Franco Mussida e la musica, vita e amore vibrante

Cos’è la musica? È una domanda che mi pongo spesso. Credo sia uno dei quesiti più difficili a cui dare una risposta. Un po’ come interrogarsi sul perché sia nato il mondo o quale sia il mio ruolo nel tutto, ammesso che ogni cosa si tenga, seppure apparentemente in modo più anarchico che ortodosso. Sul ruolo della musica nella mia vita potrei scrivere per ore, perché la musica è sangue che fluisce, cuore che accelera, anima che danza… emozione.

Nella mia personale ricerca su cosa sia la musica, mi sono imbattuto in Franco Mussida. Il mitico ex-chitarrista della PFM e presidente-fondatore del CPM Music Institute (il ministero dell’Istruzione l’ha riconosciuto come Istituto di Alta Formazione) ha più di una risposta alla mia domanda. Ha passato una vita a cercare ragioni fisiche, semantiche, psicologiche, “religiose” nel senso più laico del termine del suono e della musica. Che fa parte di noi come la parola, uno spazio fisico e mentale illimitato, un universo di sensazioni che si decodificano in emozioni. Continua a leggere

Ecco perché gli artisti vanno ascoltati…

Sto seguendo con interesse il dibattito che si sta sviluppando sulla pagina Facebook di Musicabile, provocato dal mio post sulla guerriglia a Capitol Hill di qualche giorno fa. Ho cercato di raccontare e vedere i fatti – la “presa del Campidoglio” da parte di sostenitori di Donald Trump – attraverso la musica, fedele al principio che ha ispirato questo blog.

Frequento i social da anni e non finiscono mai di stupire. Ben vengano le discussioni che si sono accese in questi giorni dopo la cacciata di Trump da Twitter. Sulle dissertazioni poco ortodosse del presidente americano fatte negli ultimi anni, i social ci hanno marciato e guadagnato, eccome. La conseguenza siamo noi che interagiamo su queste piattaforme, tutti con la verità in tasca, pronti a deridere, insultare, odiare e cercare di convincere il mondo: instaurare un contraddittorio con chi dissente da te, anche in modo veemente, è al novantanove per cento inutile. Convincere un terrapiatttista che il pianeta ha un’altra forma è tempo sprecato. Stesso discorso per chi è convinto che l’assedio al Campidoglio sia stato organizzato dai Dem per cancellare Trump.

Uno degli interventi in particolare mi ha incuriosito: “Che ne sa un cantante di economia o politica interna ed estera?”, come si permettono i vari Springsteen di pontificare visto che non è il loro mestiere? Avevo premesso sul precedente post che gli artisti vedono più lontano di tutti per il semplice fatto che hanno un altro modo  – più libero? creativo? emozionale? – di vedere la realtà che li circonda.

Grazie a una miniserie firmata da Martin Scorsese disponibile su Netflix, Fran Lebowitz, una vita a New York, è arrivata la risposta al commentatore del mio post. Nel docufilm dedicato alla geniale scrittrice e umorista americana (che consiglio vivamente!), la Lebowitz parla della musica come dell’unica forma d’arte che “consente alle persone di esprimere emozioni e ricordi”. E aggiunge: «Rende felici le persone senza fare del male. Altre cose piacevoli sono dannose. È speciale, è una droga che non ti uccide!».

Scorsese per introdurre il discorso “musica” con la Lebowitz ricorre a un breve estratto di Remember Marvin Gaye, film di Richard Olivier del 1981, dove Marvin dà la definizione esatta dell’artista e del suo ruolo. La faccio mia, non avrei saputo dirlo in modo migliore! «Un artista, se è davvero un artista, è interessato solo a una cosa: risvegliare le menti degli uomini, far capire agli uomini e alle donne che c’è qualcosa di più grande di ciò che vediamo in superficie».

Ecco cosa c’entrano i vari Springsteen, Tom Morello, Marvin Gaye, John Lennon, Eminem…

