1971, l’anno in cui la musica ha cambiato tutto: da vedere!

Mi sono assaporato 1971, The year that music changed everything, la docuserie di Asif Kapadia trasmessa da Apple Tv+. Racconta, senza tesi né costruzioni, ma con filmati – molti di questi mai visti prima – e testimonianze – mai in camera – un anno determinante per la musica, uno spartiacque tra il prima e il dopo, nel quale si sono concentrati una serie di eventi tragici, dolorosi ma anche spettacolari e dove la musica ha fatto da collante, indicando ai giovani di allora nuove strade, un nuovo mondo possibile.

Ispirato a 1971, Never a Dull Moment, libro uscito nel 2016 del critico inglese David Hepworth, pubblicato in italiano da Sur (collezione BigSur con il titolo 1971, L’anno d’oro del Rock), la docuserie riporta con immagini e tanta musica quello che in sostanza Hepworth sostiene su quel fatidico 1971: «il più febbrile, creativo e lungo anno di quell’epoca».

Infatti, di cose ne sono successe, e tante. Con una premessa simbolica dal punto di vista musicale: il 1971 è stato il primo anno senza i Beatles. Infatti, il capitolo iniziale della serie – è anche il più lungo – si sofferma sull’eredità musicale dei Fab Four, sulla politica degli anni Sessanta e sul perché i Settanta siano stati così dirompenti. Dal punto di vista sociale è stato rappresentato –  e giustamente – raccontando la cronaca dei fatti successi all’università di Ken State nell’Ohio: la morte di quattro studenti e il ferimento di altri nove da parte della Guardia Nazionale, durante le proteste contro la guerra in Vietnam. Neil Young dedicò all’accaduto una canzone, Ohio (famosa l’esibizione live al Massey Hall di Toronto nel 1971, dalla quale ne uscì un disco pubblicato soltanto nel 2007).

In otto capitoli per un totale di sei ore1971 sembra più la cronaca di un decennio che di un anno solo. Negli Usa governava Richard Nixon, la guerra in Vietnam continuava a essere la spina nel fianco per il presidente e l’establishment, il “make love not war” dei figli dei fiori era tramontato, sia in musica sia nei fatti, l’America stava facendo i conti con il Black Power, una radicale presa di coscienza diventata lotta di resistenza degli afroamericani; anche le donne iniziavano a rompere quell’apparente, melenso, status quo che prevedeva il marito al lavoro e le mogli devote, tutte casa e pulizia. In questa rivoluzione c’era pure la sentenza di Charles Manson e delle sue adepte assassine per i fatti di Cielo Branco e l’esperimento della prigione di Stanford: un gruppo di psicologi, diretto dal prof. Philip Zimbardo, simulò la vita in un carcere americano in tutto e per tutto. Il test doveva durare 15 giorni, si concluse dopo appena cinque giorni perché i volontari, studenti che simulavano prigionieri e carcerieri, dettero di matto. Sempre nel ’71 l’Orgoglio Gay iniziava a prendere forme organizzate. In mezzo a tutto questo fermento sociale e politico c’era una maggioranza silenziosa che assisteva attonita alla nascita di una controcultura giovanile che demoliva, come martelli pneumatici, le consolidate fondamenta sociali sia negli States sia in Europa.

E la musica regnava sovrana: uno strumento consapevole di questa rivoluzione che Gil Scott Heron riassunse in un brano storico The Revolution Will Not Be Televised – è anche il titolo del quinto episodio della serie – e nella meno conosciuta No Knock e Sly & the Family Stone con un altrettanto esplicito There’s a Riot Goin’ On. La musica come filo conduttore, catalizzatrice del cambiamento in atto. Ed ecco John Lennon, Bob Dylan e Marvin Gaye che arrivano dagli anni Sessanta con un rinnovato impegno politico: Marvin pubblica nel ’71 What’s Going On, che poi Rolling Stone eleggerà disco rock più bello di tutti i tempi. C’è la coscienza delle ingiustizie sociali, di un mondo inquinato, di un establishment corrotto e arroccato. Vi viene in mente qualcosa? Aretha Franklin raccoglie fondi e paga la cauzione all’attivista per i diritti civili Angela Davis, Bill Whiters irromope con la sua Ain’t No Sunshine

Nella narrazione, a filmati e brani musicali di pregio si alternano spezzoni di televisione dell’epoca, importanti per inquadrare il momento storico: dal reality rivoluzionario An American Family a Soul Train, il primo spettacolo televisivo dove gli afroamericani conquistano quell’affermazione musicale tanto cercata.

C’è un capitolo dedicato anche alla droga, l’eroina che consumava Sly Stone e faceva morire Jim Morrison a Parigi, mentre in una lussuosa villa in Provenza i Rolling Stones, fuggiti dal fisco inglese e poi incappati nella mafia marsigliese per colpa della droga, cercavano di registrare un disco, Exile On Main St., che poi diventerà un caposaldo della loro produzione, in una spirale di eroina, anfetamine e alcool di immani proporzioni. Ne parla sopra le immagini il giornalista di Rolling Stone Robert Greenfield, all’epoca al seguito della corte di Keith Richards e soci.

