1971, l’anno in cui la musica ha cambiato tutto: da vedere!

Mi sono assaporato 1971, The year that music changed everything, la docuserie di Asif Kapadia trasmessa da Apple Tv+. Racconta, senza tesi né costruzioni, ma con filmati – molti di questi mai visti prima – e testimonianze – mai in camera – un anno determinante per la musica, uno spartiacque tra il prima e il dopo, nel quale si sono concentrati una serie di eventi tragici, dolorosi ma anche spettacolari e dove la musica ha fatto da collante, indicando ai giovani di allora nuove strade, un nuovo mondo possibile.

Ispirato a 1971, Never a Dull Moment, libro uscito nel 2016 del critico inglese David Hepworth, pubblicato in italiano da Sur (collezione BigSur con il titolo 1971, L’anno d’oro del Rock), la docuserie riporta con immagini e tanta musica quello che in sostanza Hepworth sostiene su quel fatidico 1971: «il più febbrile, creativo e lungo anno di quell’epoca».

Infatti, di cose ne sono successe, e tante. Con una premessa simbolica dal punto di vista musicale: il 1971 è stato il primo anno senza i Beatles. Infatti, il capitolo iniziale della serie – è anche il più lungo – si sofferma sull’eredità musicale dei Fab Four, sulla politica degli anni Sessanta e sul perché i Settanta siano stati così dirompenti. Dal punto di vista sociale è stato rappresentato –  e giustamente – raccontando la cronaca dei fatti successi all’università di Ken State nell’Ohio: la morte di quattro studenti e il ferimento di altri nove da parte della Guardia Nazionale, durante le proteste contro la guerra in Vietnam. Neil Young dedicò all’accaduto una canzone, Ohio (famosa l’esibizione live al Massey Hall di Toronto nel 1971, dalla quale ne uscì un disco pubblicato soltanto nel 2007).

In otto capitoli per un totale di sei ore1971 sembra più la cronaca di un decennio che di un anno solo. Negli Usa governava Richard Nixon, la guerra in Vietnam continuava a essere la spina nel fianco per il presidente e l’establishment, il “make love not war” dei figli dei fiori era tramontato, sia in musica sia nei fatti, l’America stava facendo i conti con il Black Power, una radicale presa di coscienza diventata lotta di resistenza degli afroamericani; anche le donne iniziavano a rompere quell’apparente, melenso, status quo che prevedeva il marito al lavoro e le mogli devote, tutte casa e pulizia. In questa rivoluzione c’era pure la sentenza di Charles Manson e delle sue adepte assassine per i fatti di Cielo Branco e l’esperimento della prigione di Stanford: un gruppo di psicologi, diretto dal prof. Philip Zimbardo, simulò la vita in un carcere americano in tutto e per tutto. Il test doveva durare 15 giorni, si concluse dopo appena cinque giorni perché i volontari, studenti che simulavano prigionieri e carcerieri, dettero di matto. Sempre nel ’71 l’Orgoglio Gay iniziava a prendere forme organizzate. In mezzo a tutto questo fermento sociale e politico c’era una maggioranza silenziosa che assisteva attonita alla nascita di una controcultura giovanile che demoliva, come martelli pneumatici, le consolidate fondamenta sociali sia negli States sia in Europa.

E la musica regnava sovrana: uno strumento consapevole di questa rivoluzione che Gil Scott Heron riassunse in un brano storico The Revolution Will Not Be Televised – è anche il titolo del quinto episodio della serie – e nella meno conosciuta No Knock e Sly & the Family Stone con un altrettanto esplicito There’s a Riot Goin’ On. La musica come filo conduttore, catalizzatrice del cambiamento in atto. Ed ecco John Lennon, Bob Dylan e Marvin Gaye che arrivano dagli anni Sessanta con un rinnovato impegno politico: Marvin pubblica nel ’71 What’s Going On, che poi Rolling Stone eleggerà disco rock più bello di tutti i tempi. C’è la coscienza delle ingiustizie sociali, di un mondo inquinato, di un establishment corrotto e arroccato. Vi viene in mente qualcosa? Aretha Franklin raccoglie fondi e paga la cauzione all’attivista per i diritti civili Angela Davis, Bill Whiters irromope con la sua Ain’t No Sunshine

Nella narrazione, a filmati e brani musicali di pregio si alternano spezzoni di televisione dell’epoca, importanti per inquadrare il momento storico: dal reality rivoluzionario An American Family a Soul Train, il primo spettacolo televisivo dove gli afroamericani conquistano quell’affermazione musicale tanto cercata.

