Franz Campi, il teatro-canzone e quel Sentimento prevalente

Oggi voglio tornare sul teatro-canzone. Genere che ha un suo perché: musica, creatività e recitazione sono una delle classiche forme di intrattenimento, probabilmente la più antica. Vi ho  già parlato di alcuni artisti che – vedi Roberta Giallo, Sergio Malpelo Gaggiotti, Rossella Seno, o anche Paolo Fresu – lo propongono in modo intelligente. C’è anche un altro musicista che ne ha fatto lo scopo della propria vita creativa. È un bolognese, 60 anni freschi di festeggiamenti, una verve da ragazzino e un’ironia schietta, contagiosa. Il suo nome? Franz Campi.

Un artista “regionale” come si definisce, visto che per lo più lavora nella sua terra, l’Emilia Romagna. Uno che è tante cose, comunicatore, organizzatore di eventi, attore, conduttore radiofonico e televisivo e, soprattutto, musicista. È riuscito a portare il suo spettacolo su Fred Buscaglione persino in Galles, ha partecipato nel ’93 alle selezioni di Sanremo Giovani (che passò) e nel ’94 al festival («che esperienza…»); tra le tante operazioni culturali messe a punto, s’è inventato pure la Premiata Palestra Atlas per muscoli del cervello, concorso per nuovi poeti… «visto il successo, alcuni concorrenti si montarono la testa e finì a schiaffi e pugni… alla faccia delle anime gentili…», scherza.

Il 19 novembre del 2021 è uscito un suo album dal titolo Il Sentimento Prevalente, 12 canzoni  firmate con Davide Belviso, che parlano della complessità del mondo, della pandemia, della violenza, dello scordarsi del passato, del ripetersi inutile della storia. Brani caustici, Venda l’Oro, appassionati, Lettera di un condannato a morte della Resistenza, ironici, Ridateci Fellini, o Stammi bene… In mezzo a tutto questo caos organizzato c’è un inguaribile ottimista che guarda il vorticar delle cose, le annota con la precisione di un notaio e la consapevolezza di essere altro da questo modo di vivere.

Eccoci qua, Franz! Come ti definisci: artista, cantautore, attore di teatro-canzone, organizzatore, conduttore, hai un programma televisivo, che parla di Green, Zorba, arrivato alla terza stagione…
«Sono fondamentalmente un comunicatore, mi piace raccontare, coinvolgere la gente, se riesco, con un sorriso e un filo di ironia. È la mia cifra stilistica principale. Lo faccio attraverso diversi canali, quello che mi affascina di più è certamente la musica, essere un musicista».

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E il teatro-canzone?
«Se vuoi vivere di dischi, o vai in cima alle classifiche o devi lasciar perdere! Quindi, una quindicina di anni fa ho deciso di dedicarmi al teatro-canzone. Ho iniziato con un tributo a Giorgio Gaber (Ciao Signor G.!), poi sono passato a Fred Buscaglione (Sono Fred, dal whisky facile): pensa, quest’anno sono undici anni di repliche…».

A proposito come sei finito in Galles con Fred?
«L’ho portato un po’ ovunque, in Svizzera e, sì, anche in Galles, dove nessuno lo conosceva! È stato uno di quei cortocircuiti della vita: un gallese che stava aprendo uno studio di registrazione e che aveva fatto l’Erasmus a Torino, s’era innamorato di Buscaglione a tal punto da cercare artisti italiani che lo facessero molto bene. Mi scoprì via Internet e mi chiamò là a suonare. Una bella esperienza!».

Nel tuo repertorio di teatro-canzone non ci sono solo le vite dei musicisti…
«L’ho declinato attraverso tanti altri temi, che poi coincidono con i miei interessi. C’è il cibo, ovviamente, con uno spettacolo chiamato Canzoni da Mangiare. A proposito: sono anche il portavoce della storia della Mortadella per il Consorzio della Mortadella di Bologna Igp… Ho raccontato la storia dell’Arte con Intonati a regole d’arte, e quella del manouche Django Reinhardt (Lo zingaro miracoloso – l’incredibile storia di Django Reinhardt) e ora quella di Alberto Rabagliati (Quando canta Rabagliati!)Grazie a lui mi sono innamorato dello swing!».