Si sperimenta tanto perché il ’71 è anche l’anno della tecnologia. Arrivano i primi strumenti elettronici, Pete Townshend degli Who ne viene attratto, li studia e li usa – vedi Baba O’Riley. Mentre Alice Cooper sperimenta un rock “visivo” con performance crude (vedi la sua impiccagione…), Marc Bolan frontman dei T.Rex getta le basi del primo Glam Rock. Un giovane David Bowie studia Cooper e si prepara a diventare il mito frequentando la Factory di Andy Wharol. E poi Lou Reed e Iggy Pop, ma anche, a Berlino, i mitici Kraftwerk

E ancora: la musica che unisce anche chi la pensa in modi opposti, vedi i primi skinheads inglesi e i giovani di origini afro che ascoltavano – e suonavano – il reggae di Bob Marley and The Wailers. Il 1971 vede anche la nascita dei cantautori che si sostituiscono nel gradimento dei giovani alle band, vedi Carol King con Tapestry, Joni Mitchell con Blue, Elton John che fa esplodere il Troubadour di Las Vegas nella sua prima tournée americana, Ike e Tina Turner che, assieme agli Staple Singers e ad altri grandi nomi dell’epoca vengono invitati a esibirsi ad Acca, in Ghana, al Soul to Soul Festival per celebrare il 14esimo anniversario della repubblica. E ancora: George Harrison che, il primo di agosto, organizza al Madison Square Garden di New York il mitico concerto benefico per il Bagladesh…

È necessario vederlo, vi assicuro. Perché, oltre all’importanza storica e anche al legame che unisce quella musica che prendeva forma e quella che verrà negli anni seguenti (non a caso l’immagine finale è quella di Billie Eilish), noterete un parallelo con la situazione attuale. Non per la musica, certo che no! Quello resta un anno irripetibile, ma per i problemi sociali e politici. Negli States gli afroamericani protestano ancora per gli abusi e le violenze, i soldati vengono ritirati dopo 20 anni dall’Afganistan (allora si chiamava Vietnam), l’orgoglio gay è più che mai necessario (guardate in Italia le discussioni e l’iter travagliato per approvare la legge sull’omotransfobia), le donne continuano a lottare per le discriminazioni e le violenze, il pianeta è mezzo moribondo per colpa nostra, la tecnologia ci fa del bene, ma a che prezzo… Paralleli nemmeno troppo nascosti. Speranze, ambizioni, frustrazioni si ripetono. Guardatelo con questi occhi e vi renderete conto dell’immobilità del tempo: sono passati 50 lunghi anni e i problemi sono praticamente gli stessi…

Grammy 2021: Poker di donne… sarà il politically correct?

La notte scorsa, come avrete già letto su tutti i media, è stato consumato il rito dei Grammy Awards. Gli Oscar della musica – quelli che contano, i più importanti – sono andati tutti ad artiste, da Billie Eilish, miglior registrazione con Everything I Wanted (lo scorso anno se n’era portati a casa ben cinque), a Taylor Swift, come miglior album (Folklore, qui August), alla giovane cantautrice H.E.R. la miglior canzone, I Can’t Breathe, dedicata a George Floyd e alla violenza razziale negli States, a Megan Thee Stallion, la rapper di Houston, miglior cantante esordiente.

Dunque, il famoso poker, il Big Four, vinto l’anno scorso dalla Eilish, vede quattro donne, molto diverse tra loro, tutte molto decise, con qualcosa da dire, non banali, non apparenza (c’è anche quella, certo!) ma sostanza. E poi c’è Beyoncé, che ha stracciato tutti i colleghi e le colleghe vincendo in carriera 28 Grammy (uno in più di Alison Krauss, la violinista e cantante che ne vanta 27): stanotte per il miglior video musicale, Brown Skin Girl, la migliore perfomance  R&B per Black Parade, e la migliore performance rap per il suo remix di  Savage, brano di Megan Thee Stallion.

I Grammy, come gli Oscar, non sono il massimo dell’obiettività. La vittoria schiacciante delle musiciste in un’America che, soltanto pochi giorni fa, esattamente l’8 marzo, festa della Donna, aveva letto – notizia che ha fatto il giro del mondo – di una ricerca sulla esigua presenza di artiste, cantautrici e produttrici nel mondo della musica pop americana, suona come una lunga coda di paglia dell’industria discografica.

Dichiarava provocatoriamente la dott.ssa Stacy L. Smith, che ha guidato la ricerca Inclusion in the Recording Studio? Gender and Race/Ethnicity of Artists, Songwriters & Producers across 900 Popular Songs from 2012-2020, se vi interessa, leggetela qui: «Ovunque è la Giornata internazionale della donna, tranne che per le donne nella musica, dove le voci delle donne rimangono mute».

Sorge un dubbio: nell’ansia del politically correct che scorre ora nelle vene degli americani, vedi l’ultima trovata di Viking Books, editore della giovane poeta Amanda Gorman che, per la traduzione del libro ammette, come ben faceva notare ieri Michele Serra nella sua rubrica su la Repubblica «solo traduttori, nelle varie lingue, che siano, nell’ordine: donna, giovane, attivista, preferibilmente di colore…», non vien da pensare che ci si sia sentiti “in obbligo” di premiare solo artiste, così, tanto per salvare la faccia e mostrare al mondo che l’America sta voltando pagina su questioni formalmente ed eticamente rilevanti? A prescindere dal valore delle artiste premiate, come ho già detto all’inizio, riconoscimenti assolutamente meritati. Il New York Times oggi titola Grammys 2021: Women Sweep Awards Shaped by Pandemic and Protest (Le donne rastrellano i premi plasmati dalla pandemia e dalle proteste). Appunto.

