1971, l’anno in cui la musica ha cambiato tutto: da vedere!

Mi sono assaporato 1971, The year that music changed everything, la docuserie di Asif Kapadia trasmessa da Apple Tv+. Racconta, senza tesi né costruzioni, ma con filmati – molti di questi mai visti prima – e testimonianze – mai in camera – un anno determinante per la musica, uno spartiacque tra il prima e il dopo, nel quale si sono concentrati una serie di eventi tragici, dolorosi ma anche spettacolari e dove la musica ha fatto da collante, indicando ai giovani di allora nuove strade, un nuovo mondo possibile.

Ispirato a 1971, Never a Dull Moment, libro uscito nel 2016 del critico inglese David Hepworth, pubblicato in italiano da Sur (collezione BigSur con il titolo 1971, L’anno d’oro del Rock), la docuserie riporta con immagini e tanta musica quello che in sostanza Hepworth sostiene su quel fatidico 1971: «il più febbrile, creativo e lungo anno di quell’epoca».

Infatti, di cose ne sono successe, e tante. Con una premessa simbolica dal punto di vista musicale: il 1971 è stato il primo anno senza i Beatles. Infatti, il capitolo iniziale della serie – è anche il più lungo – si sofferma sull’eredità musicale dei Fab Four, sulla politica degli anni Sessanta e sul perché i Settanta siano stati così dirompenti. Dal punto di vista sociale è stato rappresentato –  e giustamente – raccontando la cronaca dei fatti successi all’università di Ken State nell’Ohio: la morte di quattro studenti e il ferimento di altri nove da parte della Guardia Nazionale, durante le proteste contro la guerra in Vietnam. Neil Young dedicò all’accaduto una canzone, Ohio (famosa l’esibizione live al Massey Hall di Toronto nel 1971, dalla quale ne uscì un disco pubblicato soltanto nel 2007).

In otto capitoli per un totale di sei ore1971 sembra più la cronaca di un decennio che di un anno solo. Negli Usa governava Richard Nixon, la guerra in Vietnam continuava a essere la spina nel fianco per il presidente e l’establishment, il “make love not war” dei figli dei fiori era tramontato, sia in musica sia nei fatti, l’America stava facendo i conti con il Black Power, una radicale presa di coscienza diventata lotta di resistenza degli afroamericani; anche le donne iniziavano a rompere quell’apparente, melenso, status quo che prevedeva il marito al lavoro e le mogli devote, tutte casa e pulizia. In questa rivoluzione c’era pure la sentenza di Charles Manson e delle sue adepte assassine per i fatti di Cielo Branco e l’esperimento della prigione di Stanford: un gruppo di psicologi, diretto dal prof. Philip Zimbardo, simulò la vita in un carcere americano in tutto e per tutto. Il test doveva durare 15 giorni, si concluse dopo appena cinque giorni perché i volontari, studenti che simulavano prigionieri e carcerieri, dettero di matto. Sempre nel ’71 l’Orgoglio Gay iniziava a prendere forme organizzate. In mezzo a tutto questo fermento sociale e politico c’era una maggioranza silenziosa che assisteva attonita alla nascita di una controcultura giovanile che demoliva, come martelli pneumatici, le consolidate fondamenta sociali sia negli States sia in Europa.

E la musica regnava sovrana: uno strumento consapevole di questa rivoluzione che Gil Scott Heron riassunse in un brano storico The Revolution Will Not Be Televised – è anche il titolo del quinto episodio della serie – e nella meno conosciuta No Knock e Sly & the Family Stone con un altrettanto esplicito There’s a Riot Goin’ On. La musica come filo conduttore, catalizzatrice del cambiamento in atto. Ed ecco John Lennon, Bob Dylan e Marvin Gaye che arrivano dagli anni Sessanta con un rinnovato impegno politico: Marvin pubblica nel ’71 What’s Going On, che poi Rolling Stone eleggerà disco rock più bello di tutti i tempi. C’è la coscienza delle ingiustizie sociali, di un mondo inquinato, di un establishment corrotto e arroccato. Vi viene in mente qualcosa? Aretha Franklin raccoglie fondi e paga la cauzione all’attivista per i diritti civili Angela Davis, Bill Whiters irromope con la sua Ain’t No Sunshine

Nella narrazione, a filmati e brani musicali di pregio si alternano spezzoni di televisione dell’epoca, importanti per inquadrare il momento storico: dal reality rivoluzionario An American Family a Soul Train, il primo spettacolo televisivo dove gli afroamericani conquistano quell’affermazione musicale tanto cercata.

C’è un capitolo dedicato anche alla droga, l’eroina che consumava Sly Stone e faceva morire Jim Morrison a Parigi, mentre in una lussuosa villa in Provenza i Rolling Stones, fuggiti dal fisco inglese e poi incappati nella mafia marsigliese per colpa della droga, cercavano di registrare un disco, Exile On Main St., che poi diventerà un caposaldo della loro produzione, in una spirale di eroina, anfetamine e alcool di immani proporzioni. Ne parla sopra le immagini il giornalista di Rolling Stone Robert Greenfield, all’epoca al seguito della corte di Keith Richards e soci.

