Disturbat! Altr! Spoken word tra ricordo e testimonianza

La sua musica e la sua poesia sono forse uno dei pochi esempi che io conosca in cui l’arte ha avuto un peso rilevante, se non nel mutamento della realtà, certamente nel far sì che dei giovani avessero di nuovo il coraggio di sognare, di immaginare una città e una vita diversa. E di agire di conseguenza

Così scriveva nel settembre del 2013 il poeta Lello Voce, alla prima edizione del premio Dubito, dedicato a un giovanissimo artista che scelse di non vivere più buttandosi nel vuoto ad appena vent’anni il 25 aprile del 2012. Alberto “Dubito” Feltrin il suo nome. Assieme a Davide “Sospè” Tantulli aveva fondato i Disturbati dalla CUiete, pubblicando un album (lui lo incise ma non arrivò a vederlo) dal titolo La frustrazione del lunedì (e altre storie delle periferie arrugginite). Alberto, i Disturbati e quel disco sono oggi i protagonisti al Django di Treviso (città dove Dubito viveva e operava) di una serata dal titolo Rivendicazioni altre ancora.

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Halloween Night in Triennale con Francesco Cavestri

La Triennale di Milano il 31 ottobre festeggerà la sua Halloween Night con una serata ricca di musica nell’alveo di JazzMi. Un modo per nulla banale, consono al luogo e a quello che rappresenta per la cultura milanese.

Ad aprire la festa con un doppio appuntamento sarà un giovane pianista jazz bolognese di appena 20 anni, Francesco Cavestri, oltre al caleidoscopio ritmico di Don Karate, moniker di Stefano Tamborrino, bravo batterista fiorentino, la Sun Ra Archestra, jazz band attiva fin dagli anni Cinquanta – fu fondata dal mitico musicista americano morto trent’anni fa – e ancora in attività. La notte chiuderà con un dj set di Populous, al secolo Andrea Mangia, producer e dj salentino. Continua a leggere

Quattro, Nanni Gaias e la pietra filosofale della musica

Nanni Gaias – Foto di Camilla Pianezzi

Di Nanni Gaias vi avevo parlato poco più di due anni fa, all’uscita del suo Ep T.O.T.B. – Think Outside The Box, via Tǔk Air, uno dei bracci della casa madre fondata da Paolo Fresu, dedicata si suoni dell’elettronica, del funk e del soul. Nanni, classe 1996, di Berchidda (Sassari), il 21 aprile scorso ha pubblicato Quattro, un concept album che vi consiglio di ascoltare attentamente.

Un lavoro composito, ricco, pieno di spunti che unisce gli opposti e che riesce, come un alchimista, a trovare la strada per arrivare alla mitica pietra filosofale. Già, perché l’album non si chiama Quattro per caso. Quattro sono i passaggi degli alchimisti per arrivare a trasformare il vile metallo in oro, quattro sono le stagioni, quattro gli elementi della creazione. «Il disco è un mio viaggio interiore. Quattro sono i miei pilastri musicali, dub, afrobeat, funk e soul, un mix di stili e generi che insieme creano la mia pietra filosofale», mi racconta Nanni. Continua a leggere

Mille euro per un disco. Dal rap lezione sociale

Mille euro. Tanto costa l’Ep di otto brani dal titolo Exagora messo il mese scorso su ebay dalla casa discografica milanese Attitude Recordz (c’è anche il repack digitale). Non è uno scherzo, anzi. È una cosa serissima. Provocazione? Sicuramente. Poi leggi una dichiarazione dei tre giovani fondatori di Attitude, Matteo, Yassa e Bongi, e inizi a capire: «Mai come in questo periodo storico abbiamo visto crescere il fenomeno di imitazione, scimmiottamento se non emulazione, del personaggio criminale e, anche se è chiaro che le responsabilità si stratificano a livelli distinti, non vogliamo comportarci come quelle label che sostengono e finanziano l’immaginario legato al crimine. I nostri artisti scrivono anche testi di gangsta rap, testimonianze di vita vissuta, ma noi lavoriamo quotidianamente a stretto contatto con adolescenti e adulti ai margini, che provengono da situazioni di disagio, quindi ci preme testimoniare quello che non si racconta a sufficienza, ossia che i criminali possono finire in carcere, un posto dove si soffre, ci si suicida, non è possibile coltivare gli affetti e si subisce ogni giorno il trattamento della violenza e della prevaricazione». Continua a leggere

Interviste: Ryan Dooley, l’ingenuità, l’arte, lo spoken word e i Little Pony

I Little Pony. Sullo skate il frontman, Ryan Spring Dooley

Ingenuità. Tenete a mente questo sostantivo, perché sarà il filo conduttore di tutto il post. È la prima parola che mi è venuta in mente quando mi sono messo ad ascoltare il nuovo disco – uscito oggi, venerdì 18 febbraio – dei Little Pony, dal titolo Voodo We Do, negli store per Soundinside Records. I Little Pony sono una band composta da un istrionico frontman di Minneapolis, che risponde al nome di Ryan Spring Dooley, e da tre musicisti napoletani, Marco Guerriero al basso e cori, Valerio De Martino alla batteria, synth e cori, e Pierluigi D’Amore, synth, effetti e cori.

