L’arte di Lonnie Holley e la musica in… trance

Oh Me Oh My è l’ultimo lavoro pubblicato da Lonnie Holley. Il quinto disco. Lonnie è un artista afroamericano di 73 anni, di Birmingham, Alabama. Scultore, pittore, fotografo, poeta, regista e anche musicista. La sua è un’arte povera, stratificata e rimodellabile, come la vita. Le sue opere sono esposte in molti musei americani al Fine Arts di San Francisco, al Metropolitan di New York, allo Smithsonian, alla National Gallery of Art di Washington, in una permanente all’Onu. Ad ascoltarlo è spiazzante quanto coerente con la sua filosofia di vita: nei brani del disco senti Miles Davies, Gil Scott-Heron, gli Animal Collective – con cui per inciso ha collaborato – e un sacco d’altri musicisti che hanno influenzato i suoi ascolti.  Continua a leggere

Lockdown, l’opposto di musica…

Lockdown. È da un po’ di mesi che abbiamo imparato a conoscere e usare questa parola (per inciso, finita nelle nuove edizioni dei dizionari di lingua italiana). Può un semplice vocabolo diventare sottilmente infido, entrare nel tuo cervello, lavorare, divorare neuroni, far cambiare umore, decidere i tuoi pensieri? Certo che sì! Lockdown viene pronunciato ogni giorno, probabilmente più di amore, e pensato sicuramente più del sesso, il che è tutto dire.

E arrivo al punto: come si combina lockdown con la musica? Stando al significato – isolamento, blocco, confinamento – è l’esatto contrario della seconda, che è apertura, curiosità, fascino, creatività, molteplicità (di visioni, interessi) complicità, comunità, condivisione. Alla fine dell’intervista con Gegè Telesforo, pubblicata sul blog qualche settimana fa, ci siamo dati appuntamento al 29 ottobre al Blue Note di Milano per il suo concerto. «Speriamo di vederci», mi salutava, «auguriamoci non capiti un nuovo lockdown, lo temo, vedrai…».

L’incubo di una chiusura per aver tutti, nessuno escluso, sottostimato il problema è una mazzata clamorosa per la musica (e non solo, ovviamente, ma di musica voglio scrivere). Pensare di nuovo agli artisti chiusi in casa a suonare in maniera artigianale, con quelle facce tristi, l’ansia visibile di non avere un pubblico davanti, l’isolamento di note che si perdono nelle pieghe dei social, ha un che di apocalittico.

Penso ai miei amici, abili tecnici del suono, maestri delle luci, project manager, operatori videoserver, rigger, scaff e via enunciando, che s’erano illusi di aver visto un lumicino dopo l’improvviso, lungo black-out di primavera: ora quella flebile fiammella rischia d’essere soffocata da un nuovo isolamento causa Covid. Dove andremo? Cosa faremo? Come finirà? Ce lo stiamo domandando tutti in questo momento e, purtroppo, una risposta certa non c’è. Nel tutto e il suo contrario regna sovrana la confusione e la paura, uniche certezze.

Dalla bella e intensa No time for Love Like Now di Michael Stipe & Big Red Machine (pseudonimo di Aaron Dessner dei The National) rilasciata a fine marzo e riproposta nella versione “studio” a giugno, ci eravamo illusi che potesse essere cambiato qualche cosa. Invece, quella canzone la intoneremo ancora. E chissà per quanto tempo…