C’è un capitolo dedicato anche alla droga, l’eroina che consumava Sly Stone e faceva morire Jim Morrison a Parigi, mentre in una lussuosa villa in Provenza i Rolling Stones, fuggiti dal fisco inglese e poi incappati nella mafia marsigliese per colpa della droga, cercavano di registrare un disco, Exile On Main St., che poi diventerà un caposaldo della loro produzione, in una spirale di eroina, anfetamine e alcool di immani proporzioni. Ne parla sopra le immagini il giornalista di Rolling Stone Robert Greenfield, all’epoca al seguito della corte di Keith Richards e soci.

Si sperimenta tanto perché il ’71 è anche l’anno della tecnologia. Arrivano i primi strumenti elettronici, Pete Townshend degli Who ne viene attratto, li studia e li usa – vedi Baba O’Riley. Mentre Alice Cooper sperimenta un rock “visivo” con performance crude (vedi la sua impiccagione…), Marc Bolan frontman dei T.Rex getta le basi del primo Glam Rock. Un giovane David Bowie studia Cooper e si prepara a diventare il mito frequentando la Factory di Andy Wharol. E poi Lou Reed e Iggy Pop, ma anche, a Berlino, i mitici Kraftwerk

E ancora: la musica che unisce anche chi la pensa in modi opposti, vedi i primi skinheads inglesi e i giovani di origini afro che ascoltavano – e suonavano – il reggae di Bob Marley and The Wailers. Il 1971 vede anche la nascita dei cantautori che si sostituiscono nel gradimento dei giovani alle band, vedi Carol King con Tapestry, Joni Mitchell con Blue, Elton John che fa esplodere il Troubadour di Las Vegas nella sua prima tournée americana, Ike e Tina Turner che, assieme agli Staple Singers e ad altri grandi nomi dell’epoca vengono invitati a esibirsi ad Acca, in Ghana, al Soul to Soul Festival per celebrare il 14esimo anniversario della repubblica. E ancora: George Harrison che, il primo di agosto, organizza al Madison Square Garden di New York il mitico concerto benefico per il Bagladesh…

È necessario vederlo, vi assicuro. Perché, oltre all’importanza storica e anche al legame che unisce quella musica che prendeva forma e quella che verrà negli anni seguenti (non a caso l’immagine finale è quella di Billie Eilish), noterete un parallelo con la situazione attuale. Non per la musica, certo che no! Quello resta un anno irripetibile, ma per i problemi sociali e politici. Negli States gli afroamericani protestano ancora per gli abusi e le violenze, i soldati vengono ritirati dopo 20 anni dall’Afganistan (allora si chiamava Vietnam), l’orgoglio gay è più che mai necessario (guardate in Italia le discussioni e l’iter travagliato per approvare la legge sull’omotransfobia), le donne continuano a lottare per le discriminazioni e le violenze, il pianeta è mezzo moribondo per colpa nostra, la tecnologia ci fa del bene, ma a che prezzo… Paralleli nemmeno troppo nascosti. Speranze, ambizioni, frustrazioni si ripetono. Guardatelo con questi occhi e vi renderete conto dell’immobilità del tempo: sono passati 50 lunghi anni e i problemi sono praticamente gli stessi…

Fleetwood Mac and Friends: è on line “Albatross”

Il prossimo 30 aprile uscirà un disco “imponente” per chi ama il rock anni Sessanta e Settanta. La storia in musica dei primi Fleetwood Mac con il sommo Peter Green: Mick Fleetwood and Friends Celebrate The Music Of Peter Green And The Early Fleetwood Mac (Live from The London Palladium).

Il disco è la registrazione di un concerto che si è tenuto il 25 febbraio 2020, pochi giorni prima che il Covid si impossessasse del mondo, con un sold out di biglietti e un parterre di musicisti sul palco da far venire la pelle d’oca: Neil Finn, Noel Gallagher, Billy Gibbons, David Gilmour, Kirk Hammett, John Maya, Christine McVie, Jermey Spencer, Zack Starkey, Pete Townshend, Steven Tayler, Bill Wyman, oltre a Mick Fleetwood, Dave Bronze, Jonny Lang, Andy Fairweather Low, Ricky Peterson e Rick Vito.

Ieri è stato rilasciato il terzo brano (e video) del concerto, dopo The Green Manalishi (With The Two Prong Crown) cantata e suonata da Billy Gibbons dei ZZ Top e Kirk Hammett, chitarrista dei Metallica (pubblicata in anteprima nel dicembre del 2020) e Rattlesnake Shake, cantata da un ispirato Steven Tayler, rilasciata il 25 febbraio di quest’anno. Si tratta di un pezzo strumentale del 1968 che, se non riassume, di certo identifica, la band britannica e Green: Albatross, suonato da David Gilmour sulla lap steel guitar, con un effetto ancora più meditabondo e carico d’emozione, postpsichedelico. Peter Green non c’era sul palco quel 25 febbraio. Il 26 luglio morirà nel sonno a 73 anni. Un motivo in più per rendere omaggio a un grande del rock e del blues.