I Little Pony, come ci racconterà tra poco lo stesso Ryan, sono attivi da anni nell’underground italiano. Sono nati come buskers, musicisti di strada: nel 2014 erano un trio (allora alla batteria c’era Fulvio Laudiero), si sono fatti conoscere in tutta Italia e anche in Europa, viaggiando dove portavano il vento e gli amici. Rigorosamente in treno, in maniera “molto umile”, per dirla alla Ryan, che di formazione e professione è uno street artist e un pittore. Napoli è piena dei suoi lavori firmati con il moniker Marvin Crushler.

Proprio l’ingenuità del loro modo di presentarsi, dell’essere artisti, che mi ha spinto ad ascoltarli. Vale la pena metterli in cuffia. Sono un mix di anni Settanta, anni Novanta e anni Duemila, con influssi jazz, punk, funk, elettro… insomma un Voodoo sonoro, come richiama il titolo dell’album, indefinibili nel genere, catalogati giocoforza nella grande casa dell’Alternativa, dove ci abita di tutto e di più. Il loro sound fa venire in mente un set di Jim Jarmousch, dove tutto è al limite della follia e della psichedelia, i personaggi sono portati all’estremo, caricati di ironico simbolismo.

Ascoltate il brano d’apertura, CPC che sta per Check Point Charlie: basso e batteria introducono belli tosti, quindi arriva il sax, lavorato con effetti che lo fanno sembrare una vecchia chiatarra elettrica con il wah wah sparato. Poi parte la voce e un coro che urla fino alla nausea: So free like? Così libero, come? E ancora in Voodoo We Do, traccia che dà il titolo all’album Ryan canta: My phone, I phone, down in the mud, my phone, your phone, little buddy gonna suck your blood, my phone, your phone, my mind is down in the mud, my phone, your phone little motherfuckers gonna suck your blood.

Per questo i Little Pony sono… i Little Pony! A partire dal nome: chi non li conosce fa subito un rapido accostamento: si saranno mica ispirati a quegli insopportabili cavallini colorati, gioia di bimbi, collezionisti e intrippati del genere? In realtà i cavallini umanizzati non c’entrano proprio nulla. Abbiate pazienza, arriveremo anche lì! Ma, soprattutto, dal modo di proporre la loro musica. Ryan più che cantare, rappa leggero, o meglio, si dedica con intensa passione allo spoken word, quello che faceva, magistralmente, Gil Scott-Heron (ricordate la mitica Revolution Will Not Be Telvised?).

Ryan nei testi gioca molto sui ricordi di quando era piccolo, sui sogni di allora e di oggi, sulla dura realtà di chi è nato dalla parte sbagliata  – nascere a est di Minneapolis non è come nascere dall’altra parte – sulla povertà e sul senso di riscatto che l’arte può simboleggiare. Ma anche sulla bellezza di quei luoghi deputati all socializzazione, forzata o spontanea, in quel grande e complesso laboratorio che è la strada.

Una maturazione artistica rispetto agli album precedenti, la presenza di sintetizzatori, l’uso del moog che elabora il suono del sassofono e la voce, il sax tenore di Ryan che surfa tra la profondità del basso martellante, i synt che diventano sirene e noise puro, e una batteria che raccoglie tutte le contaminazioni mediterranee fuse in secchi e pressanti ritmi. Il risultato è che è impossibile stare fermi, vien voglia di ballare, partecipare. Una bella miscela esplosiva.

Ryan, come sei finito a Napoli?
«A Minneapolis frequentavo l’università di Belle Arti. C’era la possibilità di avere interscambi culturali in Europa. Volevo conoscere Parigi, Berlino, Roma. Mi sono iscritto al programma all’ultimo minuto, così mi sono trovato assegnato all’università di Pavia. Da lì ho iniziato a girare l’Italia. Ho vissuto a Milano: mi piaceva perché, negli anni Novanta, c’era così tanta ricchezza creativa e culturale racchiusa in pochi chilometri quadrati! Sai, venendo da Minneapolis dove per percorrerla da un capo all’altro con i mezzi pubblici ci mettevo un paio d’ore, Milano mi sembrava un sogno. Ho frequentato i centri sociali: il Pergola, il Leoncavallo. Il primo era diventato praticamente la mia casa. L’ era un’officina di creatività: c’erano i primi hacker organizzati, la street art, i veejay, un mondo in gran fermento. In quel periodo tutto era molto improntato alla condivisione. Ora, nell’arte come nella musica siamo su un altro concetto, l’individualismo, la ricerca personale del successo… A Napoli sono arrivato perché era stata organizzata una mostra dei miei lavori. Mi sono innamorato subito della città, del mare, della storia, del suo contorno architettonico, della sua bellezza estrema. Un posto forte!».

Ti sei sentito a casa?
«In realtà ho impiegato un po’ ad ambientarmi. Milano aveva un ritmo diverso, ti rendeva subito partecipe, si faceva immediatamente rete. A Napoli era tutta questione di prendere quel ritmo. Alla fine ce l’ho fatta. La città ha un’accoglienza diversa dovuta a un’identità secolare molto radicata. C’è l’orgoglio di essere sempre stati diversi da tutti. Roma è ancora un’altra cosa: ci abito da sette anni, con mia moglie e mia figlia, mi trovo bene perché ha una bella vita artistica».