Nel disastroso 2020, dove gli artisti per non scomparire si sono buttati sullo streaming, facendo ottimi risultati per le case discografiche ma pochi introiti per loro, è arrivata la mano tesa: Harvey Mason Jr., presidente della Recording Academy che organizza i Grammy Award, ha chiesto alle star presenti di «lavorare con noi, non contro di noi». Molte cose devono ancora cambiare, questo è certo. Però con convinzione, così che il cambio di passo sia reale, autentico, senza sottintesi. La vedo difficile…

Election day 2020: la parola ai musicisti…

Siamo entrati nel fatidico Election Day, il giorno in cui gli americani sceglieranno l’uomo che li guiderà per i prossimi quattro anni. Mai come questa volta, è un’attesa carica d’elettricità, negozi con le serrande abbassate, esercito che circonda la Casa Bianca, nemmeno l’America fosse lo Stato Libero di Banana.

Per la prima volta in una campagna americana si sono sentite echeggiare parole come odio, divisivo, razzismo, morte. Insomma Donald Trump è Donald Trump, uno che con la testa non ci sta tanto, un caso clinico, come ha tentato di dimostrare il docufilm #Unfit – The Psychology of Donald Trump di Dan Partland. L’altro, Joe Biden, a onor del vero, è un po’ moscio, l’opposto di uno che buca il tubo catodico, come si diceva una volta (quando ancora esisteva il tubo catodico), però è strutturalmente, fondamentalmente diverso dal primo (grazie all’appoggio virale di Barak Obama). Ma non è di questo che voglio parlarvi. Ben più esperti colleghi del sottoscritto commenteranno nelle prossime ore durante le interminabili dirette web e televisive.

Scrivo questo post per un altro motivo. La musica. Può questa smuovere le coscienze di milioni di elettori? Possono versi e note essere determinanti per chi si recherà al seggio o esserlo stati per chi ha già votato per corrispondenza? La mia risposta è sì, certo che sì! Mai come questa volta abbiamo assistito a un endorsement così massiccio da parte di artisti che non si sono soltanto limitati a dire sui loro social: “Voto Biden”, ma che hanno giustificato il loro voto contro Trump. I musicisti pro-Trump, in realtà sono davvero pochi… vedremo anche loro.

Sono usciti tweet, dichiarazioni, veri e propri documenti programmatici da parte di artisti, popstar, rockstar, jazzisti, rapper e quant’altro. Ci sono i soliti noti, Madonna, Taylor Swift, Ariana Grande, Beyoncé, Cher, John Legend, Lady Gaga («Parliamo di come può essere l’America con un presidente più gentile. Abbiamo bisogno di ogni voto. Io sto con Biden», twittava ieri), Justin Timberlake, Tracy Chapman, Cardi B, Eminem («We have one shot. One opportunity. One moment. Don’t miss the chance. Vote» rappava  poche ore fa). C’è Dave Grohl con la madre Ginny, in uno spot girato insieme a Jill Biden, moglie del candidato democratico, twittato via Foo Fighters. E anche Neil Young, che ha addirittura citato in giudizio Trump per aver usato una sua canzone (ne avevo scritto qui e qui) e c’è pure il suo vecchio compagno di band David Crosby che a Biden dice: «Penso che sarà la lotta più sporca dai tempi della Guerra Civile; sono felice che tu sia disposto a prendere la tua spada e il tuo scudo, Joe, ed entrare nella mischia…».

Anche Sheryl Crowe alcuni mesi fa era scesa nell’agone cantando la sua hit del 1996 A Change Will Do You Good durante una raccolta fondi pro Biden. Lei è rimasta particolarmente colpita dall’assassinio a sangue freddo da parte della polizia di George Floyd e dallo sgomento dei suoi due figli, di 13 e 10 anni, che le domandavano il perché delle manifestazioni di Minneapolis. «Ho detto loro: sì, abbiamo bisogno di un leader che parli di tutto ciò e che chieda giustizia!».

Proteste razziali ma anche riflessioni sulla pandemia mal gestita dall’attuale presidente. Esce allo scoperto Archie Sheep, una delle figure mitologiche del jazz, ascoltatelo nella bellissima Sometimes I Feel Like a Motherless Child, da un brano del 1960 di Bessie Griffin (ripreso, tra gli altri, anche da Van Morrison negli anni Ottanta), brano contenuto nell’album Goin’ Home con il pianista Horace Parlan, del 1977. L’ottantatreene sassofonista della Florida fa un’amara considerazione: «Dobbiamo correggere un sacco di cose sbagliate che sono successe in questo Paese. Abbiamo il virus e le troppe vittime che ha causato. Tra questi, tanti musicisti. Molte morti avrebbero potuto essere evitate». Il vecchio e saggio Archie ricorda il trombettista Wallace Roney, morto a 59 anni, «all’apice del suo talento musicale», Ellis Marsalis, il padre di Wynton, Lee Konitz («A very fine man, excellent saxophonist»).