Urban Indie/1 – Roberto Cibelli, Giuliano Saglia e la rivoluzione della musica

Ok, il discorso va affrontato, e lo dico da vecchio rocker quale sono. L’ormai rugginosa “guerra” tra rock e rap all’alba del 2020 non ha più nessun senso. Il rap ormai è stato introiettato e digerito come genere “storico” acquisito. Ha la sua lunga storia  – dagli anni Settanta a oggi di “rappate” per le strade e nei palchi del mondo ne sono passate tante – e, come è accaduto per il rock, va considerato come una delle “stagioni” della musica, quei particolari, intensi, momenti di cambiamenti sociali e culturali che rendono quest’arte una delle antenne principali per captare i cambiamenti in corso. Dunque, eccoci qua. Con una notizia arrivata fresca proprio oggi – l’assassinio di Pop Smoke, 20 anni, rapper newyorkese stimato dai grandi nomi del genere, da Nicki Minaj a Cardi B, per citarne un paio – che non smentisce la fama ribelle e trucida dell’hip hop d’oltreoceano. Quello italico è profondamente diverso, di sicuro non fisicamente violento. Non si parla più di disagio e riscatto sociale, com’era per il rap, ma di esibizione e voglia d’avercela fatta, di soldi e lusso, di un machismo ostentato, con un uso snervante dell’autotune sul cantato (trap) e una libertà di esecuzione vocale non legata al beat, che nella trap è più accelerato (vedi Sfera Ebbasta, Ghali, il giovane Shiva). Salvo rare eccezioni il trapper è un artista solitario che non si associa in crew: se ce la fa, emerge e diventa famoso ed è solo per merito suo e di nessun altro… La trap sta evolvendo a sua volta, nascono nuove correnti con nomi coniati dagli stessi artisti… C’è chi paragona – per certi aspetti a ragione – questa “rivoluzione” musicale al punk degli anni Settanta, come corrente di rottura, che sa parlare la lingua del disagio giovanile…

Il nostro viaggio nel mondo rap/trap, inizia in una tranquilla via di Milano, a due passi da Paolo Sarpi, nel quartiere cinese. Qui ha sede la Red Music edizioni musicali. Al timone Giuliano Saglia, 67 anni, e Roberto Cibelli, 60. Più che una label è una “talent scout house”, una “casa sicura” dove, chi ha talento, può emergere e viene aiutato in tutto, dalla costruzione del personaggio alla mera burocrazia.

Roberto Cibelli, a sinistra, e Giuliano Saglia, a destra, della Red Music

Come siete entrati nel mondo dell’Urban? Nel corso degli anni avete anche intercettato il fenomeno della Disco Music italiana mietendo più che rispettosi successi (tanto per ricordarne uno, Giuliano Saglia nel 1998 ha coprodotto con Alex Farolfi e Mario Fargetta, Feel it, arrivando al top delle classifiche inglese ed europee)…
Roberto: «Siamo entrati nell’Urban Indie per necessità. Con la crisi del 2008 ci siamo ritrovati a decidere su cosa fare della nostra attività, così abbiamo puntato su quella fetta di musica indipendente che le grandi case discografiche, per motivi di struttura e tipo di lavoro, non consideravano… È andata bene. Tra 10, 15 anni questa musica sarà considerata il pop italiano».

Secondo voi perché ha preso piede divorando fette di mercato sempre maggiori?
Roberto: «Mi rifaccio alle parole di J-Ax: l’Urban Indie si è affermato grazie a Internet, Spotify, i social media. Le major non hanno più il potere di decidere quali artisti siano da promuovere e mandare avanti e quali no. Questi ragazzi non devono ringraziare nessuno se non loro stessi e la loro creatività… Tra il 2010 e 2015 non ascoltavi un brano urban in radio, oggi è tutta un’altra storia».
Giuliano: «Il pubblico è cambiato. I ragazzi si identificano perché nei brani di artisti che hanno la loro stessa età e che sono cresciuti negli stessi luoghi, vengono affrontate tematiche reali. Diventare famoso è uno degli obiettivi futuri dei giovani ascoltatori. Devi saper esprimere quello che stai vivendo, sei arrabbiato, non hai soldi, hai un’infanzia difficile… il gergo è lo stesso da Milano a Catania».
Roberto: «I social sono stati importantissimi. Come artista puoi interagire immediatamente con chi ti segue. Prima la comunicazione la faceva la casa discografica ed era distaccata, non coinvolgente. Il pubblico, il tuo pubblico che si riconosce in quello che tu dici, ti sente vicino, un amico».

Ciò ha permesso a molti più artisti di emergere?
Roberto: «Non proprio. Prima c’era l’imbuto della casa discografica: potevi essere un genio, ma se, magari, quel giorno chi ti ha visto non ha capito chi tu fossi veramente, la tua carriera veniva stroncata definitivamente ancor prima di nascere. Oggi a decidere è il pubblico. Se piaci vai avanti altrimenti no. I numeri degli “emergenti” sono gli stessi di quelli che c’erano nell’era del pop».
Giuliano: «È una questione di possibilità, non sono gli altri a decidere la tua carriera, ma sei tu. Se hai le capacità puoi arrivare a sfondare anche da solo. Prendiamo ad esempio Ghali. È stato con noi nella fase iniziale. Era un ragazzo con una vita difficile, abitava in un appartamento minuscolo con la madre in un quartiere difficile e di periferia. Aveva tutta la voglia e la forza di emergere, raccontare, uscire da una esistenza dura. Chi ti ascolta capisce se in te, artista, c’è spessore o meno…».