Un passo indietro: ma il sax?
«Venivo da una famiglia povera che non poteva permettersi di farmi studiare in college costosi. Lo Stato americano per chi non ha le possibilità, mette a disposizione dei giovani studenti uno strumento musicale a scelta. Ti viene regalato. Ricordo che avevamo il diritto di entrare per primi in quella grande stanza dove c’erano tutti gli strumenti disponibili: molti di noi ragazzi “poveri” pensavano che più uno strumento era grande e più valeva; quindi, i grossi, come la tuba, sparivano subito. Mi sono ritrovato tra le mani un sax tenore che ho tenuto e suonato fino a un paio d’anni fa, quando ho dovuto cambiarlo. Ci hanno insegnato la musica… nella scuola c’era anche un’orchestra. Lo suono da quando avevo 13 anni. Crescendo ho fatto parte di molte band, quelli che si mettono insieme da adolescenti. Quando sono arrivato in Italia, a 19 anni, ho portato con me il sax. Ho suonato a Pavia, a Milano, a Parigi, dove ho vissuto, sempre per studiare arte, per sei mesi, nel 2000».

Il sax ti ha accompagnato anche a Napoli…
«Sì, certo. Avevo fatto amicizia con due americani che vivevano lì e, come succede per lo skateboard, che portavo sempre con me ogni volta che uscivo di casa, loro non dimenticavano mai di portare le chiatarre. Così ho imparato portare con me anche il sax. Nel pomeriggio si andava in Piazza Bellini, sempre piena di gente e di locali, e si suonava. Mi ricordo che un bar aveva un pianoforte. Stavamo lì a far musica con chiunque fosse disposto a suonare».

Gli altri membri della band li hai conosciuti così?
«Certo. Ci siamo incontrati in questo humus di personaggi e, quando ci siamo strutturati, abbiamo iniziato a girovagare sempre suonando, nell’autentico spirito napoletano! Siamo partiti dal Napoli e abbiamo iniziato a girare l’Italia e l’Europa per farci conoscere. Siamo riusciti a guadagnare qualcosa, ma avevamo un rigido controllo delle spese, quindi lo facevamo in modo molto umile. Eravamo dei bohémien che si nutrivano di pasta e fagioli!».

Avevate un furgone?
«Ma no! Abbiamo imparato dagli zingari: in una discarica abbiamo preso dei vecchi passeggini per bambini e li abbiamo riadattati per caricarci gli strumenti. Poi prendevamo i treni regionali… Così abbiamo suonato a Roma, Livorno, Genova, città molto simile a Napoli, Milano…».

Puoi definire la musica dei Little Pony?
«Per me è energia, è una gioia suonare nella band. Il bello è vedere che il pubblico giovane o meno giovane si diverte perché coglie i nostri riferimenti musicali. I primi due album li abbiamo composti in viaggio, hanno un sound legato al nostro girovagare, alla nostra ingenuità fanciullesca che continuo a considerare un valore. Poi c’è stato un cambio di passo: Valerio, il nuovo batterista, ha messo un freno al nostro romanticismo insegnandoci un maggiore livello di attenzione per i dettagli. Lui di professione fa il fonico, anche in grossi concerti. Esperienza e creatività hanno creato un nuovo modo di stare insieme, così il groove si trasmette in più sfaccettature. Durante la pandemia si è aggiunto Pierluigi, il tastierista, un musicista polistrumentista che proveniente dal gruppo perugino Guappercartò, band dove la musica è più orchestrale, teatrale. Anche lui ci ha coinvolto nell’elaborazione di nuovi mondi sonori….».

Come sono nate le canzoni?
«I testi li scrivo io, sono impressioni: ad esempio, New York è nata quando, un paio d’anni prima della pandemia, sono andato a Brooklyn a trovare mio zio. Mi sono usciti versi legati alla mia cultura americana. Una volta ritornato in Italia, ci siamo messi ad arrangiare quello che avevo scritto cercando di comporre una melodia più curata».

Ultima curiosità: perché vi chiamati Little Pony?
«I piccoli pony non c’entrano nulla! Il nome è stato un modo per avvicinarsi alle tradizioni dello stivale: pronunciato velocemente cinque volte di seguito suonava come… Little Tony! Almeno così sosteneva mia moglie quando mi suggerì possibili nomi per la band…».

Interviste: Terzino in Fuorigioco? Parola di Tommaso Novi!