Sempre nel mondo del jazz ha detto la sua anche Kamasi Washington, 39 anni, gran bravo sassofonista losangelino: parla del valore del voto, di ciascun voto, sostenendo che se tutti gli americani facessero la loro parte attivamente si saprebbe cosa uscirebbe dai seggi, e cioè: «Ciò che la maggior parte di noi vuole veramente: qualità della vita, uguaglianza e pace per ciascuno di noi». E non dimentico Terri Lyne Carrington, sublime batterista jazz (ne avevo scritto in uno dei miei primi post di Musicabile): il 22 ottobre scorso la tre volte vincitrice di un Grammy Award ha ricevuto il prestigioso NEA Jazz Master 2021 dal National Endowment for the Arts, la maggior onorificenza jazz americana. Ebbene, il suo ultimo disco, Waiting Game, composto assieme ai Social Science, è nato proprio come reazione all’elezione di Donald Trump a presidente degli Stati Uniti.

Anche David Byrne, cittadino americano dal 2012, non è stato zitto. La posta in gioco è troppo alta. Invita ad andare a votare, a non far scegliere agli altri «quello che per te non va bene». Dice: «Nonostante tutti i problemi che il nostro sistema democratico mostra, non possiamo semplicemente alzare le mani. Dobbiamo provare. Se non voti, devi startene zitto, lo sai vero?».

E l’elenco pro Biden prosegue ancora a lungo: ecco Billie Eilish: «Che ti piaccia o meno la politica, se davvero ti sta a cuore la giustizia sociale, la parità dei diritti, se vuoi persone elette che possano battersi per affrontare la crisi climatica prima che sia troppo tardi, devi andare a votare!». E se Billie, da giovane artista convinta che, grazie alla sua musica, può smuovere coscienze, Alynda Lee Segarra, in arte Hurray for the Riff Raff (ascoltatela in Thirteen con Bedouine e Waxahatchee) da oltre un anno collabora con una gruppo, il Freedom For Immigrants, decisione presa dopo la campagna di Trump contro l’immigrazione e i centri dove gli immigrati vengono tenuti, anzi de-tenuti. «Una vergogna», tuona l’artista. «Biden e la Harris hanno detto che fermeranno questa detenzione “a scopo di lucro” (riferendosi ai soldi che lo stato paga a questi centri per tenere i migranti… vi suona familiare?).

L’elenco scorre e scorre. Ogni artista vuole dire la sua, Chuck D dei Public Enemy’s, sostenitore di Bernie Sanders, ha scelto Biden. «Trump non sta facendo il Presidente ma un suo reality show con il favore del fascismo dei suprematisti bianchi», tuona. Beth Ditto parla di Biden e Trump come di due anziani, ricchi bianchi, con la differenza «che uno ti annusa i capelli, l’altro ti afferra la vagina». Due nonnetti. Ma almeno il primo ti prepara i pancakes alla mattina mentre l’altro ti promette caramelle che tiene chiuse nella borsa della nonna che è troppo giovane per essere tua nonna. «Almeno avremo i pancakes», conclude l’autrice di Fire.

E potremmo continuare così con altre decine e decine di musicisti più o meno famosi (almeno nella nostra terra). Dall’altra parte dell’agone gli artisti sono pochini, li conti sulla punta delle dita. Il più famoso è Ted Nugent che sostiene The Donald: «va contro gli stupidi giochi del politicamente corretto e dice quello che deve dire». Pane al pane e vino al vino, diremmo noi. Ah, ci sono anche Kid Rock, l’ex marito di Pamela Anderson, e Trace Adkins, artista country.

Canzoni d’agosto, ecco cinque brani da ascoltare…

In questi giorni d’agosto visto che il lavoro inevitabilmente rallenta, mi sono rifugiato in montagna, sul massiccio del Grappa, in Veneto. Un buen retiro per pensare, leggere, ascoltare musica, guardare la natura, ricostruire un filo interrotto da mesi dove la parola “Covid” è stata pronunciata più di “Amore”, e “occupazione” non fa certo rima con “lavoro”. Dunque, divagazioni a parte, ho deciso di rendervi partecipi dei miei “ascolti” liberi, senza prevenzioni di sorta, perché la musica in fin dei conti è questo, libertà di ascoltare, di costruirsi dei mondi sonori, di farsi suggestionare, di viaggiare tra generi e artisti… conoscenza allo stato puro.

Inizio con cinque canzoni. Sono brani che sto mettendo in cuffia in questi giorni. Eccetto uno, il primo, un singolo di Billie Eilish pubblicato il 30 luglio scorso, sono contenuti tutti in album  degni di nota, pubblicati recentemente. C’è il sound essenziale e alternativo di Eilish, appunto, il rock new deal, essenziale e irriverente dei tre Dehd, la conversione di una popstar che – ammetto – pochissimo consideravo, con un album davvero ben confezionato e di spessore, Taylor Swift, le melodie psichedeliche dei Khruangbin, un altro trio, e, infine, l’immarcescibile Rufus Wainwright con You Ain’t Big, dal suo Unfollow the Rules.

Veniamo al dunque!