Immagino che la pandemia abbia fermato anche i tuoi spettacoli…
«Beh, sì, con i teatri chiusi s’è smesso di recitare e guadagnare! Però non sono riuscito a star fermo, così mi sono ritrovato a fare i concerti… da casa mia, gratuitamente! Appuntamenti fissi, sei settimane, sei sabati di seguito… socc’mel, era diventato un gran lavoro! Mio figlio (Andrea, uno bravo davvero, ha 24 anni ma è un bravo musicista!) faceva qualche pezzo con me, c’erano le dirette su Facebook, 1000, 1500 persone alla volta che mi seguivano. La gente mi mandava continue richieste di brani da suonare. Era diventato un bell’impegno!».

Avevi i tuoi fan…
«Ti racconto questa: c’era una signora che viveva con la badante proprio sotto di me, al terzo piano. Era molto anziana e malata, poi è mancata, poverina. Nei miei concerti casalinghi mettevo le casse fuori in terrazza, e suonavo. Un giorno la signora, non potendo venire da me, causa lockdown, è scesa aiutata dalla badante all’ingresso del palazzo e mi ha citofonato (immaginate il dialogo con inflessione bolognese, ndr): “Senta signor Campi, sono la Wanda, la Rizzoli… Volevo ringraziarla, che lei ci ha dato tanta felicità in questi momenti! Avrei una richiesta da farle…”. Eccola là ho pensato, chissà che canzone vuole che le canti, invece: “Potrebbe spostare di più le casse verso la mia terrazza, così sento meglio, grazie sa!».

Franz, veniamo a Il Sentimento Prevalente
«Come già detto, non riuscivo a star fermo in casa. Avevo canzoni nel cassetto, altre idee in testa, altrettante cose da dire, così, con Davide Belviso, polistrumentista, abbiamo messo su il disco. Ci siamo ingegnati, come tutti, a farlo da lontano: mandavamo le canzoni ai vari musicisti perché suonassero la loro parte, per il bandoneon a Udine, il piano in Puglia il sax a Guastalla… Poi Davide ha mixato il tutto. C’è una canzone che avevo scritto anni prima con Daniele Furlati, lo stesso che aveva composto le musiche con Marco Biscarini del film L’Uomo che verrà, sulla strage di Marzabotto, Lettera di un condannato a morte della Resistenza. Volevo ricordare a quelli che parlavano e parlano tanto di dittatura sanitaria e paragonavano il governo ai fascisti e ai nazisti, quello che era successo davvero durante una feroce dittatura. Certi paragoni sono inappropriati, offensivi. Avevo letto le lettere di saluti che i condannati a morte facevano recapitare alle loro famiglie, e lì mi sono ispirato. Alla pandemia s’è aggiunta la guerra: mi attacco alla musica cercando di portare positività di pensiero a chi ascolta».

Qual è il sentimento prevalente…
«Ogni giorno ci sentiamo oppressi, schiacciati verso terra. Lo pensavamo anche prima della pandemia, soprattutto noi della nostra generazione, triturata tra le responsabilità verso i figli, il lavoro stressante, i genitori anziani da gestire. Quando arriva sera, dopo una giornata intensa dove succede di tutto, si finisce per credere che le emozioni prevalenti della nostra vita siano solo quelle negative. L’ho vissuto anch’io: faccio uno sforzo per salvare me stesso, sennò mi butto dalla finestra. E poi rifletti: se hai la finestra hai anche una casa, un tetto dove vivere, una famiglia a cui vuoi bene, gli amici con cui incontrarti e parlare, molti interessi, un lavoro… sei un privilegiato, in una società ricca come la nostra! La morale è che il sentimento prevalente deve essere positivo. In questo disco, costruito a capitoli come un libro, ho cercato di spiegare tutto questo. Spero di esserci riuscito».