Il 24 aprile, via nugs, verrà trasmesso l’intero concerto in streaming, mentre il 30 sarà disponibile sulle piattaforme digitali e nei negozi il disco live.

La musica appartiene anche ai sordi

Sean Forbes, frame da “I’m Deaf”

La musica è per tutti? Mi spiego: la fruibilità di centinaia di migliaia di brani, ritmi, voci, pazzie e genialità da rockstar sono un patrimonio a cui ciascuno può attingere? Tecnicamente sì, basta avere un supporto abilitato, dallo smartphone alla banale e ormai introvabile radiolina, al mega impianto analogico o al super diffusore digitale per goderne. Fisicamente però ci sono delle limitazioni. Le persone che soffrono di disfunzioni uditive, sordità dalla nascita o per malattia, apparentemente sono tagliate fuori dal circuito melodico. Giusto? No sbagliato, completamente fuori strada. I sordi possono percepire la musica e anche farla.

Certo, in un altro modo, ma la musica si sa, oltre alla “nuda sequenzialità” delle note è emozione, anima, vita. Ognuno la declina e la percepisce in modo diverso. Tralasciando il sordo più famoso della storia della musica, Ludwig van Beethoven, ci sono molti esempi di artisti che “sentono” la musica, si esprimono con questa e ne hanno fatto il loro lavoro, a parte i vari Eric Clapton, Pete Townshend, Ozzy Osbourne, Neil Young, che hanno perso l’udito a causa della longeva quanto dura attività tra palchi e sale d’incisione colpiti da decibel assordanti.

Ma come può fruire della musica una persona che appartiene alla comunità dei sordi? I mezzi ci sono, la scienza sta facendo ottimi progressi. Da alcuni anni l’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) promuove la Giornata Mondiale dell’Udito, il 3 marzo – da tenere a mente, un bambino su mille nasce sordo -, l’occasione perché anche la stampa non specializzata possa parlare dei progressi fatti, ad esempio, con gli impianti cocleari, per le sordità profonde. Un “orecchio elettronico” che richiede un percorso di riabilitazione post operatoria anche per la percezione della musica, veri e propri training musicali fatti in strutture specializzate.

Ignazio Salvatore Samannà, interprete e traduttore professionale LIS

«I sordi essendo tali, affinano gli altri sensi, imparano ad ascoltare con la vista, il tatto, alla stregua dei ciechi che si affidano a udito, tatto e olfatto. Percepiscono vibrazioni che noi, non abituati, nemmeno avvertiamo». A spiegarlo è un tiflologo, interprete e traduttore professionale LIS. Si chiama Ignazio Salvatore Samannà, Salvo per gli amici, ha 41 anni e vive a Trapani ed è socio ANIMU, Associazione Nazionale Interpreti Lingua dei Segni Italiana. LIS è l’acronimo di Lingua dei Segni Italiana. Questa ha una sua struttura e sintassi, solo che per parlarla, anzi, segnarla, usa canali visivi e gestuali. È stata una delle prime lingue nate e strutturate per i sordi e paradossalmente, l’Italia, come spiega lo stesso Salvo, «è l’unico Paese europeo che non l’ha ancora riconosciuta come tale».

Vabbè, i paradossi non sono una novità in questo Paese. Sta di fatto che, grazie agli interpreti e traduttori di questa lingua, il mondo dello spettacolo e della musica si sta aprendo sempre di più alla comunità dei sordi. L’ultimo festival di Sanremo ha avuto uno spettacolo nello spettacolo, a Roma, in uno studio Rai è stato allestito un festival LIS, il Sanremo 2020 LIS, che si sovrapponeva, grazie ai “magheggi” tecnologici oggi possibili – passatemi il termine senza darmi addosso! -, al vero festival. Così i sordi non solo hanno potuto “ascoltare” ciò che veniva detto, ma anche apprezzare le canzoni in gara. Non lo sapevo, Salvo mi ha invitato ad andarmi a vedere il dietro le quinte che vi linko qui. Fatelo anche voi perché è strano, entri in un mondo che nemmeno pensavi esistesse (tutto ciò che non ci tocca tendiamo a trascurarlo o a dichiararlo inesistente).