1 – My Future – Billie Eilish Sulla diciottenne artista losangelina avevo scritto uno dei miei primi post del blog. Dopo aver vinto quest’anno cinque Grammy, gli Oscar della musica, tra questi i cosiddetti Big Four, miglior canzone (Bad Guy), miglior album (When We All Fall Asleep, Where Do We Go?), miglior registrazione dell’anno e miglior cantante esordiente, la ragazza, con il fratello Finneas, suo alter ego, attore, produttore e musicista, ha messo a disposizione questo nuovo brano, scritto in periodo di lockdown (e sempre lì si ritorna…). Bello anche il video, dove Billie è in versione “anime”. Cercare di innamorarsi in tempo di clausura, ma non di qualche persona, bensì del proprio futuro. Questo il significato del brano: «’Cause I, I’m in love with my future, Can’t wait to meet her. And I, I’m in love, But not with anybody else, Just wanna get to Know myself»…

2 – Exile – Taylor Swift Come ha ben scritto Tgcom24.it la trentenne artista americana ha battuto ogni record con il nuovo Folklore, album decisamente bello e altrettanto diverso dai precedenti. A 30 anni, si sa, si inizia a vedere la vita in altro modo. Taylor ha cercato preziose collaborazioni nel circuito della musica indie Usa, come Aaron Dessner dei The National Justin Vernon (aka Bon Iver), musicisti come Jack Antonoff, ex chitarrista dei Fun, e tal William Bowery, nome quest’ultimo sconosciuto, probabilmente inventato per nascondere un altro artista. Un po’ di pepe non fa mai male, soprattutto quando tra i fan si accendono interminabili discussioni: c’è chi dice sia Ed Sheeran, chi Lorde (grande amica della Swift), chi addirittura Joni Mitchell, una delle fonti di ispirazione della popstar, o Lana del Rey… Discussioni che mi appassionano poco, ma siccome William Bowery ha scritto con Taylor la splendida Exile, interpretata con Bon Iver, un po’ di curiosità viene naturale…

3 – Loner – Dehd Il trio indie-rock di Chicago composto da Emily Kempf (basso e voce), Jason Balla (chitarra e voce) ed Eric McGrady (batteria) ha pubblicato a metà luglio un album davvero interessante e per certi versi singolare, nella – piuttosto piatta – scena rock di questi ultimi anni, Flower of Devotion. Come ha scritto Bandcamp, recensendo il disco: «An album for remembering the revitalizing feeling of inhaling fresh air – the aural equivalent of a gleam of hope». Anche Pitchfork ha detto la sua, ovviamente in positivo, mettendolo tra i Best Album Rock perché: «Dehd look you straight in the eye, sing you something discomfitingly simple and sincere». Strumenti essenziali, pochi ricami ma tanta passione…

4 – So We Won’t Forget – Khruangbin Un altro trio, composto da Laura Lee, basso, Mark Speer, chitarra, e Donald Ray “DJ” Johnson Jr, batteria, per un album, Mordechai, di bell’ascolto. Come assaggiare un buon vino estivo, che ne so, un bel rosato, frizzantino, dai sentori di pesca e frutta matura, beverino. Così è l’ultimo lavoro della band texana. Una nota di freschezza e spensieratezza per questa strana estate di questo strano anno bisestile. C’è world music, soul, psichedelia anni Settanta, insomma divertimento e relax…

5 – You Ain’t Big – Rufus Wainwright Il 47enne artista newyorkese naturalizzato canadese ha pubblicato il suo ultimo disco, Unfollow The Rules nell’aprile di quest’anno. Dentro c’è il “Rufuspensiero”, ossia quelle melodie pop sdolcinate che tanto piacciono ai suoi fan, ma anche esibizioni della sua bella voce in assoli da manuale. Tra i 12 brani di questo percorso a ritmi alternati ecco la giocosa You Ain’t Big, sound anni Sessanta, per una cavalcata nella pancia d’America, nelle storiche contraddizioni di un Paese, bianchi felici e neri in manifestazioni di protesta. Quanto mai attuale visto quello che è successo con George Floyd (proprio ieri è stato diffuso il video intero dei suoi ultimi attimi di vita) e le manifestazioni che sono seguite… Ironica e apparentemente sbarazzina. Ben riuscita!

Anche la pandemia da covid19 ha il suo… Live Aid

Dunque ci siamo, il 18 aprile – fuso italiano le 2 del mattino – anche la pandemia da covid19 avrà il suo “Live Aid concert”. Organizzato da Lady Gaga che ne ha lanciato l’idea, subito raccolta dalle grandi rockstar del pianeta, si chiamerà One World: Together at Home. Tra i musicisti che hanno dato la loro adesione oltre a Lady Gaga, Sir Paul McCartney, Elton John, Andrea Bocelli, Alanis Morisette, Chris Martin dei Coldplay, Billie Joe Armstrong, frontman dei Green Day, Lizzo, Billie Eilish, il grande Eddie Vedder dei Pearl Jam, Steve Wonder… Un evento insolito rispetto a quelli dello stesso genere organizzati nel corso degli anni, come ricordato qui sotto.

