Fantastic Negrito: Grandfather Courage (Acoustic)

Esce oggi Grandfather Courage (Acoustic), quinto album in studio di Xavier Dphrepaulezz, 55 anni, di Oakland, California. Forse ai più il nome dell’artista dice poco. Meglio chiamarlo con il moniker che ha adottato dal 2014, Fantastic Negrito. A mio avviso, uno degli artisti più interessanti e rappresentativi dell’ultimo decennio. Ottavo figlio di una famiglia mussulmana  ortodossa trasferitasi dal Massachusetts alla California quando lui aveva 12 anni, la sua fuga da casa per finire nel giro dello spaccio, quindi la folgorazione negli anni Ottanta dopo aver ascoltato Prince e il suo Dirty Mind.Grazie a quel disco ha deciso di diventare musicista, frequentando le lezioni alla Berkeley nonostante non fosse iscritto in quell’università. Nella sua vita si contempla anche un rovinoso incidente d’auto 23 anni fa: rimane in coma per alcune settimane, fatto che gli “resetta” la vita. Continua a leggere

Disco del mese: Get On Board, Taj Mahal e Ry Cooder

Quando è uscito, il 22 aprile, via Nonsuch Records, con quella cover d’altri tempi non ho avuto dubbi. Dovevo ascoltarlo, anche perché i musicisti in questione sono due grandi, Ry Cooder e Taj Mahal. Entrambi polistrumentisti, curiosi, innovatori. Il primo con la sua passione per le musiche popolari è stato l’artefice, per esempio, dei Buena Vista Social Club, e per questo gliene saremo sempre grati! Il secondo con quella voce forte e roca che sconfina nel soul e nel funk, ha tracciato la sua vita artistica con brani e interpretazioni indimenticabili, da Statesboro Blues, tratto dal suo primo, omonimo album, dove, per inciso, collaborò anche Ry Cooder, a Ain’t Gwine to Whistle Dixie (Any Mo), a Six Days on the Road, She Caught the Katy and Left me, Mule to Ride (brano che troviamo anche nella colonna sonora di The Blues Brothers)…

Questi due signori, Taj 80 anni il prossimo 17 maggio, e Ry 75, compiuti il 15 marzo scorso, hanno deciso di ritornare a suonare insieme rivedendo alcuni brani di due pilastri del Piedmont Blues, Sonny Terry e Brownie McGhee. Lo hanno chiamato Get On Board. Porta lo stesso nome e la stessa cover del 10” che uscì nel 1952 a firma Terry/McGhee e racchiude, oltre a tre brani contenuti in quell’album, The Midnight Special, Pick a Bale of Cottom e I Shall Not Be Moved, altri sette, provenienti dai vari dischi dei due e da esibizioni dal vivo. Sulla cover, al posto dei primi piani di Sonny Terry alla chitarra, Brownie McGhee all’armonica a bocca e Coyal McMahan alle maracas, ci sono Ry, Taj e Joachim, il quarantatreenne figlio di Ry, alle percussioni. Anche il lettering è lo stesso…

La domanda che si devono esser fatti in tanti è: perché proprio quell’album? La risposta più semplice è perché Cooder e Mahal si sono formati con quella musica, da ragazzi, come hanno dichiarato entrambi, erano rimasti colpiti da quel disco, probabilmente è stato il “booster” che li ha spinti a diventare musicisti. Nel 1965 i due fondarono un gruppo, i Rising Sons che non ebbe vita lunga (per la cronaca, Taj finito il college s’era trasferito da New York, dove era nato, a Los Angeles, dove conobbe Cooder). 

Un disco letteralmente fatto in casa, spontaneo, bello, carico di sentimento e grinta, nel quale le imperfezioni sono cosa gradita: ascoltandoli sembra di stare in loro compagnia, in quel salotto con il caminetto alle spalle, un tavolinetto con due tazze, un divano e due scranni. Dal’altro lato della sala Joachim e le sue percussioni. Tutto molto semplice, puro, “raw”.