Tommaso Novi – Foto Claudia Cataldi

Ma i cantautori esistono ancora? Domanda legittima e provocatoria. Certamente non sono, e ormai da decenni, mainstream. Hanno ceduto il posto al rap e alla trap che è diventato il nuovo pop. Spesso, brani tirati via, testi rapidi che parlano di un disagio che, se all’inizio era sincero, oggi è solo un format perché, se fai quel tipo di musica, puoi diventare un altro Fedez o Sfera Ebbasta. Prima nell’ideale dei giovani c’era il calciatore, ora c’è il rapper. Soldi, soldi soldi…

L’autotune spinto risulta quasi pornografico, storpia voci che altrimenti non esisterebbero, i bit sono per lo più sempre sequenzialmente simili. Un orwelliano appiattimento al diktat comune. E i nostri cantautori? Alcuni si sono ritirati in silenzio lasciando brani fondamentali, altri, più giovani e ostinati, continuano a fare la loro musica non per il successo (ma se viene è meglio!), piuttosto per l’urgente necessità di raccontare storie che colpiscono e fanno discutere. Il modo di vedere dell’artista, in una società democratica e progressista, è importante tanto quanto un saggio di un prof. di filosofia o sociologia. Certo i modi di comunicazione sono diversi, il primo è accademico, quello dell’artista è, spesso, lucidamente visionario, un moderno veggente.

Riflettevo su tutto questo ascoltando un disco uscito una settimana fa o poco più. Si tratta di Terzino Fuorigioco, del toscano Tommaso Novi. Un lavoro dove parola e musica non sono mai per caso. Un album che riporta a echi del “primo” cantautorato. C’è l’ironia acida di Rino Gaetano, ci sono i sogni di Francesco De Gregori, i guizzi di Lucio Dalla, le visioni di Paolo Conte, conditi dalla toscanità, che non è affatto un dettaglio.

Un disco interessante, per un cantautore che, prima di tutto, è un musicista di lungo corso – assieme a Francesco Bottai (ascoltatevi Vite Semiserie, del 2017) formò un gruppo “storico”, i Gatti Mézzi, jazz, folk, swing, causticità di due pisani – pianista di formazione classica, docente di fischio, avete capito bene, fischio, creatore di un metodo che insegna anche al conservatorio… Insomma uno di quei musicisti che calzano a pennello l’idea che ha Musicabile sul valore della musica.

E… sì! L’ho intervistato, ho voluto scambiare opinioni, storie e futuro con Tommaso, una bella chiacchierata, sana, sincera, divertente… abbiamo discusso di cantautori, musica mainstream, di terzini fuorigioco(!), amori perduti e desiderati, spigole e impresari…

Tommaso, ti ho chiamato per parlare del disco, certo, ma anche per scambiare opinioni con te sul cantautorato italiano. Partiamo da qui, se ti va…
«Bella domanda! (attimi di silenzio e riflessione, ndr)… Siamo in un periodo storico di grande sovraesposizione della musica: dischi, per lo più singoli, sfornati ogni giorno. Una raffica di parole che ti assalgono…».

Talmente tanti che fanno pensare a un appiattimento…
«Le tecnologie hanno cambiato radicalmente il mercato e il gusto del pubblico. Il cantautorato… beh, vive ancora ed è profondamente diverso dal mainstream. La differenza principale è che, in questo caso, si ascolta il punto di vista narrante di un artista che il pubblico coglie come una nuova visione di un determinato contenuto. Il mainstream oggi è un esercito di voci che vuole dire qualche cosa e lo fa gridando slogan senza una narrazione. Dacché l’uomo esiste, la narrazione è un atto fondamentale, lo si faceva un tempo attorno a un fuoco, lo si fa oggi in un teatro. Questo sta svanendo, o per lo meno, è molto contenuto. Perciò mi chiedo: “Oggi c’è davvero bisogno di un cantautore, di una storia da raccontare, oppure servono solo messaggi compressi?”».

La risposta?
«Vedo un disastro. Non mi ritrovo in questo panorama di voci urlanti. Sono vecchio, ho 42 anni, vado per i 43. Però allo stesso tempo rifletto. È possibile, proprio perché sono di una generazione diversa, che faccia l’errore che faceva Salieri ascoltando Mozart? Me lo chiedo spesso. Sono anche un insegnante di pianoforte. I miei giovani allievi mi propinano i loro ascolti. Di primo impatto, inorridisco, ma so che devo fare uno forzo, perché in alcuni di questi ascolti c’è contenuto. Quest’anno, dopo molto tempo, mi sono imposto di vedere il Festival di Sanremo. C’era una ragazzetta, Madame, che diceva cose grandissime. Siamo vecchi, ma il bello riusciamo ancora a distinguerlo. Poi, ascolto Brunori, vedo che al prossimo festival c’è Giovanni Truppi e allora mi dico: “Forse c’è ancora un barlume di speranza!”».

Quello che non sopporto, sarò vetusto, un arnese desueto, ma mi fa diventare una bestia, è l’autotune. Lo trovo ovunque, è il gonnellino di paglia di uno che ha paura di stonare, non vedo nulla di artistico, accidenti…
«L’autotune mi uccide! L’altro giorno ho presentato il disco ed è venuto a trovarmi il mio amico Andrea Appino (Zen Circus, ndr). Siamo finiti a parlare proprio di tutto ciò. Noi, alla fine degli anni Novanta e Zero la gavetta la potevamo fare girando tutti i locali d’Italia e guadagnando giusto giusto per coprire le spese. Oggi critichiamo tanto i talent musicali che consideriamo una scorciatoia, in realtà sono figli di un Paese sordo e cieco con gli artisti. Il Covid non ha fatto altro che esasperare l’esistente. Oggi non puoi andare in giro a suonare nei locali perché… non ci sono più. Molti chiudono, altri non riescono ad andare avanti. Se la situazione prima della pandemia era una palude di acque fangose, ora non c’è più nemmeno l’acqua sporca. Tutto secco, arido, con gli scheletri degli artisti che emergono…».