Si sperimenta tanto perché il ’71 è anche l’anno della tecnologia. Arrivano i primi strumenti elettronici, Pete Townshend degli Who ne viene attratto, li studia e li usa – vedi Baba O’Riley. Mentre Alice Cooper sperimenta un rock “visivo” con performance crude (vedi la sua impiccagione…), Marc Bolan frontman dei T.Rex getta le basi del primo Glam Rock. Un giovane David Bowie studia Cooper e si prepara a diventare il mito frequentando la Factory di Andy Wharol. E poi Lou Reed e Iggy Pop, ma anche, a Berlino, i mitici Kraftwerk

E ancora: la musica che unisce anche chi la pensa in modi opposti, vedi i primi skinheads inglesi e i giovani di origini afro che ascoltavano – e suonavano – il reggae di Bob Marley and The Wailers. Il 1971 vede anche la nascita dei cantautori che si sostituiscono nel gradimento dei giovani alle band, vedi Carol King con Tapestry, Joni Mitchell con Blue, Elton John che fa esplodere il Troubadour di Las Vegas nella sua prima tournée americana, Ike e Tina Turner che, assieme agli Staple Singers e ad altri grandi nomi dell’epoca vengono invitati a esibirsi ad Acca, in Ghana, al Soul to Soul Festival per celebrare il 14esimo anniversario della repubblica. E ancora: George Harrison che, il primo di agosto, organizza al Madison Square Garden di New York il mitico concerto benefico per il Bagladesh…

È necessario vederlo, vi assicuro. Perché, oltre all’importanza storica e anche al legame che unisce quella musica che prendeva forma e quella che verrà negli anni seguenti (non a caso l’immagine finale è quella di Billie Eilish), noterete un parallelo con la situazione attuale. Non per la musica, certo che no! Quello resta un anno irripetibile, ma per i problemi sociali e politici. Negli States gli afroamericani protestano ancora per gli abusi e le violenze, i soldati vengono ritirati dopo 20 anni dall’Afganistan (allora si chiamava Vietnam), l’orgoglio gay è più che mai necessario (guardate in Italia le discussioni e l’iter travagliato per approvare la legge sull’omotransfobia), le donne continuano a lottare per le discriminazioni e le violenze, il pianeta è mezzo moribondo per colpa nostra, la tecnologia ci fa del bene, ma a che prezzo… Paralleli nemmeno troppo nascosti. Speranze, ambizioni, frustrazioni si ripetono. Guardatelo con questi occhi e vi renderete conto dell’immobilità del tempo: sono passati 50 lunghi anni e i problemi sono praticamente gli stessi…

Ecco perché gli artisti vanno ascoltati…

Sto seguendo con interesse il dibattito che si sta sviluppando sulla pagina Facebook di Musicabile, provocato dal mio post sulla guerriglia a Capitol Hill di qualche giorno fa. Ho cercato di raccontare e vedere i fatti – la “presa del Campidoglio” da parte di sostenitori di Donald Trump – attraverso la musica, fedele al principio che ha ispirato questo blog.

Frequento i social da anni e non finiscono mai di stupire. Ben vengano le discussioni che si sono accese in questi giorni dopo la cacciata di Trump da Twitter. Sulle dissertazioni poco ortodosse del presidente americano fatte negli ultimi anni, i social ci hanno marciato e guadagnato, eccome. La conseguenza siamo noi che interagiamo su queste piattaforme, tutti con la verità in tasca, pronti a deridere, insultare, odiare e cercare di convincere il mondo: instaurare un contraddittorio con chi dissente da te, anche in modo veemente, è al novantanove per cento inutile. Convincere un terrapiatttista che il pianeta ha un’altra forma è tempo sprecato. Stesso discorso per chi è convinto che l’assedio al Campidoglio sia stato organizzato dai Dem per cancellare Trump.

Uno degli interventi in particolare mi ha incuriosito: “Che ne sa un cantante di economia o politica interna ed estera?”, come si permettono i vari Springsteen di pontificare visto che non è il loro mestiere? Avevo premesso sul precedente post che gli artisti vedono più lontano di tutti per il semplice fatto che hanno un altro modo  – più libero? creativo? emozionale? – di vedere la realtà che li circonda.

Grazie a una miniserie firmata da Martin Scorsese disponibile su Netflix, Fran Lebowitz, una vita a New York, è arrivata la risposta al commentatore del mio post. Nel docufilm dedicato alla geniale scrittrice e umorista americana (che consiglio vivamente!), la Lebowitz parla della musica come dell’unica forma d’arte che “consente alle persone di esprimere emozioni e ricordi”. E aggiunge: «Rende felici le persone senza fare del male. Altre cose piacevoli sono dannose. È speciale, è una droga che non ti uccide!».

Scorsese per introdurre il discorso “musica” con la Lebowitz ricorre a un breve estratto di Remember Marvin Gaye, film di Richard Olivier del 1981, dove Marvin dà la definizione esatta dell’artista e del suo ruolo. La faccio mia, non avrei saputo dirlo in modo migliore! «Un artista, se è davvero un artista, è interessato solo a una cosa: risvegliare le menti degli uomini, far capire agli uomini e alle donne che c’è qualcosa di più grande di ciò che vediamo in superficie».

Ecco cosa c’entrano i vari Springsteen, Tom Morello, Marvin Gaye, John Lennon, Eminem…

L’assalto a Capitol Hill: era tutto scontato…

Sono passati solo alcuni giorni dall’assalto al Campidoglio da parte dei seguaci di Donald Trump. Scene che mai avremmo pensato di vedere e il cui effetto porta sviluppi quotidiani. There’s a Riot Goin’ On! C’è una rivolta in corso, avrebbero cantato gli Sly & The Family Stone dall’omonimo disco funk/soul del 1971 (bellissimo e da riascoltare). Lì, ovviamente le rivolte riguardavano la nuova musica, il fatto che band e artisti afroamericani stessero raggiungendo vendite di dischi inimmaginabili, la rivendicazione tangibile delle lotte razziali, e del diritto all’uguaglianza a alla libertà… insomma questioni di sostanza, barriere che ancora oggi la società americana non ha risolto e che quegli incendiari untori della democrazia, in azione a Capitol Hill, confermano che è ben lontana dal risolverle.

