phone, my mind is down in the mud, my phone, your phone little motherfuckers gonna suck your blood.

Per questo i Little Pony sono… i Little Pony! A partire dal nome: chi non li conosce fa subito un rapido accostamento: si saranno mica ispirati a quegli insopportabili cavallini colorati, gioia di bimbi, collezionisti e intrippati del genere? In realtà i cavallini umanizzati non c’entrano proprio nulla. Abbiate pazienza, arriveremo anche lì! Ma, soprattutto, dal modo di proporre la loro musica. Ryan più che cantare, rappa leggero, o meglio, si dedica con intensa passione allo spoken word, quello che faceva, magistralmente, Gil Scott-Heron (ricordate la mitica Revolution Will Not Be Telvised?).

Ryan nei testi gioca molto sui ricordi di quando era piccolo, sui sogni di allora e di oggi, sulla dura realtà di chi è nato dalla parte sbagliata  – nascere a est di Minneapolis non è come nascere dall’altra parte – sulla povertà e sul senso di riscatto che l’arte può simboleggiare. Ma anche sulla bellezza di quei luoghi deputati all socializzazione, forzata o spontanea, in quel grande e complesso laboratorio che è la strada.

Una maturazione artistica rispetto agli album precedenti, la presenza di sintetizzatori, l’uso del moog che elabora il suono del sassofono e la voce, il sax tenore di Ryan che surfa tra la profondità del basso martellante, i synt che diventano sirene e noise puro, e una batteria che raccoglie tutte le contaminazioni mediterranee fuse in secchi e pressanti ritmi. Il risultato è che è impossibile stare fermi, vien voglia di ballare, partecipare. Una bella miscela esplosiva.

Ryan, come sei finito a Napoli?
«A Minneapolis frequentavo l’università di Belle Arti. C’era la possibilità di avere interscambi culturali in Europa. Volevo conoscere Parigi, Berlino, Roma. Mi sono iscritto al programma all’ultimo minuto, così mi sono trovato assegnato all’università di Pavia. Da lì ho iniziato a girare l’Italia. Ho vissuto a Milano: mi piaceva perché, negli anni Novanta, c’era così tanta ricchezza creativa e culturale racchiusa in pochi chilometri quadrati! Sai, venendo da Minneapolis dove per percorrerla da un capo all’altro con i mezzi pubblici ci mettevo un paio d’ore, Milano mi sembrava un sogno. Ho frequentato i centri sociali: il Pergola, il Leoncavallo. Il primo era diventato praticamente la mia casa. L’ era un’officina di creatività: c’erano i primi hacker organizzati, la street art, i veejay, un mondo in gran fermento. In quel periodo tutto era molto improntato alla condivisione. Ora, nell’arte come nella musica siamo su un altro concetto, l’individualismo, la ricerca personale del successo… A Napoli sono arrivato perché era stata organizzata una mostra dei miei lavori. Mi sono innamorato subito della città, del mare, della storia, del suo contorno architettonico, della sua bellezza estrema. Un posto forte!».

Ti sei sentito a casa?
«In realtà ho impiegato un po’ ad ambientarmi. Milano aveva un ritmo diverso, ti rendeva subito partecipe, si faceva immediatamente rete. A Napoli era tutta questione di prendere quel ritmo. Alla fine ce l’ho fatta. La città ha un’accoglienza diversa dovuta a un’identità secolare molto radicata. C’è l’orgoglio di essere sempre stati diversi da tutti. Roma è ancora un’altra cosa: ci abito da sette anni, con mia moglie e mia figlia, mi trovo bene perché ha una bella vita artistica».