Ogni artista starà, ovviamente, chiuso nella sua abitazione/studio/giardino da dove si esibirà. “Insieme a casa”, promette l’incipit dell’evento. Per il resto potremmo immaginarcelo come uno show stile Live Aid, considerato il maggior concerto rock di sempre, organizzato da Bob Geldof per raccogliere fondi contro la fame in Eritrea, tenutosi in successione satellitare, il 13 luglio 1985, al Wembley Stadium di Londra e al John F. Kennedy Stadium di Philadelphia. Fu quello che portò nell’Olimpo degli Intoccabili i Queen con la loro spettacolare esibizione: l’ingresso cinematografico allo stadio di Wembley di Freddie Mercury – incarnato da Rami Malek – visto di spalle nel film Bohemian Rapsody, è uno dei più bei momenti di cinema degli ultimi anni, ma rappresenta anche la tensione e il pathos di quel momento. 

Qui sarà diverso, un grande evento musicale senza pubblico, nada di folle oceaniche, nessun contatto fisico, tutto rigorosamente oltre il metro, tutto affidato alla mente, alla capacità di coesione, ai sentimenti, all’unità, alla percezione che il mondo dopo la pandemia non sarà più lo stesso, che la normalità di prima non sarà più la normalità di domani.

L’altra sera Ra5 (che dio la benedica!) ha ripreso da una delle teche Rai il concerto poi diventato film The Concert for New York City, organizzato da Paul McCartney per la città New York, in ginocchio dopo l’attacco di Al Qaeda alle Torri gemelle dell’11 settembre 2001. Un concerto, sempre di beneficenza, dedicato soprattutto ai Pompieri e alla Polizia cittadina che hanno sacrificato molte vite per salvare più persone possibili in quel terribile disastro. Il mega show è “andato in onda” il 20 ottobre sempre dello steso anno, al Madison Square Garden. Belle le sequenze di Paul, dietro le quinte mentre segue le esibizioni dei vari artisti (allora furono proiettati anche docufilm, testimonianze di registi famosi da Martin Scorsese a Woody Allen a Spike Lee), le visite in camerino di amici e rockstar come James Taylor, i loro ricordi di giovani musicisti quando James, poco più che ragazzo, condivideva con Paul, allora nei Beatles, lo stesso mitico studio di registrazione – a lui toccava registrare la sera, quando i Fab Four avevano terminato il loro lavoro -, l’arrivo di Bill Clinton che confessa a Taylor quanto gli manchino le loro escursioni in barca, l’abbraccio con Elton John, l’esibizione brillante di Mick Jagger e Keith Richards, quella degli Who, di Eric Clapton, Sheryl Crowe, David Bowie, dei Bon Jovi, diventato un album e anche un film. Altra parentesi: bello l’incontro del baronetto con i pompieri, che ringrazia ricordando come anche suo padre in gioventù fu un fireman

Questo, come il Live Aid o altri concerti “benefici” è uno degli esempi di come la musica riesca sempre ad accendere anime e menti, a rendere sensibili, coinvolgere le persone attraverso un’arte condivisa. La musica arriva ovunque, è un veicolo di forza, fiducia, sogni, amore, utile in un momento di grande sconforto e apparente impotenza com’è oggi.

Gigi Radice, un mio caro amico, ieri mi ha ricordato, in questi mesi di “separazione forzata”, l’esistenza di un link, una produzione della Playing For Change Foundation – fondazione che si prefigge di diffondere la cultura musicale nei ragazzi in difficoltà con progetti ultranazionali – realizzata nel settembre del 2019, in tempi non sospetti, dunque!, con grandi musicisiti del rock blues internazionale, da un’idea di Robbie Robertson e Ringo Starr per celebrare i 50 anni dall’uscita di The Weight, canzone simbolo del gruppo canadese The Band, contenuta nel loro primo album Music From Big Pink, di cui Robbie faceva parte. Un brano straordinario, usato nelle colonne sonore di film, ripreso da un’infinità di musicisti, insomma, un’icona della musica e della controcultura americana. Ascoltatelo e vedetelo questo video dove partecipano 21 musicisti, c’è anche Roberto Luti, bluesman livornese di grande bravura, Char, uno dei migliori chitarristi rock giapponesi, l’hawaiana Taimane, esperta di ukulele, il nepalese Rajeev Shrestha genio del sitar, le sorelle Rebecca e Megan Lovell, in arte Larkin Poe (di loro ne ho parlato in quest’altro post) registrati in dieci paesi diversi – America, Italia, Giappone, Inghilterra, Congo, Barhein, Spagna, Argentina, Nepal, Jamaica – per cinque continenti.