«Chi aveva iniziato per prima tanti anni fa a dare questo servizio è stata Mediaset a Rete 4», continua Salvo, «Esperimento poi abbandonato, perché probabilmente troppo costoso». Ma torniamo alla musica: «È stato tradotto anche il concerto del Primo Maggio e, qualche giorno prima è stato riproposto in forma interamente accessibile al pubblico italiano il concerto-evento del 2014 che segnò il debutto televisivo di Laura Pausini Stasera Laura! Ho creduto in un sogno», spiega sempre il nostro esperto. Ci sono performer che, attraverso la LIS e marcando bene il ritmo con appositi movimenti del corpo, riescono a trasmettere il significato di quella canzone. Ovviamente si specializzano: chi in musica classica, chi in rap, chi nel pop o rock. Ancora Salvo a venirci in aiuto: «Siamo in un momento di concitazione e di scoperta della Lingua dei Segni come strumento di integrazione e accessibilità». Ma non è un mestiere che s’improvvisa: «Per questo è fondamentale rivolgersi e affidarsi a veri professionisti del settore, riconosciuti da una legge, la 4 del 2013, proprio a tutela dei fruitori finali». In Inghilterra, per esempio, c’è un’organizzazione benefica fondata da un pianista cieco, Danny Lane, che si chiama Music and the Deaf, creata apposta per avviare i bimbi sordi al piacere della musica suonata e “ascoltata”.

Evelyn Glennie – frame video

Dunque, sempre Salvo mi rende edotto, i sordi percepiscono le vibrazioni. E da qui si parte: «Nei concerti forniamo al pubblico un palloncino gonfio d’aria che va tenuto tra le mani. Il suono che esce dalle casse produce vibrazioni che, in base all’intensità, si propagano sul palloncino: «Attraverso le mani si avverte il ritmo, la forza. Aggiunto all’interprete che sta sul palco che segna i testi accentuando il significato dello stesso con i movimenti del corpo, la musica nel suo insieme prende forma per la persona sorda. In più, il sordo leggendo con la vista, oltre al segnare del traduttore, rileva i giochi di luce, il modo in cui i musicisti si muovono sul palco, il pathos, la rabbia, la tristezza… così il brano si “materializza”». Ciascuno, poi, elabora la musica come l’ha assorbita in base a questi stimoli.

A proposito di ritmo, c’è una bravissima percussionista scozzese, Evelyn Glennie, profondamente sorda da quando aveva 12 anni, ha suonato con Björk, Elton John e Sting, per citarne alcuni, ha all’attivo molti album, soprattutto collaborazioni, e un mare di performance in giro per il mondo. Suona scalza, per percepire meglio le vibrazioni, il suo corpo le assorbe e lei le sente (ascoltatela in questo interessante TED di qualche annetto fa, o nella recentissima lezione sulla diversa percezione del suono di un tamburo). Un esempio della usa musica lo trovate qui.

Brazzo – frame video

Come Evelyn anche altri musicisti “deaf” usano la musica per divulgare il loro modo di sentirla e, dunque, suonarla. Il rap è uno dei generi preferiti dagli artisti sordi perché già molto fisicamente espressivo di suo. In Italia ha acquistato una certa fama Francesco Brizio, nome d’arte Brazzo, un tarantino, a Milano da una decina d’anni, figlio di sordi e sordo dalla nascita che, aiutato da una brava amica logopedista, riesce a rappare in modo estremamente fluido ed efficace. Nel 2016 si fa conoscere con Sono sordo mica scemo, l’ultima sua uscita è a Italia Got’s Talent di quest’anno con un inedito Volere è Potere, che ha mandato in sollucchero i giudici.

Altro rapper, ma oltreoceano è Sean Forbes, nato 38 anni fa a Detroit, la città di Eminem, e sordo da quando aveva un anno d’età. Proprio grazie a Eminem riesce a pubblicare I’m Deaf (Sono Sordo), l’Ep di debutto nel 2010. L’ultimo lavoro l’ha pubblicato a febbraio di quest’anno e si intitola Little Victories (Piccole Vittorie). Sean oltre a essere un artista è anche in un attivista per la causa dei non udenti.

Vale la pena citare un’altra artista, americana di Cincinnati, Mandy Harvey, 32 anni, diventata sorda per una malattia a 18 anni. Mandy ha sempre studiato musica, fin da piccola. Adora cantare jazz ma non disdegna il pop, ha frequentato il conservatorio e, quando le hanno detto che forse non sarebbe più riuscita a cantare né suonare, ha raddoppiato la sua volontà e passione per la musica. Ascoltatela in un brano dei Radiohead (già presentato) ma contenuto nell’ultimo album rilasciato lo scorso anno dal titolo Nice To Meet You: la dolcissima Creep. A voi il giudizio!