Partono forte con un blues tradizionale, My Baby Done Changed the Lock on the Door, con la chitarra elettrica volutamente sporca di Cooder, le voci che si alternano e si rincorrono. Anche The Midnight Special, un classico suonato da molti artisti (Harry Belafonte, The Springfields,  Big Joe Turner, Paul McCartney, nostalgica la versione dei Creedence Clearwater Revival) nel loro arrangiamento acquista una freschezza e una spontaneità possibile solo quando due vecchi amici si ritrovano per rivangare vecchi “accordi”. 

E ancora, Hooray Hooray, altro standard nel quale l’armonica di McGhee accelerava come un treno in corsa a tutto ragtime, qui, invece, acquista, con l’armonica di Mahal e il mandolino elettrico di Cooder, una atmosfera più pacata e… sensuale. Splendida Deep Sea Diver: Taj Mahal suona un pianoforte in presa diretta, una melodia che sembra uscire da un grammofono, o meglio, dalla porta di un locale dove sigari e bourbon sono la compagnia perfetta.

Il disco scivola così, in questo mare di note e divertimento. Drinkin’ Wine Spo-Dee-O-Dee,  cantata dalla voce ruvida di Taj Mahal ricorda una serata passata tra amici, la voce roca e impastata, mentre What a Beautiful City, un blues gospel (famosa la versione cantata e suonata alla chitarra da Joan Baez), con loro diventa un attimo mistico. E via via, con Pawn Shop Blues, Cornbread, Peas, Black Molasses, Packing Up Getting Ready to Go, si arriva al brano che chiude questa session di ricordi, amicizia e spontaneità, un’ispirata I Shall Not Be Moved. 

Un lavoro semplice ma imponente allo stesso tempo. Solo due grandi musicisti come Cooder e Mahal riescono a trasmettere, senza effetti, elettronica e diavolerie varie, in modo così nitido e puro l’essenza del Blues. La serenità di una chitarra, un’armonica a bocca e una sedia di legno dove battere il tempo. Basta chiudere gli occhi…

Disco del Mese: “What Does It Mean to Be American”, Robert Stillman

Nel 2022 troverete una nuova rubrica su Musicabile. L’ho battezzata – banalmente – Disco del Mese. Qui scriverò di quello che, per i miei ascolti, è, appunto, il lavoro più intrigante e interessante, bello ed emozionante del mese. A gennaio vi segnalo un album pubblicato venerdì 21, degno di un attento ascolto…

È l’ottavo lavoro in studio composto, suonato in tutte le sue parti, prodotto e registrato da Robert Stillman, americano del Maine, residente dal alcuni anni nell’East Kent, in Gran Bretagna. Si intitola What Does It Mean to Be American?, sette tracce per la durata totale di 34 minuti e 15 secondi. Un solo brano cantato, Cherry Ocean, il primo e il più lungo (8 minuti e 34 secondi).

Here lives a family where opposites collide
A brearthing tapestry, the youngest and the guide
A fear of chilly old bones, where influence lies
You dream of a cherry ocean, with a white light
sailing over…

Questa la prima strofa. Sembra di ascoltare le atmosfere minimal del Novecento, il Simbolismo di Debussy, con un sottofondo marchiato Pink Floyd…

Il disco è suonato dal polistrumentista Robert in tutte le sue parti. Sax, pianoforte, piano Rhodes, batteria, clarinetto basso, elettronica. Frammenti volutamente scomposti e poi inseriti in un puzzle perfetto di suoni e generi. C’è jazz, certamente! Ma c’è anche folk americano, accenni classici, appunto, drone music, avanguardia. Tutto scomposto, liquido, come il musicista vede la società americana di oggi.