Che genere di musica ascolti?
«A essere onesti ne ascolto sempre meno. Mi piacciono le canzoni del passato, più che altro mi piace leggere. Penso con tenerezza al periodo in cui la gente andava ad ascoltare le orchestre. Qui a Bologna, a metà Ottocento, c’erano i venerdì dell’Antonelli, la prima banda della città. Tutti andavano in piazza Galvani ad ascoltarla, c’erano le belle da marito e i maschi che le scrutavano. Erano momenti di grande socialità. Venendo alla mia giovinezza: con i miei amici facevamo tutto insieme, compravamo i dischi a turno, andavamo a casa di uno o dell’altro, aprivamo gli album insieme, con attenzione per non rovinarli, insieme leggevamo le note, i nomi dei musicisti, guarda! C’è lui, ma no! C’è anche quell’altro, deve essere bellissimo… Poi, si mettevano i dischi sul piatto e si ascoltavano, condividendone le emozioni. Mi manca questa socialità, ora abbiamo una fruizione onanistica, tutti con le cuffie in testa ad ascoltare l’ultima playlist imposta da Spotify. C’è un pensiero unico anche nella musica. Siamo tutti uguali, ascoltiamo tutti le stesse cose…».

Hai iniziato a portare di nuovo in giro gli spettacoli? Hai intenzione di presentare anche il disco?
«Stanno iniziando a richiamarmi, ribadisco, sono uno “locale”. Ho iniziato con Canta che ti passa, spettacolo piccolino, liberatorio, antistress. Sul palco siamo tutti vestiti da medici, io sono un neurologo, l’altro uno psicologo, l’altro ancora è un proctologo (eh eh eh!), cantiamo tutti pezzi belli della canzone d’autore, divertenti, e lo facciamo assieme al pubblico. Sto preparando anche lo spettacolo per Il sentimento prevalente, lo sta scrivendo Alessandro Vanoni, scrittore che ha lavorato per il teatro: sul palco interagisco con una mia voce della coscienza e con immagini che scorrono dietro di me. Inizieremo a portarlo sui palchi a fine ottobre. Sempre in Emilia Romagna, a meno che non ci sia qualche teatro che ci chiami fuori regione!».

Fai tutto dal vivo?
«Sì tutto, atmosfera liberatoria…».

Rivango il passato: come sei finito a Sanremo?
«Facevo le mie canzoni e stavo vincendo un sacco di concorsi. Una sera faccio un concerto a Bologna,  mi viene a vedere la Iskra Menarini e mi dice: “Hai un repertorio bellissimo perché non lo fai sentire a Gianni Morandi che sta finendo il disco?”. Così io e Maurizio Minardi (autori di Banane e Lamponi, ndr) andiamo nello studio di Morandi e lasciamo una cassetta. Dopo due tre giorni, visto che non avevamo avuto risposta, siamo tornati. Suoniamo, ci apre Mauro Malavasi che chiama Morandi. C’era un lungo corridoio e nel mezzo un pianoforte. Abbiamo fatto un concerto per loro: “Fammi sentire questa, poi quest’altra, e questa?”. A Morandi piace Banane e Lamponi, una canzone goliardica che avevo scritto ai tempi dell’università, di quelle un po’… porno. “Sai non la posso cantare, con quel testo, ho un’immagine…”. Noi assicuriamo che in pochi giorni avrebbe ricevuto un altro testo. Malavasi e Morandi sono perplessi. In due giorni l’abbiamo portata, è andata bene ed è diventata un successo. Forte di quell’aggancio, sono andato a Sanremo Giovani dove ho vinto due serate. A febbraio ero sul paco dell’Ariston, ma mi son trovato la strada leggermente chiusa, era un anno particolarmente ricco, c’erano Francesca Schiavo, Joe di Tonno, Irene Grandi, Giorgia, Bocelli…».