Le scene del tentato golpe da parte di un presidente in carica – perché di questo si è trattato – più o meno agevolato da uomini delle forze dell’ordine (il che suona ancora più sinistro) dimostra che negli States c’è qualcosa che non va, e da anni. Cantava Bob Dylan quasi mezzo secolo fa in Shelter from the Storme (da Blood On The Trucks, 1975): Now there’s a wall between us, somethin’ there’s been lost/ I took too much for granted, I got my signals crossed/ Just to think that it all began on an uneventful morn (Ora c’è un muro tra di noi, qualcosa è andato perduto. Ho dato troppo per scontato, ho male interpretato i segnali. E pensare che tutto ha avuto inizio in una tranquilla mattina

Ed è proprio qui il punto: come s’è arrivati a tutto questo, quando la “mattina tranquilla” s’è trasformata in un incubo che ha sconvolto l’America? Da portatori di valori democratici, gli Stati Uniti d’America sono diventati in poche ore l’oggetto di scherno di tutti i dittatorelli dal pungo di ferro in giro per il mondo, dalla Turchia, all’Iran, dalla Corea del Nord, alla Russia di Putin. Dove ha fallito la democrazia? Probabilmente nel rifiutarsi di ascoltare o far finta di non vedere, cosa stava cambiando nel tessuto sociale e nel continuare a inseguire quel dio dollaro che è l’unica vera religione praticata in Usa.

Questi segnali di disgregazione democratica li avevano lanciati, guarda caso, molti artisti in anni non sospetti. Chi pratica l’Arte vede dove sta andando il mondo meglio di chiunque altro. Vi ricordate quel film del 1997 di Joe Dante dal titolo La seconda Guerra Civile Americana? Il copione, un politico populista, anti immigrati, che scatena l’ultra destra americana, è lo stesso che abbiamo visto negli ultimi quattro anni di gestione Trump. Esattamente questo. Bruce Springsteen, nel 2017, prima che Trump si insediasse formalmente alla Casa Bianca il 20 gennaio di quell’anno, in alcune interviste espresse i suoi dubbi sull’allora nuovo presidente. La campagna di Trump aveva scatenato «bigottismo, razzismo, intolleranza», sosteneva il Boss, «difficile da sedare ora che lui sarà alla Casa Bianca… Le persone si sentono in diritto di parlare e comportarsi in modi che prima erano considerati antiamericani e non americani… Questo è ciò a cui (Trump) fa appello. E i miei timori sono che queste convinzioni trovino spazio nella società civile». Certo, anche il Boss aveva ragione. Come la jazzista Terri Lyne Carrington che con il suo gruppo, i Social Science, aveva composto un disco, Waiting Game, pensando proprio alle conseguenze dell’elezione di Trump (ascoltate Trapped In the American Dream)…

I’m sick and tired of hearing things,/ From uptight, short sighted, narrow minded hypocrites,/ All I want is the truth,/ Just gimme some truth,/ I’ve had enough of reading things,/ By neurotic, psychotic, pig headed politicians,/ All I want is the truth,/ Just give us the truth… Sono nauseato e stanco di ascoltare parole da ipocriti conservatori, miopi e ottusi. Tutto quello che voglio è la verità. Dammi solo un po’ di verità. Ne ho abbastanza di leggere affermazioni di politici nevrotici, psicotici e testardi. Tutto quello che voglio è la verità. Dacci solo la verità… cantava John Lennon nel 1971 in Gimme Some Truth (dall’album Imagine).

Ed è quello che sta chiedendo buona parte della popolazione americana. Sono convinto che anche i moderati che hanno votato The Donald perché storicamente legati ai repubblicani se lo stiano domandando. L’escalation di quest’uomo livoroso e fuori dalla realtà, che più di qualcuno ha definito criminale nell’atteggiamento, ha portato l’America e il mondo ad assistere a un copione che tutti già conoscevano e in un certo modo si aspettavano, ma che nessuno ha davvero tentato di fermare. Tra le truppe d’assalto nel giorno dell’”epifania” di Joe Biden, oltre allo sciamano Jake Angeli – poi identificato con il suo vero nome, Jacob Chansley, non un provocatore mandato da Biden ma un fervente seguace di Trump – c’era anche un ex tenente colonnello texano dell’Air Force, armato di tutto punto, Larry Rendall Brock, Jr., che, come riporta The New Yorker, ha servito a lungo il suo Paese e, una volta in pensione, s’è radicalizzato grazie ai social, a Trump, alle teorie cospirazioniste di QAnon e, probabilemente, alla rabbia scomposta di Steve Bannon.

Mentre guardavo quelle scene in televisione mi sono venuti in mente i Ramones e il primo brano del loro primo album del 1976, Blitzkrieg Bop, Hey ho, let’s go! Hey ho, let’s go! Hey ho, let’s go! Hey ho, let’s go!, una consona colonna sonora. Ma anche l’inno americano (The Star-Bangled Banner) suonato da Jimi Hendrix al festival di Woodstock nel 1969, trasformato, grazie a una chitarra distorta e gemente, in una protesta contro la guerra in Vietnam. Allora Jimi simulava le bombe che cadevano, le esplosioni, la violenza democratica… quel mercoledì avrebbero potuto scandire le scene dei vetri delle finestre di Capitol Hill che si sbriciolavano sotto i colpi americani e l’arroganza dei trumpisti seduti, gambe sulla scrivania, sulle poltrone di Nancy Pelosi, Speaker della Camera, e di Mike Pence, presidente del Senato.