La seconda traccia, It’s All Is, un’allegra sessione di fiati con un sax tenore predominante, è una rassicurazione dopo la fluttuante Cherry Ocean. Il riff del sax è caldo e invitante, ci si ritrova. Nel video che l’artista ha girato – sempre da solo! – scorrono a ogni “It’s All… Is” parole in coppia di opposti: sofferenza e felicità, bei tempi, tempi bui, risate e pianto, realizzare qualcosa o far niente… indecisioni che si avvertono musicalmente ogni volta che il tema finisce e ricomincia, inciampi voluti. E questa incertezza sul fare scivola, inesorabile, verso un drone ambient, dove tutto s’annebbia…

Passata Self-Image, nella quale il tema iniziale, funk, chiaro, finisce per scomporsi in echi di un sax sovrapposto, si arriva al brano che preferisco in assoluto, Acceptance Blues: il suono ovattato di un piano a muro, un tema che scivola leggero sui tasti, e un fragore primordiale, prima sommerso poi sempre più insistente, un blob sonoro che avvolge lentamente le note dominanti: iniziano dissonanze volute, mentre tutto viene nascosto da una coltre sempre più pesante di noise che poi finisce per esplodere, assordante. Sembrano i frastuoni di un incendio. Alla fine, tra le macerie fumanti, s’innalza il suono nitido e calmo di un fiato. Il canto solenne di speranza dopo la distruzione?

Si continua con What Does It Mean to Be American?, strumenti che diventano tante voci diverse di quel melting pot che sono gli Stati Uniti. Forse oggi il significato di essere americani non è poi così tanto chiaro come era in passato. Il Paese ha bisogno di “accordarsi” nuovamente, scoprire nuovi modi per stare insieme. Deep Time, USA, penultimo brano, è l’amara considerazione del caos organizzato che regna in questo millennio, c’è bisogno di pace, di certezze, di unioni e non di divisioni politiche, razziali, di classe.

No Good Old Days è l’ultima traccia: una classica chitarra folk, la tentazione di ritornare a chiudersi in ambienti confortanti, “accordati”, che però è assai improbabile che ritornino. Un pezzo intriso di nostalgia, mentre il folk si fonde in un caos onirico di suoni. Chiude il lungo, umano respiro del musicista, l’ultima aria che si vuota dai polmoni e che preclude ogni nostalgia di un tempo che fu…

Interviste: Danilo di Paolonicola, la World Music e il Saltarello abruzzese…

Danilo di Paolonicola e l’Orchestra Popolare del Saltarello – Foto di Emidio Sciannella

Un disco di World Music in Italia è sempre una benedizione. Il recupero di tradizioni sonore che si sono contaminate nei secoli grazie a scambi culturali e conflittuali, imposti o mutuati, sono la base di un’ulteriore “fusione” per chi ha la voglia, l’intelligenza e le capacità di addentrarsi in un mondo musicale che può offrire infinite combinazioni.

Danilo di Paolonicola, 44 anni, abruzzese di Teramo, fisarmonicista che ha solcato i palchi di mezzo mondo, con la sua Orchestra Popolare del Saltarello ha pubblicato il 28 dicembre scorso Abruzzo, primo disco ufficiale dell’Orchestra, che va ascoltato con molta attenzione. Perché, in otto brani, molti dei quali famosissimi anche fuori regione, ha dimostrato che la musica è un’arte senza tempo e che le canzoni popolari, quelle che si ballano alle feste paesane, possono diventare musica colta.

Voci potenti, che da un abruzzese stretto improvvisamente volano nel jazz o raggiungono accenti blues, saltarelli che si fondano in metriche jazz, escursioni balcaniche alla Bregović, strumenti mediterranei come il bouzouki greco uniti a percussioni sudamericane…

Sempre con un accento originario forte, ben marcato: d’altronde resta pur sempre una musica da ballo, canzoni che uniscono, creano comunità, condividono gioie e dolori, amori e fatica (non a caso i live dell’Orchestra sono sempre accompagnati da ballerini professionisti, a testimonianza del serio lavoro storico che sta alla base dell’operazione creativa).