Quando componi scrivi testo e musica o prima uno e poi l’altra?
«Ultimamente scrivo sempre meno musica. La musica è un’amante abbastanza severa, non puoi farla così così. Sulla composizione ho un po’ mollato, ho tanti altri impegni, ma a Bologna organizziamo spesso residenze artistiche. Ne ascolto tanta di musica, e quanto sento qualcuno di bravo, inizio con lui delle collaborazioni».

Nel tuo mondo ideale cos’è per te la musica?
«Una grande gioia. Lucio Dalla diceva che il successo è avere un pezzo del mio cuore dentro il cuore degli altri. La musica accende le coscienze. Pensa a Faletti con Minchia signor tenente; se pensi più in grande, anche contro l’Apartheid in Sud Africa la musica ha avuto il suo ruolo determinante, vedi Peter Gabriel con Biko o Carlos Santana. Non credo che si riuscirà a fermare Putin con una canzone, ma una canzone può provocare una grande onda».

Ci vorrebbe un nuovo Live Aid…
«Ognuno pensa al suo tour, al suo disco, non esiste più un Bob Geldof perché non c’è più un “noi”. Oggi… stiamo cotonando il nulla. Ognuno, salvo rari casi, pensa a se stesso, e non solo nella musica. Per cercare cose interessanti devi andare nei locali piccoli. Non ci sono più i talent scout… Lo scouting viene praticato davanti al computer, la prima cosa che si fa è andare a vedere le visualizzazioni, i “mi piace”… Se uno riesce a smanettare bene sui social può anche non saper suonare o cantare, e fare ugualmente successo. È tutta una grande truffa…».

Ciò si riflette inevitabilmente sull’ascoltatore…
«La velocità oggi è un dato indispensabile. Ci sono i tempi di lettura sui giornali, che trovo aberranti, e i brani corti, di facile e pronto consumo. Tutto deve essere ridotto a una cosa semplice, per nulla complessa. La complessità pretende attenzione, sacrificio, approfondimento, non puoi cavartela con uno slogan. Ascoltare di più, leggere di più ti dà più armi per crescere».

Perché i regimi hanno paura della musica?

Frame da Il “Grande Dittatore”, film di Charlie Chaplin (1940)

Le recenti elezioni in Bielorussia, dove il sessantacinquenne Aleksandr G. Lukashenko, al potere da 26 anni, s’è garantito la sesta rielezione, secondo osservatori internazionali e oppositori con brogli elettorali, intimidazioni, arresti e l’oscuramento del web, mi hanno fatto riflettere. Che rapporto c’è tra dittatura e musica? In effetti, quella della Bielorussia è l’unico regime totalitario rimasto nella cara vecchia Europa, almeno così sostengono convinti gli Stati Uniti. Ci sarebbe da discutere al proposito…

Non andiamo a invadere campi che non ci appartengono. Sul rapporto tra dittature e musica ci sono saggi su saggi, anche molto interessanti, soprattutto sul rapporto tra quest’arte e il Nazismo e Fascismo. La musica è troppo destabilizzante per chi deve detenere con pugno di ferro un potere fine a se stesso, con l’alibi del bene del popolo. È risaputo che il Nazismo, che predicava la purezza della razza e, dunque, anche delle maggior espressioni artistiche di un popolo, aborriva il jazz, musica di neri, inascoltabile per un orecchio predestinato alla perfezione, anche se nei campi di concentramento il jazz, per chi soffriva, era una ventata di resistenza. Il Fascismo aveva i suoi aedi, che hanno partorito canzoni decisamente imbarazzanti, intrise di quel semplicistico ornato di parole ridondanti, slogan da grande impero privi di contenuti… Poi sappiamo come sono andate (fortunatamente per noi!) le cose. Rileggetevi i testi di queste preziose perle trasposte in musica, da Faccetta Nera a Me ne Frego! a Vincere Vincere Vincere. Mi permetto la prima strofa di quest’ultima: Temprata da mille passioni La voce d’Italia squillò! “Centurie, coorti, legioni, In piedi chè l’ora suonò”! Avanti gioventù! Ogni vincolo, ogni ostacolo superiamo! Spezziam la schiavitù Che ci soffoca prigionieri nel nostro mar! Non vi tedio oltre.