La ricostruzione su queste macerie fumanti sarà molto dura. Gli spazi e le regole democratiche sono stati violati, e da tempo. Tom Morello, musicista, anche chitarrista dei Rage Against The Machine – a proposito, ascoltate Wake UpWake up! Wake up! Wake up! Wake up! How long? Not long, cause what you reap is what you sow (Svegliati! Svegliati! Svegliati! Svegliati! Per quanto? Non troppo, perché quello che raccogli è quello che semini…) – in un tweet metteva a confronto lo schieramento militare davanti a Capitol Hill durante le manifestazione dei Black Lives Matter, un muro invalicabile, e quello dei trumpisti delusi, quattro poliziotti che hanno aperto i varchi e si son fatti persino i selfie con quelli che Biden ha definito terroristi. Cortocircuito. C’è davvero un cortocircuito. Che deve essere riparato al più presto, se l’America vuole continuare a essere il Paese del possibile.

In memoria di John Lennon

Sono esattamente 40 anni che Lennon è stato ammazzato, quattro proiettili sparati alla schiena da Mark David Chapman, ancora in carcere dopo 11 richieste di libertà vigilata. Il mio non vuol essere l’ennesimo ricordo: stampa, social, televisioni ne sono pieni e molti di ottima fattura.

Mi limito solo a pubblicare sul post tre episodi di vita di tre amici brasiliani. Tutti fan dei Beatles e di Lennon, un fotografo e due giornalisti, uno di questi, Márcio Gaspar, nell’ufficio stampa dell’allora WEA (Warner-Elektra-Atlantic) Brazil, oggi WMG (Warner Music Group), aveva lavorato al lancio dell’ultimo Lp dell’ex Beatles, Double Fantasy. Sono tre brevi spaccati di vita di quell’8 dicembre 1980.

Perché brasiliani, vi chiederete legittimamente. Beh, innanzitutto perché amici e colleghi che stimo da decenni, e poi perché il Brasile ha un legame particolare con i Beatles e con Lennon. Nel 1980 c’era ancora la dittatura militare con le sue leggi molto restrittive sulla libertà d’espressione, anche se da lì a qualche anno si sarebbe affacciata, dopo un lungo ventennio, una timida democrazia, ovviamente pilotata dai militari. I Beatles, come tutto il rock degli anni Sessanta e Settanta, sono stati la colonna sonora di quella voglia di libertà, uguaglianza, democrazia che permeavano le università brasiliane.

Tra il 1967 e il 1971 furono costretti all’esilio grandi artisti, Caetano Veloso (breve inciso: nel suo bellissimo album del 1975 Qualquer Coisa, rende omaggio ai Beatles, qui Eleanor Rigby), Gilberto Gil (anche lui omaggiò i Fab Four nel 1971 dall’album che porta il suo nome, con una psichedelica Sgt. Peppers Lonely Hearts Club Band), Chico Buarque, l’architetto Oscar Niemeyer, il cineasta Glauber Rocha

In quegli anni bui molti giovani furono uccisi, sparirono, com’era amara e atroce consuetudine nell’America Latina del tempo. Dunque, John Lennon, le sue parole, l’intervista rilasciata ad Andy Peebles per la BBC nell’ultimo fine settimana della sua vita, sono rimaste scolpite nella memoria di quei giovani. John parlò di tutto, Beatles, musica, famiglia, il rapporto con Paul McCartney, ma non tralasciò nemmeno, con la solita sfrontatezza, la sua visione del mondo e della vita. Per quei giovani brasiliani John è stato musica&politica, peace&love, un’opportunità per sognare un mondo diverso, magari più giusto e libero. Sogni infranti…

Walterson Sardenberg – giornalista
Sono nato il 6 luglio del 1957, il giorno in cui John Lennon e Paul McCartney si conobbero. Questo, in qualche modo, mi pare significativo per come i Beatles hanno segnato la mia vita – e non solo in senso musicale. Ma l’influenza di Lennon è andata ben oltre la musica. Molto di più… Soprattutto nel comportamento. Ricordo che, nel 1970, a 13 anni, ho iniziato a usare gli occhiali da vista per una miopia. Per la mia generazione, il portare gli occhiali da vista era un buon motivo per essere bullizzati. I ragazzini e i pre adolescenti con occhiali li chiamavano quatro olhos, quattr’occhi. All’inizio quegli occhiali non li volevo proprio, ma dall’ottico decisi per un paio rotondi con montatura di metallo, come quelli che usava Lennon. Li indossai e non mi importò nulla d’essere preso in giro. Ero orgoglioso di avere gli occhiali di John Lennon. Quando morì ero un giovane reporter del settimanale Manchete, magazine venduto in tutto il Paese. Ero in redazione nel momento in cui arrivò la notizia. Abbiamo acceso il televisore, increduli. Non poteva essere vero. Invece lo era. In quei giorni ascoltavo sempre Double Fantasy che Lennon aveva pubblicato quell’anno. Il disco è fantastico, ma non tutto. C’è una traccia cantata da John e una da Yoko Ono, alternata per tutto l’album. Era una noia alzarmi alla fine di ogni brano di John e sistemare la puntina del piatto sulla traccia successiva saltando quella di Yoko. Sia come sia, ancora oggi penso che quel disco contenga una delle canzoni più belle di Lennon, Watching the Wheels, con un testo che recita il “chissenefrega” di chi critica le nostre abitudini. Un “vaffa” al bullismo di ogni giorno. Ogni tanto metto sul piatto il vecchio vinile per ascoltarlo. E, ovvio, uso ancora gli occhiali di metallo rotondi, old Lennon Style!