Immagine truculenta ma efficace. La famosa gavetta ti ha portato a creare con Bottai i Gatti Mézzi…
«Gatti Mézzi è stata un’esperienza gigante, è stato… tutto: ancora oggi ho la sensazione di aver sognato quel periodo. Ho imparato a vivere il palco, una gavetta fondamentale: abbiamo fatto circa 700 date in una decina d’anni, pubblicato sei dischi…».

Perché è finita?
«La verità è che ci avevano strizzato troppo. Eravamo stanchi, avevamo detto tutto, dunque, felici di aver concluso. Però mai dire mai… da vecchi questo progetto potrà, chissà, essere ripreso!».

Foto Claudia Cataldi

Veniamo a Terzino Fuorigioco, hai impiegato un paio d’anni a scriverlo
«Ho iniziato nel lockdown, come molti altri, l’ho fatto con tutta calma. Però avere troppo tempo a disposizione non porta bene. Ci sono tante canzoni che, nel tempo, iniziano a puzzare, invecchiano. Avevo questo timore prima di pubblicare il disco, ma siamo stati attenti che ciò non succedesse. L’abbiamo curato con molta attenzione. Ringrazio i miei produttori che mi hanno messo disposizione uno studio che posso usare sempre, tutti i giorni. Stare lì dentro mi fa sentire bene, è bello sedersi al mixer e riascoltare, lavorare artigianalmente…».

Mi piace come scrivi, per esempio, in Aria, canti: «Un giorno riuscirò a bere amaro un caffè…».
«Aria è una canzone d’amore dove metto sul piatto una serie di buoni propositi, da quelli più nobili ai più banali. Bere il caffè amaro è uno di questi ultimi. Ma davvero, è un proposito che ogni tanto mi faccio, ma non so come si fa… il caffè amaro non è affatto buono!».

In Spigola, altro brano, racconti: «Non è bastata la neve a Catanzaro per ricordarmi di stare più leggero»…
«(Ride, ndr). Come fai a ricordarti quella parte! Ti spiego: all’epoca mi garbava una ragazza. Lei stava a Catanzaro e postò una foto sui social con la neve in città assieme al suo fidanzato. Mi ha fatto arrabbiare moltissimo e quell’immagine mi è rimasta impressa!».

Terzino a Fuorigioco, mi ricorda La Leva Calcistica del ’68 di Francesco De Gregori…
«Giusto! L’ho fatto consapevolmente. È un brano degregoriano. È la canzone cha dà il titolo all’album. È una canzone che parla di me. Il terzino è un gregario, io mi sento un gregario, ma poi ho dei guizzi, vorrei osare, ma finisce che mi sento fuori luogo. A 42 anni mi chiedo: “Sono davvero nella posizione giusta nel campo da calcio, lì dove dovrei essere?”. Se ci pensi, nel calcio un terzino fuorigioco o è un pazzo o un genio!».

L’ultimo brano del disco è dedicato al tuo impresario. Ma l’hai fatto davvero?
«Sì, Il Mio Impresario è proprio dedicato al mio impresario, Luca Zannotti, di Musiche Metropolitane. È un pezzo d’amore puro dedicato a quest’uomo. Perché è un elemento essenziale del mio lavoro. Oggi a un artista si richiede di essere più figure allo stesso tempo, imprenditore di se stesso, manipolatore di strumenti di marketing, essere presente sui social sennò sei considerato sparito… Tutto questo mi fa incazzare tantissimo. Dedicargli un brano è un modo per stimolarlo, che trovi per me uno spazio tra i Black Sabbath e Iva Zanicchi, come canto».

Come ha reagito Il Tuo Impresario che “vola più alto per cercare il sole”?
«S’è emozionato, molto. Ai concerti faccio sempre un teatrino, quando la canto lo chiamo sul palco e lo abbraccio. E lui si commuove ogni volta».

Cosa ti aspetti da questo disco?
«Sto imparando ad avere aspettative molto basse. Poi, sai, ogni creativo vede nella sua creatura un figlio. Ti posso dire quello che sogno: sogno di vincere un Premio Tenco, per me il primo, grande passo per fare cose importanti. E poi, sogno un vero tour, diobono!, come si facevano un tempo».

Ultima domanda: sei anche un esperto di fischio, credo uno dei pochi al mondo che sia riuscito a farne una materia di insegnamento…
«A quanto mi risulta siamo solo un indiano e io… Il fischio è una costante in tutte le case degli italiani, siamo un popolo fischiante da sempre! Nonno e papà fischiavano. Ho iniziato da piccolissimo per imitarli. Ero un bimbo molto agitato, iperattivo, avevo molti tic nervosi, quindi fischiavo sempre, era più un segno di disagio che un diletto. Fischiavo tutto il giorno, così a 20 anni mi sono trovato uno strumento musicale formato. In una serata alcolica degli amici mi chiesero di insegnare loro a fischiare. A casa ho iniziato a mettere giù degli appunti per spiegare. Quelle poche annotazioni sono diventate un libro, un manuale e, quindi, un metodo. Dopo 15 anni di progettualità e insegnamento, il conservatorio Luigi Cherubini di Firenze mi chiama per tenere lezioni, fatto che mi onora tantissimo, ho anche registrato un brano (Un fischio esagerato, ndr) con il maestro Nicola Piovani per la colonna sonora del film Una Festa Esagerata di Vincenzo Salemme. Un’esperienza che serberò per la vita, quel giorno, a Roma, sono ingrassato di venti chili!».