Insomma, Internet e i social hanno democratizzato la musica…
Roberto: Sì. Pensa solo negli anni Settanta e l’ondata del cambiamento musicale con l’arrivo dei cantautori. Ti sei mai domandato perché emergessero per lo più artisti romani e pochissimi milanesi? A Roma aveva sede l’RCA. La potente etichetta aveva addirittura creato una scuola per cantautori. Oggi il territorio fisico non esiste più, si gioca tutto nel web».

Qual è il futuro della musica italiana?
Giuliano: «Si è partiti con il rap e si va verso un indie che non ha contorni definiti. È come un fiume che scorre impetuoso ma non costretto in un unico letto. L’acqua si spande ovunque… Ora siamo noi discografici che seguiamo l’onda, prima era esattamente l’opposto: si creava la moda e il genere. Oggi si inseguono le mode e i generi si cavalcano».

È corretto definirvi “scopritori di talenti”?
Giuliano: «Vediamo decine di ragazzi ogni settimana, ascoltiamo le loro produzioni. Se scorgiamo del talento creiamo un progetto per loro, gestiamo tutta la parte del copyright e la burocrazia, permettiamo loro di apparire negli store, ma li lasciamo discograficamente liberi».

Nuova Musica/ Alcune riflessioni su Billie Eilish…

Dunque, a 18 anni Billie Eilish Pirate Baird O’Connell, questo il suo nome completo, è la vera, grande, e per ora, unica, rivelazione della musica dei prossimi anni. Cinque Grammy, gli Oscar della musica, vinti. Si è aggiudicata il Big Four, miglior canzone (Bad Guy), miglior album (When We All Fall Asleep, Where Do We Go?), miglior registrazione dell’anno e miglior cantante esordiente. Meglio di lei, parlando “in Grammy”, a questa età non c’era riuscito nessuno/a (solo Cristopher Cross si aggiudicò i Big Four nel 1981 ma a 29 anni). Billie, in armoniosa verve creativa con il fratello Finneas, che di anni ne ha 22, musicista, produttore e attore (è Alistair nella serie televisiva Glee), porta dentro di sé quel genio, come si dice nel calcio, che bacia solo qualche persona nel corso di un secolo.

La cover di “When We All Fall Asleep, Where Do We Go?”

Da mesi le grandi major e chi organizza la musica in streaming sul pianeta terra, Apple Music in testa, la stanno osservando con occhi avidi. In tema di record: Billie sarà anche la prima artista a cantare, a 18 anni, il tema principale del nuovo film di James Bond (No time to die). D’altronde, business is business: per un’adolescente che ha postato la sua prima canzone scritta con il fratello in casa su SoundCloud (Ocean Eyes) e che oggi ha 54 milioni di ascoltatori su Spotify e 50 milioni (in crescita costante) su Instagram vuol dire essere una potenziale e formidabile macchina da soldi, tanti soldi, e vista la giovane età e la testa sulle spalle, ancorché con le paturnie e le depressioni adolescenziali humus per la sua creatività, una vita di infiniti successi davanti. Andatevi a vedere i filmati di lei e del fratello mentre compongono: nella sua cameretta, con un pianoforte a muro e un vortice di idee che ballano, il cielo in una stanza, parafrasando Gino Paoli. Musica innovativa? Piuttosto musica ispirata, quella che solo gli adolescenti ancora ricchi di sogni e aspettative possono partorire. Musica essenziale, ridotta all’osso, come sarebbe piaciuta al primo David Byrne.

Tracce solide su cui ricamare con la voce, bassi a tratti cupi, sprazzi di trap, melodie ipnotiche, tristezza e allegria (moderata). Ocean Eyes, la canzone che l’ha fatta conoscere in un dilagante passa parola, è composta da tre accordi su cui giocano voce e interpretazione. Basta poco per non essere banali, basterebbe anche poco non uniformarsi alle correnti che oggi vedono i giovani artisti in cerca di successo per lo più dirottati su rap e trap, canzoni fatte in serie per raccattare soldi e fama ma sostanza vicina al nulla. Come rappa un provocatorio e realista J-Ax in Mainstream (La Scala Sociale del Rap),primo brano del suo nuovissimo lavoro, ReAle: “Oh! Qui tocca essere mainstream, Se no a quest’ora lavoravo per Just Eat, In provincia industriale con l’economia a puttane… Oh! Piuttosto che tornare lì, Mi lecco pure il palo come i Maneskin, Questo è ciò che devo fare altro che scala sociale…”. Poi ci si accontenta sempre. Il materiale umano è quello è, ce lo teniamo/subiamo, ovviamente salvo alcune rare eccezioni. Con Billie la musica trova un’altra fonte di ispirazione e magari nuovi modelli su cui lavorarci sopra. Vedremo…