Márcio Gaspar – gironalista e scrittore
Era il 1980, come ufficio stampa della casa discografia WEA a São Paulo, ogni giorno ricevevo via fax dal produttore David Geffen le novità sulle registrazioni di Double Fantasy di John Lennon e Yoko Ono. Il flusso di informazioni era aumentato da agosto di quell’anno, quando s’era capito che ci si trovava alle battute finali del lavoro. «Le basi sono pronte, John inizia a mettere la voce definitiva su Watching the Wheels e Woman; “Yoko ha chiesto una base di eco su Beautiful Boy e John partecipa attivamente al mixaggio di tutte le tracce”… Fax dopo fax ci sentivamo sempre più coinvolti. Io in modo particolare, “beatlemaniaco” e “orfano” della musica di Lennon – non aveva fatto uscire nulla negli ultimi cinque anni – vibravo nel sentirmi parte del “giorno dopo giorno” della coppia. Sapevo a che ora uscivano di casa per andare allo studio di registrazione, quando ritornavano nel Dakota Building, persino quando ordinavano cibo in studio. Per tutto ciò, penso che la notizia del terribile omicidio mi abbia colpito ancora più forte di quel che pensavo. Abbiamo ricevuto le prime informazioni, quindi la dolorosa conferma che era morto e persino le prime foto fatte dallo stesso David Geffen. Ho perso un idolo, ho perso un “quasi” amico, ho perso una parte di me, mi sono sentito perso.

Marcelo Spatafora – fotografo

L’8 dicembre del 1980, mio primo giorno di lavoro, mio padre mi aveva dato un passaggio nello studio fotografico a São Paulo con il suo “fusca”, il Maggiolino della Volkswagen, di color verde. Avevo appena acceso la radio, quando ho sentito, dalla voce di Otávio Ceschi, famoso conduttore della Radio Difusora FM, che John Lennon era morto quella notte. Credevo fosse uno scherzo sui Beatles, d’altronde Paul era stato vittima della stessa notizia anni addietro. Purtroppo era la verità, Lennon era stato freddamente assassinato da un fan. Quel giorno sono rimasto chiuso nello studio fotografico e ho pianto… la radio non smetteva di trasmettere musiche dei Beatles e Lennon. Che immensa tristezza…

1980, l’anno del terremoto in Irpinia ma anche…

Il ricordo fa sempre presa. Ricordare fa bene, ti costringe a scavare nelle tue memorie, a ritrovare fatti accaduti che avevi messo in stand by. Oggi tocca al terremoto dell’Irpinia, quei 90 secondi di terrore che nella serata di quella domenica novembrina di calcio, castagne e copertina sul divano, fecero precipitare all’inferno il sud del Paese: 2914 morti, 8848 feriti, 350mila case crollate o seriamente danneggiate.

Sono quarant’anni che è successo. Il 1980 – si potrebbe dire per quasi tutti gli anni, ma in questo caso è più vero che mai – è stato uno spartiacque, un anno dove nel mondo sono successe tante cose importanti. A partire dal terremoto irpino, certo, ma anche in politica estera, nello sport, e soprattutto nella musica.

Mi sono sforzato di ricordare cosa stessi facendo nell’esatto istante della brutale scossa tellurica (è una mia mania-ossessione cercare di ricordare dove mi trovavo in un momento topico, fatto male, lo so…). L’unica ricordo che ho, a parte una colazione silenziosa con i miei amici dell’università la mattina dopo, era il mio walkman regalatomi da pochi mesi che stavo sfruttando al massimo. In quel periodo mi ero fissato con Nero a Metà, disco fondamentale di Pino Daniele (ascoltate A me me piace ‘o Blues), uscito il primo giorno di primavera di quell’anno. Avevo anche la cassetta di Dalla – qui Il Parco della Luna – altro album bellissimo dell’immenso Lucio uscito, se non ricordo male, il 1 gennaio (ai tempi giravo con una coppolina in lana che avevo costretto mia madre, santa donna, a “confezionarmela all’uncinetto” su misura, identica a quella fotografata nella cover dell’album, quest’ultima un bellissimo colpo di genio: Lucio a tutta coppola, con gli occhialini rotondi appoggiati sopra  e quegli occhi che spuntano, interrogativi e vivaci, all’insù).

Ritorniamo al 1980. Sempre il primo di gennaio usciva Seventeen Seconds dei Cure, disco da molti considerato uno dei migliori  della band di Robert Smith, se la gioca con Disintegration del 1989, (qui A Forest). Mentre il 3 vedeva la luce il primo LP dei Pretenders, che portava semplicemente il nome della band, ancora in attività. Vi ricordate la strasuonata Brass in Pocket?. Della formazione originale rimane solo la chitarrista e cantante Chrissie Hynde. I Peetenders hanno publicato un Ep dal titolo 2000 Miles proprio tre giorni fa.

E mentre la band angloamericana scalava le classifiche, Björn Borg furoreggiava a New York vincendo il suo primo ATP Masters Grand Prix di tennis. Salirà sul podio anche in Francia al Roland Garros a giugno e il mese successivo, a Wimbledon, dove disputerà una delle più belle partite della storia del tennis contro John McEnroe. L’americano si rifarà contro Borg agli US Open qualche mese dopo.

Rimbalziamo indietro a gennaio per un attimo: il 16, Paul McCartney, appena atterrato in Giappone, viene arrestato perché trovato in possesso di marijuana. Le cronache narrano che Sir Paul si fece nove giorni di galera, dove suonò per i poliziotti, cancellando – e risarcendo il pubblico – la tournée degli Wings nel Sol Levante…

Intanto la visionaria opera di Roger Water e dei Pink Floyd, The Wall, uscita a fine 1979, scala di prepotenza le classifiche di tutto il mondo (era uno dei nastri che ho consumato a forza d’ascoltarlo!), anche se in Sud Africa, sotto il regime dell’apartheid, a maggio, la seconda parte dell’album, quella che conteneva Comfortably Numb, per intenderci, viene bandita perché incitava alla rivolta.