Rolling Stone, le classifiche e una riflessione…

Il 15 settembre Rolling Stone USA ha pubblicato la sua colonna sonora più dirimente e attesa: le 500 canzoni più belle di tutti i tempi. Il magazine, ormai ex-bibbia del rock, ha voluto pubblicare, a quasi vent’anni di distanza dalla prima edizione, una nuova revisione.

Le classifiche a cui RS ci ha assuefatto sono una buona lettura dei tempi e di quello che significa la musica, mainstream e alternativa, dagli anni Trenta del secolo scorso a oggi. Le 500 canzoni sono la summa di tutto questo, anche perché, la prima “RS hit parade”, come ben ricordano dallo stesso magazine, era del 2004, quando Billie Eilish aveva appena tre anni. A partecipare al sondaggio per decidere i brani più belli di sempre, sono stati chiamati oltre 250 tra artisti, musicisti, produttori, discografici che ne hanno selezionati, ciascuno, 50, per un totale di 4mila brani.

Con questo ampio e democratico parterre si presume sia uscita uscita una fotografia piuttosto nitida e ben incisa della storia della musica occidentale, soprattutto americana e inglese. 

Quello che più salta all’occhio è che di brani “dirimenti” dall’inizio del Terzo Millennio ne sono stati selezionati pochi, appena una settantina, per lo più provenienti dalle correnti mainstream, un pop facile e ben codificato e un rap che s’è liberato dalle origini e naviga tra bit raramente innovativi e un conformismo testuale presentato come anticonformismo. Di contro, troviamo, monolitici, i 250 e passa brani compresi nel periodo Sessanta e Settanta e i 142 scelti negli anni Ottanta e Novanta, oltre a poche decine che arrivano tra il 1930 e il 1950.

Di artisti ce ne sono tanti – anche se, per esempio, non si vedono tracce del periodo prog inglese, King Crimson, Genesis, Yes, Traffic, gli Emerson, Lake & Palmer – alcuni ritornano più volte in classifica (vedi Aretha Franklin, Beatles, Rolling Stones, Pink Floyd, Prince, Bob Dylan, Lou Reed, Led Zeppelin, Bob Marley, Bruce Springsteen, David Bowie…) ma quello zoccolo duro di brani memorabili, immancabili, oserei, eterni, nati dalla seconda metà degli anni ’60 alla fine dei Settanta sono la riprova, se mai fosse stato necessario, di quanto le esperienze musicali, sociali, politiche di quegli anni abbiano generato una svolta epocale nelle arti, e soprattutto nella musica, a cui tutti, ancora oggi si rifanno a piene mani. Una rivoluzione che dobbiamo ancora vivere in questo nuovo millennio.

E, dunque, non può suonare strano se  il miglior brano di tutti i tempi sia stato scritto da Otis Redding e pubblicato nel 1967 dalla grande Aretha Franklin. Sto parlando di Respect, una delle canzoni più suonate di sempre. Il secondo posto se lo sono aggiudicato i Public Enemy con Fight the Power (1989), mentre il terzo e quarto appartengono rispettivamente a Sam Cooke, uno dei principali esponenti della soul music degli esordi, con A Change Is Gonna Come (1964) e l’eterno Bob Dylan con la sua altrettanto immortale Like a Rolling Stone (1965). Al quinto ci sono i Nirvana con Smells Like Teen Spirit del 1991, e via via Marvin Gaye con What’s Going On (1971), The Beatles con Strawberry Fields Forever (1967), il rap di Missy Elliott, Get Ur Freak On (2001), i Fleetwood Mac e la loro splendida Dreams (1977), e gli Outkast con Hey Ya! (2003)…

Il resto della classifica, numeri alla mano, rispecchia la prima decina. Ne deriva che, nell’esperimento musicale (e, a questo punto, anche sociale) di RS in novant’anni di musiche selezionate, il nocciolo importante, salvo rare eccezioni, rimane chiuso in poco più di trent’anni. Quei trent’anni che hanno visto rock, punk, soul, funk, jazz, nascere e rinascere, reinventarsi, crescere, svilupparsi, contaminarsi, classicismo e sperimentazione a ciclo continuo, effervescenza di note, idee, pulsioni.

In attesa di una rumorosa, spettacolare, necessaria rivoluzione epocale – che sinceramente non vedo – vale la pena rimettersi all’ascolto di quella Musica. Per rivangare ricordi, quelli delle generazioni vicino alla mia, per imparare un po’ di background le nuove leve del Duemila.

Tre dischi da ascoltare e… commentare

Oggi vi propongo tre dischi di recente uscita che mi sono piaciuti. Come sempre, alla ricerca di album non banali che abbiano qualcosa da dire.