Per molti, un ritorno al passato, per i più giovani un sano, robusto rock blues reinterpretato con gli strumenti più vari, a dimostrazione che la musica è musica che si faccia con una chitarra o un sitar, con la voce o con un tamburo. Musica che unisce a dispetto della cultura d’origine e del linguaggio usato sulle sette note. A vederlo ora, in piena quarantena, è un inno alla resistenza… Qui il testo, per cantarlo insieme in questo lungo abbraccio di note…

I pulled into Nazareth, was feelin’ about half past dead
I just need some place where I can lay my head
Hey, mister, can you tell me where a man might find a bed?
He just grinned and shook my hand, “no, ” was all he said
Take a load off, Fanny
Take a load for free
Take a load off, Fanny
And (and) (and) you put the load right on me
(You put the load right on me)
I picked up my bag, I went lookin’ for a place to hide
When I saw Carmen and the Devil walkin’ side by side
I said, hey, Carmen, come on let’s go downtown
She said, “I gotta go, but my friend can stick around”
Take a load off, Fanny
Take a load for free
Take a load off, Fanny
And (and) (and) you put the load right on me
(You put the load right on me)
Go down, Miss Moses, there’s nothin’ you can say
It’s just ol’ Luke and Luke’s waitin’ on the Judgment Day
Well, Luke, my friend, what about young Anna Lee
He said, do me a favor, son, won’t you stay and keep Anna Lee company?
Take a load off, Fanny
Take a load for free
Take a load off, Fanny
And (and) (and) you put the load right on me
(You put the load right on me)
Crazy Chester followed me and he caught me in the fog
He said, I will fix your rack, if you’ll take Jack, my dog
I said, wait a minute, Chester, you know I’m a peaceful man
He said, that’s okay, boy, won’t you feed him when you can?
Yeah, take a load off, Fanny
Take a load for free
Take a load off, Fanny
And (and) (and) you put the load right on me
(You put the load right on me)
Catch a cannon ball now to take me down the line
My bag is sinkin’ low and I do believe it’s time
To get back to Miss Fanny, you know she’s the only one
Who sent me here with her regards for everyone
Take a load off, Fanny
Take a load for free
Take a load off, Fanny
And (and) (and) you put the load right on me
(You put the load right on me)

Musica e cervello/ La quarantena ci regala pure l’8D! Ma… perché?

La quarantena può giocare brutti scherzi… o almeno rendere appetibili e visionarie cose che, tutto sommato, abbiamo già vissuto quando abitavamo “il mondo normale”. Una di queste l’avrete sicuramente provata, magari senza l’enfasi della conoscenza: un invito via whatsapp a collegarvi a un link dove ascoltare la musica come mai l’avete ascoltata prima. Con la premessa di indossare, possibilmente, un paio di ottime cuffie per contribuire a rendere al massimo questa nuova, strabiliante, incredibile, maivistaprima, aiutatemi con gli aggettivi e le iperboli per cortesia, esperienza sonora.

Anch’io, come tutti, per ingannare le ore al di qua delle finestre, mi sono messo le mie ottime cuffie e ho cliccato una delle tante canzoni (se andate su YouTube c’è addirittura un canale dedicato), riviste con la tecnica 8D. Effettivamente l’effetto trastorna, non tanto in purezza di suono, quanto in “avvolgenza sensoriale”. Con calma.

Terminata l’esperienza (in questo caso era   la piacevolmente cupa Billie Eilish) sono andato nella mia libreria sonora digitale a cercami The Final Cut, album dei Pink Floyd uscito nel marzo del 1983, dodicesimo lavoro in studio della band inglese, ultimo con il mitico bassista Roger Waters autore di tutti e dodici i brani del disco. I rumori di tutti i giorni, le auto che partono, le voci di sottofondo, le urla di bimbi nei parchi giochi sembrano (sempre con la solita ottima cuffia) provenire dalla strada, ma c’è la quarantena e di auto e bimbi nel mio quartiere nemmeno l’ombra (per fortuna!). Stiamo parlano di 37 anni fa. Allora l’album fu registrato con i microfoni olofonici, un sistema messo a punto dall’ex bassista dei Nomadi, Umberto (Umbi) Maggi e da un giovanissimo ingegnere italo argentino, Hugo Zuccarelli, che aveva studiato pure al Politecnico di Milano, un vero genio. La registrazione avveniva attraverso una coppia di microfoni omnidirezionali posizionati come se fossero delle orecchie umane. In questo modo si otteneva quella tanto ricercata terza dimensione sonora che avrebbe reso la musica immersiva. Ovvio che Waters e compagnia ci si infilassero a pesce e The Final Cut fu registrato così, ma anche altri artisti furono attratti, da McCartney al nostro Dalla e all’altro geniale sperimentatore sonoro che corrisponde al nome di Peter Gabriel (ve lo ricordate il tour Sledgehammer del 1987 con il mitico Tony Levin al basso?).

Nell’ormai lontano 2012 un altro cavallo pazzo del rock, Neil Young (qui Alabama) decise che gli ascoltatori della musica in streaming avevano tutto il diritto di ascoltare produzioni in alta fedeltà, un dovere per chi faceva musica e per chi ascoltava, insomma il patto di amore sonoro che lega un artista ai suoi fan. Si inventò il Pono, ti registravi al suo sito (l’ho fatto!), pagavi un piccolo contributo e avevi diritto ad ascoltare musica a un ragionevole rapporto qualitativo. Se la volevi ascoltare ancora meglio, acquistavi il Pono fisico, una sorta di lettore Mp3. L’esperienza fallì dopo tre anni. La cosa che è rimasta, però, e che è una genialata, è che pagando un paio di dollari mensili avevi accesso a tutto l’archivio sonoro e fotografico, storico e stoico di Young. Un giusto compromesso tra il lavoro remunerato dell’artista e le escursioni sconfinate nel magico mondo del canadese naturalizzato americano.