E mentre Egitto e Israele si scambiavano gli ambasciatori iniziando per la prima volta le relazioni diplomatiche il 26 febbraio, dopo la firma del trattato di pace avvenuta 11 mesi prima, il 27 Billy Joel vince il Grammy Award per 52nd Street, album del 1978, vi ricordate Honesty, Rosalinda’s Eyes, My Life, Big Shot…?

In Italia, il 9 marzo Edoardo Bennato riempiva gli scaffali dei negozi con Sono solo Canzonette, uno dei suoi lavori più fortunati. La storia di Peter Pan fa presa. Come dimenticare L’Isola che non c’è?

Volando oltremanica, il 14 aprile usciva il primo album di un gruppo che diventerà leggenda per i metallari di tutto il mondo, quello degli inglesi Iron Maiden che si conquisteranno a suon di riff estremi e generosi il trono dell’heavy metal. Copertina d’effetto dell’illustratore inglese Derek Riggs, che seguirà la band fino al 1990 creando una sorta di storia a fumetti dark che farà la fortuna commerciale della band. Ascoltate Phantom of the Opera.

Il 1980 è anche l’anno della morte di Josip Broz, il maresciallo Tito, avvenuta il 4 maggio: l’uomo che aveva tenuto insieme la Jugoslavia dal 1953 spariva lasciando un paese che nel giro di pochi anni si farà a pezzi, un’autodistruzione programmata. Sempre per la cronaca, il 24 giugno un  DC-9 della Itavia in servizio tra Bologna a Palermo con 81 persone a bordo cade nelle acque vicino a Ustica. Tutti morti. Dopo anni e anni di indagini, nessun colpevole ma una certezza quasi acclarata: il DC-9 si era trovato nel mezzo di una battaglia tra aerei libici e Nato. Per l’Italia non finisce qui: il 2 agosto scoppierà la bomba alla stazione di Bologna. Un’altra strage: 85 persone rimangono uccise e duecento ferite. L’incubo dell’eversione nera collegata a elementi deviati dello Stato si ripresenta dopo la bomba alla Banca Nazionale dell’Agricoltura di Milano (1969), quella di piazza della Loggia a Brescia e l’altra sul treno Italicus (entrambi 1974).

Rimanendo tra chitarre “cattive”, bassi e batterie, il 25 luglio segna l’uscita di un altro incredibile disco rock, uno dei più famosi – venderà oltre 50 milioni di copie: è Back in Black degli AC/DC (ne ho parlato in un recentissimo post scritto in occasione dell’uscita di Power Up, il nuovo disco).

E veniamo a settembre. Il 20 Ozzy Osbourne pubblica il suo primo album da solista, Blizzard Of Ozz, quest’anno, manco a dirlo, è uscita una “Expanded Edition”. Quel disco, dopo lo scazzo con i Black Sabbath e la sua profonda depressione, è il lavoro della rinascita del “morsicatore di pippistrelli”, in gran vena creativa grazie anche a una band di tutto rispetto: il chitarrista Randy Rhoads (ex Quiet Riot), il batterista Lee Kerslake (ex Uriah Heep) e il bassista e paroliere Bob Kerslake (ex Rainbow). Una per tutte, certamente autobiografica: Crazy Train.

Il 23 è un’altra data da ricordare per chi ha vissuto un certo tipo di eroi epici: Bob Marley tiene con gli Wailers il suo ultimo concerto dal vivo allo Stanley Theater di Pittsburg, in Pennsylvania, dopo aver pubblicato, il 10 giugno, il suo ultimo album, Uprising. Morirà l’11 maggio del 1981.

Il 25 un lutto scuote e getta nella disperazione il mondo della musica: muore John Bonzo Bonham, il formidabile batterista dei Led Zeppelin, un’overdose alcolica, soffocato nel suo vomito. Tre mesi più tardi, il 4 dicembre, la band annuncia che si ritirerà dalle scene…

Passiamo a ottobre: il 17 i Dire Straits pubblicano Making Movies, album romantico e geniale, che permette a Mark di esprimere al meglio la sua creatività e bravura. Contiene alcune tra le canzoni più fortunate di Knopfler e soci, da Tunnel of Love a Romeo and Juliet. In Inghilterra rimane in classifica per 252 settimane consecutive, mentre nel nostro Paese fa il botto: oltre un milione di copie vendute, sarà l’album più gettonato del 1981.

Invece, il 24 John Lennon pubblica la sua (Just Like) Starting Over, primo singolo in preparazione dell’album Double Fantasy in uscita a firma anche di Yoko Ono il 17 novembre. Il 4 dello stesso mese si terranno le elezioni americane. Il mondo vedrà arrivare alla Casa Bianca un ex attore hollywoodiano: inizia l’era di Ronald Reagan che vincerà surclassando Jimmy Carter (in carica). Il mondo si avvia verso una nuova fase… ma qui è tutta un’altra storia…

Consoliamoci con John Lennon!

Dunque, Joe Biden ce l’ha fatta. Donald Trump non vuole riconoscerne la vittoria e non molla l’osso, anche se la sua cheerleader italiana ha cambiato repentinamente mascherina. C’è una lieve flessione di contagi Covid nell’Italia del nuovo Lockdown e dei nuovi colori… anzi no, mi correggo, siamo ancora in risalita (chi ci capisce qualcosa è davvero bravo…). Il mondo del calcio è praticamente in bancarotta e dopo due anni di indagini sul crollo del ponte Morandi sono finiti agli arresti domiciliari gli ex top manager di Aspi…

In questo strano momento dove i fatti si accavallano nuotando come ectoplasmi nella bolla pandemica, abbiamo bisogno più che mai di “far fuggire” la mente. Tra meno di un mese ricorrono i quarant’anni dall’assassinio di John Lennon, che il 9 ottobre scorso avrebbe raggiunto il traguardo delle 80 primavere. Proprio con Lennon vorrei chiudere questa giornata – almeno a Milano – grigia e umida con un sole malaticcio che stenta a uscire.