1 – Superwolves – Matt Sweeney e Bonnie “Prince” Billy

Parto subito con un disco uscito il 30 aprile scorso firmato Matt Sweeney – chitarrista americano famoso per aver fatto parte degli Zwan, supergruppo composto da Billy Corgan, frontman, e Jimmy Chamberlin, batterista, dei The Smashing Pumpkins e David Pajo, fondatore degli Slint – e Will Oldham nella sua veste di Bonnie “Prince” Billy. Nel 2005, 16 anni fa, i due artisti avevano pubblicato Superwolf, disco che è diventato un’icona underground. Il nuovo album si chiama Superwolves, l’idea del lupo è una linea guida di Oldham nella veste del suo alter ego Bonnie “Prince” Billy: nel 2003, nell’album Master and Everyone aveva scritto una canzone intitolata Wolf Among WolvesLupo tra i Lupi. Il lupo, animale simbolo, selvaggio, feroce, tutto cuore e passione. Superwolves è un disco che raccoglie quel filo che s’è interrotto 16 anni fa tra Sweeney e Oldham. Il canto e la scrittura del secondo si fonde con le chitarre del primo in una simbiosi così naturale e totale che ti fa sentire parte di qualche cosa, immerso nel mondo gentile – e drammatico – di Bonnie fin dalla prima canzone, Make Worry For Me, intreccio di voci e chitarre…

2 – We Are – Jon Batiste

Andiamo su tutt’altro genere. Lui è Jon Batiste, artista di New Orleans, famoso negli States per essere il direttore musicale del The Late Show condotto da Stephen Colbert. Jon ha pubblicato il 19 marzo scorso We Are, disco che trasmette energia allo stato puro, emozione, disperazione, commozione, gran rigore musicale nel mix stilistico ma anche impegno, sull’onda del Black Lives Matter. C’è soul, pop, hip-hop, rap, R&B, con un pizzico di maestria jazz, un’insalata condita alla perfezione. Ascoltate We Are, cantata assieme alla St. Augustine High School Marching 100 e il Gospel Soul Children’s Choir di New Orleans. Quindi si passa in un crescendo a Tell The Truth, un’intemerata alla Otis Redding e agli anni Sessanta. Per passare poi all’incontenibile I Need You, e così per 13 brani belli spessi.

3 – The Battle at Garden’s Gate – Greta Van Fleet

Dei tre fratelli Kiszka, Josh (voce), Jake (chitarra) e Sam (basso) e di Danny Wagner (batteria) ne stanno parlando tutti. In arte sono i Greta Van Fleet, due dischi all’attivo, l’ultimo, The Battle at Garden’s Gate è uscito il 16 aprile scorso, e un rock già sentito. Anzi, un gruppo già sentito, storico, immortale, i Led Zeppelin. La cosa strana – e bella – di questa band americana è che non fa nulla per nascondere l’amore incondizionato per il rock anni Settanta, periodo di massimo fulgore, e per Robert Plant & Co. Josh ne ha introiettato persino la voce. Detto ciò, ripuliti dai possibili mormorii di plagio, la chitarra di Jake in Built By Nations assomiglia, ma assomiglia proprio, al celeberrimo riff di Jimmy Page in Black Dog: è un rock per nostalgici del Rock. Ben suonato, con il giusto pathos, impeccabile, sartoriale. I quattro son proprio bravi, speriamo in un’evoluzione che prenda le distanze dai loro idoli, perché di stoffa ne hanno, eccome.

Grammy 2021: Poker di donne… sarà il politically correct?

La notte scorsa, come avrete già letto su tutti i media, è stato consumato il rito dei Grammy Awards. Gli Oscar della musica – quelli che contano, i più importanti – sono andati tutti ad artiste, da Billie Eilish, miglior registrazione con Everything I Wanted (lo scorso anno se n’era portati a casa ben cinque), a Taylor Swift, come miglior album (Folklore, qui August), alla giovane cantautrice H.E.R. la miglior canzone, I Can’t Breathe, dedicata a George Floyd e alla violenza razziale negli States, a Megan Thee Stallion, la rapper di Houston, miglior cantante esordiente.

Dunque, il famoso poker, il Big Four, vinto l’anno scorso dalla Eilish, vede quattro donne, molto diverse tra loro, tutte molto decise, con qualcosa da dire, non banali, non apparenza (c’è anche quella, certo!) ma sostanza. E poi c’è Beyoncé, che ha stracciato tutti i colleghi e le colleghe vincendo in carriera 28 Grammy (uno in più di Alison Krauss, la violinista e cantante che ne vanta 27): stanotte per il miglior video musicale, Brown Skin Girl, la migliore perfomance  R&B per Black Parade, e la migliore performance rap per il suo remix di  Savage, brano di Megan Thee Stallion.

I Grammy, come gli Oscar, non sono il massimo dell’obiettività. La vittoria schiacciante delle musiciste in un’America che, soltanto pochi giorni fa, esattamente l’8 marzo, festa della Donna, aveva letto – notizia che ha fatto il giro del mondo – di una ricerca sulla esigua presenza di artiste, cantautrici e produttrici nel mondo della musica pop americana, suona come una lunga coda di paglia dell’industria discografica.