Essendo molto curioso, soprattutto su dischi di questo genere, ho chiamato Danilo per farmi raccontare la genesi dell’album…

Un gran bel disco, pura Italian World Music!
«(sorride, ndr) Di base, le melodie sono rimaste le stesse, il resto è stato completamente rivisitato. Il lavoro che ho fatto nella maggior parte dei brani è stato contaminarli con i suoni e i ritmi che nascono lungo il percorso della transumanza. Siamo abruzzesi, conserviamo nel DNA l’antica tradizione dei pastori che facevano la transumanza verso la Puglia lungo il tratturo Magno (244 km da L’Aquila a Foggia, il più lungo d’Italia, ndr). Facendo questo percorso la musica popolare si trasforma: dal Saltarello diventa Ballarella, poi passa alla Tammurriata, quindi alla Tarantella del Gargano fino ad arrivare alla Pizzica…».

E qui c’è stato il primo livello di “fusion”…
«Esatto, all’interno di questo disco la prima fase di arrangiamento è stato proprio l’inserimento di altri ritmi popolari sulle canzoni abruzzesi, Oltre a questo lavoro, visto che in Abruzzo abbiamo un grande repertorio di canzoni – e di balli – ho deciso di inserire un paio di canzoni completamente rivisitate. La prima, Maria Nicola, ha un ritmo reggaeton, nella seconda, Diasill, che non è una canzone ma una litania, ho inserito una base funk su un testo rap».

Ma anche in Vola Vola Vola, che apre l’album, per esempio, hai lavorato molto, soprattutto nella coralità…
«Sì, i cori sono sempre molto curati. La mia idea di musica prende spunto anche dalla musica pop, dove c’è grande attenzione per cori e arrangiamenti. Abbiamo fatto un grande lavoro sulle voci. Su Vola Vola Vola, il mood è jazz, l’esposizione del tema della strofa mantiene l’armatura jazz con  accordi complessi; sul ritornello, invece, ritorna nella versione originale che tutti conoscono. Ho cercato di renderla più raffinata e, allo stesso tempo, riconoscibile, essendo l’unico brano popolare abruzzese famoso in tutto il mondo. Una vera particolarità, perché le canzoni popolari italiane più famose all’estero sono quelle napoletane…».

Ascoltando come hai rielaborato questi brani hai una visione diversa della canzone popolare, giustamente catalogata come World Music…
«Vengo da altri generi musicali. Sono un jazzista e, oltre al jazz e al pop/rock dove sono laureato, studio da tempo la musica etnica. Penso che le cose più interessanti uscite negli ultimi dieci anni siano venute tutte dalla World Music. Unendo suoni diversi, tipici di altre culture, si creano sonorità molto interessanti e anche, forse, innovative, se me lo permetti. Più correttamente, nuove sonorità, che miscelate con suoni “attuali”, diventano un prodotto interessante».

Foto di Emidio Sciannella

Quello che fa fatto Stweart Copeland con la Taranta…
«Il lavoro di Copeland del 2003 è l’edizione della Notte della Taranta che preferisco. Un brano che non è presente nel disco, il Saltarello Teramano, l’ho arrangiato prendendo spunto proprio dalla Pizzica degli Ucci».

A proposito: come hai scelto i brani da mettere nel disco?
«Nel repertorio dell’Orchestra che proponiamo dal vivo sono di più, ovviamente. Ho voluto prendere delle canzoni che tutti più o meno conoscono e dare loro un vestito nuovo».