Vi propongo cinque brani dell’ex Beatles, da riascoltare quando vi sentite smarriti dalle news e dal mondo…

Instant Karma! Why in the world are we here? Surely not to live in pain and fear 

Mother Mother, you had me but I never had you/ I wanted you,/ You didn’t want me/ So I, I just got to tell you/ Goodbye goodbye

Isolation We’re afraid of everyone / Afraid of the sun/ Isolation/ The sun will never disappear/ But the world may not have many years/Isolation

Gimme Some Truth All I want is the truth / Just gimme some truth / I’ve had enough of reading things / By neurotic, psychotic, pig-headed politicians / All I want is the truth

Mind Games Love is the answer/ And you know that, for sure/ Love is the flower/ You gotta let it, gotta let it grow

Perché i regimi hanno paura della musica?

Frame da Il “Grande Dittatore”, film di Charlie Chaplin (1940)

Le recenti elezioni in Bielorussia, dove il sessantacinquenne Aleksandr G. Lukashenko, al potere da 26 anni, s’è garantito la sesta rielezione, secondo osservatori internazionali e oppositori con brogli elettorali, intimidazioni, arresti e l’oscuramento del web, mi hanno fatto riflettere. Che rapporto c’è tra dittatura e musica? In effetti, quella della Bielorussia è l’unico regime totalitario rimasto nella cara vecchia Europa, almeno così sostengono convinti gli Stati Uniti. Ci sarebbe da discutere al proposito…

Non andiamo a invadere campi che non ci appartengono. Sul rapporto tra dittature e musica ci sono saggi su saggi, anche molto interessanti, soprattutto sul rapporto tra quest’arte e il Nazismo e Fascismo. La musica è troppo destabilizzante per chi deve detenere con pugno di ferro un potere fine a se stesso, con l’alibi del bene del popolo. È risaputo che il Nazismo, che predicava la purezza della razza e, dunque, anche delle maggior espressioni artistiche di un popolo, aborriva il jazz, musica di neri, inascoltabile per un orecchio predestinato alla perfezione, anche se nei campi di concentramento il jazz, per chi soffriva, era una ventata di resistenza. Il Fascismo aveva i suoi aedi, che hanno partorito canzoni decisamente imbarazzanti, intrise di quel semplicistico ornato di parole ridondanti, slogan da grande impero privi di contenuti… Poi sappiamo come sono andate (fortunatamente per noi!) le cose. Rileggetevi i testi di queste preziose perle trasposte in musica, da Faccetta Nera a Me ne Frego! a Vincere Vincere Vincere. Mi permetto la prima strofa di quest’ultima: Temprata da mille passioni La voce d’Italia squillò! “Centurie, coorti, legioni, In piedi chè l’ora suonò”! Avanti gioventù! Ogni vincolo, ogni ostacolo superiamo! Spezziam la schiavitù Che ci soffoca prigionieri nel nostro mar! Non vi tedio oltre.

Venendo a tempi più recenti, anche durante il ventennio di dittatura brasiliana, tanto cara al presidente attuale, Jair Bolsonaro, la musica è stata vista come un pericoloso nemico da combattere. Caetano Veloso, Gilberto Gil, Chico Buarque, ma anche il regista Glauber Rocha oltre a politici e sindacalisti, furono costretti all’esilio. Ascoltatevi Cálice di Chico Buarque e di quel geniaccio incredibile di Milton Nascimento (Pai, afasta de mim esse cálice, Pai, afasta de mim esse cálice, Pai, afasta de mim esse cálice, De vinho tinto de sangue… Padre allontana da me questo calice, Padre, allontana da me questo calice, Padre, allontana da me questo calice, di vino rosso di sangue…), oppure Alegria Alegria di Caetano Veloso, diventati must della musica popolare brasiliana (MPB). Di canzoni simbolo contro poteri e strapoteri anche nelle nostre democrazie ce ne sono molte. Pensiamo a The Revolution Will Not Be Televised (1971) di Gil Scott Heron (di cui vi ho già parlato in questo post) o a Imagine (sempre 1971) di John Lennon, ma anche a God Save The Queen (1977) dei Sex Pistols, a Rock in The Casbah (1982) dei Clash, a Sunday Bloody Sunday (1983) degli U2; e ancora, a Killing in the name (1992) dei Rage Against The Machine, a Idioteque (2000) dei Radiohead o a Psycho (2015) dei Muse.

Frame da “Psycho” – Muse

Torniamo a Lukashenko: la musica fa così tanta paura che l’apparato del governo si prende la briga di ascoltare e leggere tutto (come d’altronde faceva il Minculpop, nel periodo fascista, e fa ogni dittatura oliata) per poi mettere il “visto… si ascolti”. Molte canzoni sono state “tagliate” in modo pretestuoso: testi troppo banali, o non convenienti, o inneggianti alla violenza, non adatti al fiero popolo d’appartenenza… Ne sa qualcosa, per esempio, Siarhei Mikhalok, il frontman della band punk-rock Lyapis Trubetskoy (qui con Kapital) e l’altra da lui  sempre fondata, anarco-rock, Brutto (qui con Giri). Dopo un esilio dai palchi del suo Paese, Mikhalok è potuto rientrare quattro anni fa, apparentemente libero ma… guarda caso i concerti o non potevano tenersi, o venivano rinviati per qualche problema.

La musica fa davvero paura: scuote gli animi, fa riflettere, invita a guardare un altro mondo possibile.