Venendo a tempi più recenti, anche durante il ventennio di dittatura brasiliana, tanto cara al presidente attuale, Jair Bolsonaro, la musica è stata vista come un pericoloso nemico da combattere. Caetano Veloso, Gilberto Gil, Chico Buarque, ma anche il regista Glauber Rocha oltre a politici e sindacalisti, furono costretti all’esilio. Ascoltatevi Cálice di Chico Buarque e di quel geniaccio incredibile di Milton Nascimento (Pai, afasta de mim esse cálice, Pai, afasta de mim esse cálice, Pai, afasta de mim esse cálice, De vinho tinto de sangue… Padre allontana da me questo calice, Padre, allontana da me questo calice, Padre, allontana da me questo calice, di vino rosso di sangue…), oppure Alegria Alegria di Caetano Veloso, diventati must della musica popolare brasiliana (MPB). Di canzoni simbolo contro poteri e strapoteri anche nelle nostre democrazie ce ne sono molte. Pensiamo a The Revolution Will Not Be Televised (1971) di Gil Scott Heron (di cui vi ho già parlato in questo post) o a Imagine (sempre 1971) di John Lennon, ma anche a God Save The Queen (1977) dei Sex Pistols, a Rock in The Casbah (1982) dei Clash, a Sunday Bloody Sunday (1983) degli U2; e ancora, a Killing in the name (1992) dei Rage Against The Machine, a Idioteque (2000) dei Radiohead o a Psycho (2015) dei Muse.

Frame da “Psycho” – Muse

Torniamo a Lukashenko: la musica fa così tanta paura che l’apparato del governo si prende la briga di ascoltare e leggere tutto (come d’altronde faceva il Minculpop, nel periodo fascista, e fa ogni dittatura oliata) per poi mettere il “visto… si ascolti”. Molte canzoni sono state “tagliate” in modo pretestuoso: testi troppo banali, o non convenienti, o inneggianti alla violenza, non adatti al fiero popolo d’appartenenza… Ne sa qualcosa, per esempio, Siarhei Mikhalok, il frontman della band punk-rock Lyapis Trubetskoy (qui con Kapital) e l’altra da lui  sempre fondata, anarco-rock, Brutto (qui con Giri). Dopo un esilio dai palchi del suo Paese, Mikhalok è potuto rientrare quattro anni fa, apparentemente libero ma… guarda caso i concerti o non potevano tenersi, o venivano rinviati per qualche problema.

La musica fa davvero paura: scuote gli animi, fa riflettere, invita a guardare un altro mondo possibile.

E chiudo: noi, che abbiamo la fortuna di vivere in Paesi dove si può criticare anche aspramente senza il timore di sparire o venire arrestati o esiliati, sappiamo usare questo dono immenso che è la libertà? L’abitudine, spesso gioca brutti scherzi. Non dovremmo mai dimenticare Giorgio Gaber e la sua La Libertà: «La libertà non è star sopra un albero/ Non è neanche il volo di un moscone/ La libertà non è uno spazio libero/Libertà è partecipazione». Pensiamo ai tanti, troppi Lukashenko ancora in giro  – e brutalmente attivi – sparsi nel mondo, pensiamo alla nostra facilità d’espressione che, per ossimoro, troppo spesso diventa difficoltà di esprimersi, pensiamo alla musica, un’arte così immensa e forte da intimorire il forte di turno. Basta, la finisco qui.