Un passo indietro: ma il sax?
«Venivo da una famiglia povera che non poteva permettersi di farmi studiare in college costosi. Lo Stato americano per chi non ha le possibilità, mette a disposizione dei giovani studenti uno strumento musicale a scelta. Ti viene regalato. Ricordo che avevamo il diritto di entrare per primi in quella grande stanza dove c’erano tutti gli strumenti disponibili: molti di noi ragazzi “poveri” pensavano che più uno strumento era grande e più valeva; quindi, i grossi, come la tuba, sparivano subito. Mi sono ritrovato tra le mani un sax tenore che ho tenuto e suonato fino a un paio d’anni fa, quando ho dovuto cambiarlo. Ci hanno insegnato la musica… nella scuola c’era anche un’orchestra. Lo suono da quando avevo 13 anni. Crescendo ho fatto parte di molte band, quelli che si mettono insieme da adolescenti. Quando sono arrivato in Italia, a 19 anni, ho portato con me il sax. Ho suonato a Pavia, a Milano, a Parigi, dove ho vissuto, sempre per studiare arte, per sei mesi, nel 2000».

Il sax ti ha accompagnato anche a Napoli…
«Sì, certo. Avevo fatto amicizia con due americani che vivevano lì e, come succede per lo skateboard, che portavo sempre con me ogni volta che uscivo di casa, loro non dimenticavano mai di portare le chiatarre. Così ho imparato portare con me anche il sax. Nel pomeriggio si andava in Piazza Bellini, sempre piena di gente e di locali, e si suonava. Mi ricordo che un bar aveva un pianoforte. Stavamo lì a far musica con chiunque fosse disposto a suonare».

Gli altri membri della band li hai conosciuti così?
«Certo. Ci siamo incontrati in questo humus di personaggi e, quando ci siamo strutturati, abbiamo iniziato a girovagare sempre suonando, nell’autentico spirito napoletano! Siamo partiti dal Napoli e abbiamo iniziato a girare l’Italia e l’Europa per farci conoscere. Siamo riusciti a guadagnare qualcosa, ma avevamo un rigido controllo delle spese, quindi lo facevamo in modo molto umile. Eravamo dei bohémien che si nutrivano di pasta e fagioli!».

Avevate un furgone?
«Ma no! Abbiamo imparato dagli zingari: in una discarica abbiamo preso dei vecchi passeggini per bambini e li abbiamo riadattati per caricarci gli strumenti. Poi prendevamo i treni regionali… Così abbiamo suonato a Roma, Livorno, Genova, città molto simile a Napoli, Milano…».

Puoi definire la musica dei Little Pony?
«Per me è energia, è una gioia suonare nella band. Il bello è vedere che il pubblico giovane o meno giovane si diverte perché coglie i nostri riferimenti musicali. I primi due album li abbiamo composti in viaggio, hanno un sound legato al nostro girovagare, alla nostra ingenuità fanciullesca che continuo a considerare un valore. Poi c’è stato un cambio di passo: Valerio, il nuovo batterista, ha messo un freno al nostro romanticismo insegnandoci un maggiore livello di attenzione per i dettagli. Lui di professione fa il fonico, anche in grossi concerti. Esperienza e creatività hanno creato un nuovo modo di stare insieme, così il groove si trasmette in più sfaccettature. Durante la pandemia si è aggiunto Pierluigi, il tastierista, un musicista polistrumentista che proveniente dal gruppo perugino Guappercartò, band dove la musica è più orchestrale, teatrale. Anche lui ci ha coinvolto nell’elaborazione di nuovi mondi sonori….».

Come sono nate le canzoni?
«I testi li scrivo io, sono impressioni: ad esempio, New York è nata quando, un paio d’anni prima della pandemia, sono andato a Brooklyn a trovare mio zio. Mi sono usciti versi legati alla mia cultura americana. Una volta ritornato in Italia, ci siamo messi ad arrangiare quello che avevo scritto cercando di comporre una melodia più curata».

Ultima curiosità: perché vi chiamati Little Pony?
«I piccoli pony non c’entrano nulla! Il nome è stato un modo per avvicinarsi alle tradizioni dello stivale: pronunciato velocemente cinque volte di seguito suonava come… Little Tony! Almeno così sosteneva mia moglie quando mi suggerì possibili nomi per la band…».