E arriviamo a fine marzo con l’osso tirato a un cagnolino triste rinchiuso in gabbia. L’8D, l’ottava dimensione, ti avrebbe aiutato a salvarti dalla quarantena. E in parte è così. Solo che questa magica superdimensione sonora esiste da un bel po’ di tempo e viene usata soprattutto da rapper e trapper nelle loro produzioni, oltre che negli effetti speciali cinematografici. È un sistema fondato sul riverbero e sul panning: il cervello legge prima l’origine della sorgente sonora, poi, questione di millesimi di secondo, i rimbalzi delle onde se ci troviamo in una stanza, un teatro, una sala musica. Il riverbero prevale alla lunga rendendo quell’effetto pieno del suono dove tu sei al centro dell’universo, almeno credi di esserlo. Usando il panning, ovvero quello strumento sul mixer che permette di dosare lo spostamento dell’audio di un canale nel mix destro o sinistro, il gioco è fatto. Crei quel turbinio dove la musica gira intorno a te da destra a sinistra fino a quando ti sembrerà provenire da ogni direzione. Un divertissement per il tuo cervello rattrappito dalla quarantena colpito dalle tante preoccupazioni sul futuro. E va bene, basta saperlo: a un concerto di Carlos Santana all’Arena di Verona, tanti, tanti anni fa, sotto un diluvio universale, l’umidità che scordava le chitarre, un mio vicino di pietra aspirando un “cannone” d’ordinanza di tutto rispetto mi guardò e mi disse: «Accidenti amico, senti l’acuto della chitarra, lo tiene da un tempo infinito, mai sentito niente del genere.. Siamo arrivati alla perfezione della musicaaaa…». Beh, ecco, altro che 8D… forse bastava un po’ di pachistano…

Nuova Musica/ Alcune riflessioni su Billie Eilish…

Dunque, a 18 anni Billie Eilish Pirate Baird O’Connell, questo il suo nome completo, è la vera, grande, e per ora, unica, rivelazione della musica dei prossimi anni. Cinque Grammy, gli Oscar della musica, vinti. Si è aggiudicata il Big Four, miglior canzone (Bad Guy), miglior album (When We All Fall Asleep, Where Do We Go?), miglior registrazione dell’anno e miglior cantante esordiente. Meglio di lei, parlando “in Grammy”, a questa età non c’era riuscito nessuno/a (solo Cristopher Cross si aggiudicò i Big Four nel 1981 ma a 29 anni). Billie, in armoniosa verve creativa con il fratello Finneas, che di anni ne ha 22, musicista, produttore e attore (è Alistair nella serie televisiva Glee), porta dentro di sé quel genio, come si dice nel calcio, che bacia solo qualche persona nel corso di un secolo.

La cover di “When We All Fall Asleep, Where Do We Go?”

Da mesi le grandi major e chi organizza la musica in streaming sul pianeta terra, Apple Music in testa, la stanno osservando con occhi avidi. In tema di record: Billie sarà anche la prima artista a cantare, a 18 anni, il tema principale del nuovo film di James Bond (No time to die). D’altronde, business is business: per un’adolescente che ha postato la sua prima canzone scritta con il fratello in casa su SoundCloud (Ocean Eyes) e che oggi ha 54 milioni di ascoltatori su Spotify e 50 milioni (in crescita costante) su Instagram vuol dire essere una potenziale e formidabile macchina da soldi, tanti soldi, e vista la giovane età e la testa sulle spalle, ancorché con le paturnie e le depressioni adolescenziali humus per la sua creatività, una vita di infiniti successi davanti. Andatevi a vedere i filmati di lei e del fratello mentre compongono: nella sua cameretta, con un pianoforte a muro e un vortice di idee che ballano, il cielo in una stanza, parafrasando Gino Paoli. Musica innovativa? Piuttosto musica ispirata, quella che solo gli adolescenti ancora ricchi di sogni e aspettative possono partorire. Musica essenziale, ridotta all’osso, come sarebbe piaciuta al primo David Byrne.

Tracce solide su cui ricamare con la voce, bassi a tratti cupi, sprazzi di trap, melodie ipnotiche, tristezza e allegria (moderata). Ocean Eyes, la canzone che l’ha fatta conoscere in un dilagante passa parola, è composta da tre accordi su cui giocano voce e interpretazione. Basta poco per non essere banali, basterebbe anche poco non uniformarsi alle correnti che oggi vedono i giovani artisti in cerca di successo per lo più dirottati su rap e trap, canzoni fatte in serie per raccattare soldi e fama ma sostanza vicina al nulla. Come rappa un provocatorio e realista J-Ax in Mainstream (La Scala Sociale del Rap),primo brano del suo nuovissimo lavoro, ReAle: “Oh! Qui tocca essere mainstream, Se no a quest’ora lavoravo per Just Eat, In provincia industriale con l’economia a puttane… Oh! Piuttosto che tornare lì, Mi lecco pure il palo come i Maneskin, Questo è ciò che devo fare altro che scala sociale…”. Poi ci si accontenta sempre. Il materiale umano è quello è, ce lo teniamo/subiamo, ovviamente salvo alcune rare eccezioni. Con Billie la musica trova un’altra fonte di ispirazione e magari nuovi modelli su cui lavorarci sopra. Vedremo…