Dichiarava provocatoriamente la dott.ssa Stacy L. Smith, che ha guidato la ricerca Inclusion in the Recording Studio? Gender and Race/Ethnicity of Artists, Songwriters & Producers across 900 Popular Songs from 2012-2020, se vi interessa, leggetela qui: «Ovunque è la Giornata internazionale della donna, tranne che per le donne nella musica, dove le voci delle donne rimangono mute».

Sorge un dubbio: nell’ansia del politically correct che scorre ora nelle vene degli americani, vedi l’ultima trovata di Viking Books, editore della giovane poeta Amanda Gorman che, per la traduzione del libro ammette, come ben faceva notare ieri Michele Serra nella sua rubrica su la Repubblica «solo traduttori, nelle varie lingue, che siano, nell’ordine: donna, giovane, attivista, preferibilmente di colore…», non vien da pensare che ci si sia sentiti “in obbligo” di premiare solo artiste, così, tanto per salvare la faccia e mostrare al mondo che l’America sta voltando pagina su questioni formalmente ed eticamente rilevanti? A prescindere dal valore delle artiste premiate, come ho già detto all’inizio, riconoscimenti assolutamente meritati. Il New York Times oggi titola Grammys 2021: Women Sweep Awards Shaped by Pandemic and Protest (Le donne rastrellano i premi plasmati dalla pandemia e dalle proteste). Appunto.

Nel disastroso 2020, dove gli artisti per non scomparire si sono buttati sullo streaming, facendo ottimi risultati per le case discografiche ma pochi introiti per loro, è arrivata la mano tesa: Harvey Mason Jr., presidente della Recording Academy che organizza i Grammy Award, ha chiesto alle star presenti di «lavorare con noi, non contro di noi». Molte cose devono ancora cambiare, questo è certo. Però con convinzione, così che il cambio di passo sia reale, autentico, senza sottintesi. La vedo difficile…

Maradona: reggae, rap, tango, pop. Così El Pibe ha stimolato la musica

Diego Armando Maradona se n’è andato ieri a 60 anni. Il mondo lo sta celebrando, Napoli piange come l’Argentina, anche il grande Brasile e Pelé si inchinando davanti alla sua morte e al dolore. L’uomo, l’atleta, il mito e il genio, l’eccesso e il pentimento, l’obesità e la forma perfetta, la povertà e la ricchezza, l’amicizia con Fidel Castro e quella con i clan camorristici. Maradona primo e sempre in soccorso degli ultimi.

Diego Armando è stato e sarà ricordato per tutto questo. Lui e il suo opposto. Dio e uomo. Queste sue dualità, diavolo e acquasanta, lo hanno reso famoso anche in musica. Non è un caso che sia venerato e “usato” nel mondo del rap. Di canzoni che portano come titolo il suo nome ce ne sono parecchie. I duri, tutto coca, collane, ganja, soldi, donne a volontà, borse firmate cariche di erba l’hanno visto – e lo vedranno – come esempio da portare e protagonista di rime da costruire.

Ascoltate Diego Armando Maradona dalla romana Dark Polo Gang del 2018: La mia ragazza segue la moda/ Io seguo i soldi e la droga/ DarkSide baby Diego Armando Maradona/ In questa merda corro tipo maratona/ Mi serve una macchina nuova/ Mi serve una due posti rossa…

Anche A.L.A., rapper tunisino, canta e immagina di essere come Maradona che può avere tutto, annessi e connessi. E potremmo continuare con Colza, giovane rapper di Cantù (2019): La vita di Diego i soldi di Pablo, trappa…

Ho pensato così di mettere “in ascolto” alcuni brani che portano il suo nome. C’è di tutto dal rap, appunto, al romantico latino, persino un suo cameo in una canzone, la trovate sul disco del Club Atletico Boca Juniors (2013), dove El Pibe de Oro aveva militato. El Sueño del Pibe, questo è il titolo del tango registrato nel 1942, testo di Reinaldo Yso (fu anche un calciatore) e del musicista e bandeonista Juan Puey. Lui la cantò negli anni Ottanta, inserendo anche se stesso nella consacrazione dei grandi giocatori, e mostrando pure di avere una gran voce… L’altro, con i Pimpinela, (al secolo Joaquín e Lucía Galán) duo argentino di grande successo. Il mio, il nostro piccolo omaggio in dieci canzoni… 

Per ascoltarle, cliccate sulle immagini…

La Mano de Dios (2011)
Rodrigo

Tango de la buena suerte – da Passi d’Autore (2004)
Pino Daniele

El Sueño del Pibe
Diego Armando Maradona

Maradona – da Honestidad Brutal (1999)
Andrés Calamaro

Diego Armando Maradona
Dark Polo Gang

Santa Maradona (Larchuma Football Club) – 1994
Mano Negra

Maradona (2019)
A.L.A. (feat. El Castro)

Maradona – da Avete ragione tutti (2016)
Canova

Querida Amiga – da Lo mejor de Pimpinela 1982
Pimpinela e Diego Armando Maradona

O’ reggae ‘e Maradona – da Senza Limiti (2007)
Jovine