E chiudo: noi, che abbiamo la fortuna di vivere in Paesi dove si può criticare anche aspramente senza il timore di sparire o venire arrestati o esiliati, sappiamo usare questo dono immenso che è la libertà? L’abitudine, spesso gioca brutti scherzi. Non dovremmo mai dimenticare Giorgio Gaber e la sua La Libertà: «La libertà non è star sopra un albero/ Non è neanche il volo di un moscone/ La libertà non è uno spazio libero/Libertà è partecipazione». Pensiamo ai tanti, troppi Lukashenko ancora in giro  – e brutalmente attivi – sparsi nel mondo, pensiamo alla nostra facilità d’espressione che, per ossimoro, troppo spesso diventa difficoltà di esprimersi, pensiamo alla musica, un’arte così immensa e forte da intimorire il forte di turno. Basta, la finisco qui.

Riflessioni/ Beatles? Forever and ever… and everyday

Dieci anni in cambio dell’immortalità, dal 1960 al 1970. È questo il patto che i Beatles devono aver fatto con il dio della musica quando, da anonimi ragazzi di Liverpool sono diventati il gruppo più famoso della storia della musica. Certo, i Rolling Stones, altri immortali in azione dagli anni Sessanta, sono ancora sul palco. Loro invece come band si sono disintegrati all’apice della popolarità – storie, leggende, donne, rancori, investimenti sbagliati, carriere soliste, metteteci tutto quello che volete.

Eppure, grazie alla loro popolarità per i milioni di fan nel mondo è come se il ritiro dalle scene in formazione Fab4 non fosse mai successo. I Beatles sono i Beatles, sempre lì, immortali, presenti come band ancora attiva nell’immaginario collettivo. Poi ci sono Paul McCartney, John Lennon, George Harrison, Ringo Starr, altre storie. Sono ovunque, addirittura trasformati in fumetti (come testimonia il bel libro, uscito nel 2010 per Skyra, firmato da Enzo Gentile e Fabio Schiavo, Beatles a FumettiI). 

Mi è capitato di osservare uno dei tanti siti aggregatori di notizie. Uno di questi, thisdayinmusic.com, con sede a Prestatyn, località balneare gallese che si affaccia sulla baia di Liverpool a una settantina di chilometri dalla città di MacCartney&Soci, riporta i fatti salienti accaduti nel mondo della musica (rock e pop) negli anni per ogni giorno dell’anno. La cosa incredibile, non perché gli autori del sito siano un po’ di parte, visto lo stesso luogo di provenienza della band, è che per ogni giorno dell’anno sono segnalate una o più notizie sui Beatles. Mi sono divertito a prendere la settimana in corso, da domenica 7 a domenica 14 giugno. Qui la “Beatlescronologia”. Divertitevi!

07/06/1964 Primo tour mondiale, i Beatles partono da Amsterdam diretti a Hong Kong. L’aereo si  ferma a Beirut per rifornimento di carburante. Centinaia di scatenate/i fan invadono la pista. I quattro autografano gli album, ma poi alcuni tentano di salire nell’aereo, la polizia cerca di contenerli con la schiuma antincendio.

08/06/1967 Sgt Pepper’s Lonely Hearts Club Band si posiziona al primo posto nelle vendite del Regno Unito e ci resterà per 27 settimane. Per registrare l’album, la cui produzione è costata 25mila sterline (l’equivalente di 42.500 dollari), ci sono volute più di 700 ore di studio. Particolarità: l’album per la prima volta contiene i testi delle canzoni stampati nella busta interna.

09/06/1963 L’ultima data del tour con Roy Orbison. I Beatles si esibiscono nella King George’s Hall, a Blackburn, Lancashire. È in questo tour che i fan dei Beatles iniziano a lanciare gelatina sul palco. Il motivo? George Harrison, in un’intervista televisiva, aveva dichiarato di esserne goloso.

10/06/1964 Da Hong Kong, tre giorni dopo l’“assalto” di Beirut, i Fab4 volano verso l’Australia. Dopo una sosta non programmata a Darwin, dove oltre 400 “fedeli seguaci” salutano il loro aereo, i Beatles atterrano a Sydney, nel mezzo di un violento acquazzone. Salgono su un camion scoperto per salutare i mille fan.

11/06/1969 I Beatles vanno al numero Uno della classifica dei singoli britannici con The Ballad Of John and Yoko, diciassettesimo primo posto nel Regno Unito della band. Gli unici due Beatles che suonano in studio sono John Lennon e Paul McCartney.

12/06/1965 I Beatles entrano nella lista delle onorificenze per per ricevere l’MBE  – Member of the Order of the British Empire – in occasione del compleanno della Regina Elisabetta (verranno insigniti a ottobre). Le proteste arrivano a Buckingham Palace: il deputato canadese Hector Dupuis, anche lui candidato, sostiene che la famiglia reale britannica lo ha messo allo stesso livello di un gruppo di volgari ignoranti…

13/06/1964 Torniamo al primo tour mondiale: i Beatles si esibiscono in altri due spettacoli al Centennial Hall, Adelaide. Per i quattro spettacoli previsti ci sono 12mila biglietti disponibili, contro una richiesta di pubblico di 50mila. I due concerti di questo giorno sono stati gli ultimi del batterista Jimmy Nicol, nel ruolo di Beatle temporaneo, in sostituzione dell’ammalato Ringo Starr. Sempre il 13 giugno ma del 1970, la band inizia due settimane al top della classifica dei singoli Usa con The Long And Winding Road, loro ventesima numero Uno negli States. Lo stesso giorno l’album Let It Be (dodicesimo e ultimo della band) sale al primo posto nella charts degli album Usa più venduti.

14/06/1963 Durante un tour nel Regno Unito, i Beatles suonano alla New Brighton Tower di Wallasey (non esiste più…) con il gruppo di supporto dei Gerry and the Pacemakers, band di Liverpool. I biglietti costano appena 6 scellini. Tra il 1961 e il 1963 si esibiranno qui per 27 volte.