Parlami dell’Orchestra, i musicisti che estrazione hanno? Come hanno preso questa idea di World Music in senso lato…
«I musicisti dell’orchestra non vengono dalla musica popolare, a parte i cantanti. Abbiamo una ritmica di jazzisti, ma chiaramente ci sono strumenti popolari come la zampogna, l’organetto, la fisarmonica, che io suono, e i tamburelli. I cantanti principali vengono, appunto, dalla musica popolare, abbiamo, per esempio, un africano – è lui che rappa in Diasill – che canta anche in abruzzese, ed è bello sentire il diverso accento che dà alle parole, poi abbiamo una italo-algerina: anche lei porta il suo bagaglio culturale… Questo ensemble produce un risultato diverso da quello che il pubblico è abituato ad ascoltare.

Gli arrangiamenti dei brani sono tutti opera tua?
«Sì. Li propongo – perché non li preparo a casa, ma lavoro in sala prove con tutti – osservando le facce dei miei musicisti. Quando li vedo tutti sorridenti, vuol dire che piace e che si divertono a suonare. È importante, così facciamo un lavoro di gruppo, dove tutti sono motivati».

L’improvvisazione c’è quasi sempre nella musica popolare, vedi lo Choro brasiliano, il Changuï di Guantanamo… Vale anche per il Saltarello?
«Abbiamo parti scritte e altre lasciate alla libera interpretazione dei musicisti, perché la musica popolare ha bisogno di questo, lo richiede, come il jazz… L’improvvisazione arricchisce un brano, lo cambia sempre, rendendolo in questo modo unico e prezioso».

Di quanti elementi è composta l’Orchestra?
«Undici o dodici. Li abbiamo ridotti, inizialmente l’organico era di diciotto, ensemble molto complicato da portare in giro. In più c’è un gruppo di ballo composto da 4/6 ballerini».

In Abruzzo come hanno preso questa tua rivisitazione popolare?
«Vabbè è normale, c’è sempre qualcuno che storce un po’ il naso, però noi le cose ce le siamo guadagnate sul campo».

La genesi dell’Orchestra?
«È nato tutto per caso, nel 2014, in una giornata di divertimento passata in montagna. In realtà era un’idea che avevo da tempo. Per realizzarla ho chiamato alcuni ignari amici musicisti, tutti provenienti dall’ambiente jazz, giustificando una session estemporanea di musica popolare per puro divertimento. Prove dalle 11 del mattino fino all’una del pomeriggio. Sembrava tutto finito, poi, dopo il pranzo, la sorpresa: un concerto, che nessuno di loro si aspettava. L’ho fatta apposta perché ero sicuro che, vista la loro provenienza artistica, non mi avrebbero seguito nel progetto che avevo in testa. C’è ancora il video sulla nostra pagina Facebook. Da allora non ci siamo più  fermati, ci hanno chiamato ovunque per suonare. Nel 2017 siamo stati invitati al Concerto del Primo Maggio a Roma. Da quel momento siamo diventati di fatto l’Orchestra dell’Abruzzo!».

Vi siete esibiti all’estero, pandemia permettendo?
«Solo a Monaco per un evento dell’ufficio del Turismo. Abbiamo, però, ricevuto molti inviti, in Canada, Stati Uniti, Sudamerica. L’idea c’è, ci stiamo attrezzando per il prossimo anno, ma il grosso scoglio, come potrai capire, sono i costi, soprattutto i biglietti aerei. Stiamo cercando di ottenere sovvenzioni dalle istituzioni, dalla Regione Abruzzo».

Il disco è stato autoprodotto…
«Sì, l’abbiamo voluto così. L’ho arrangiato e prodotto, l’abbiamo pagato di tasca nostra, perché, per il momento, non vogliamo legarci a nessuna etichetta discografica, per avere maggiore libertà di utilizzarlo come meglio crediamo. Non è un’operazione per far soldi, ma per divulgare un’idea di musica in cui crediamo. È… cultura».

Come t’è venuta la passione per la fisarmonica?
«Ho iniziato a suonare l’organetto a sei anni, andando a lezione da Fanciullo Rapacchietta, famoso musicista d’organetto abruzzese. L’elemento fondamentale che ha caratterizzato il mio percorso musicale è stata la vittoria di molti concorsi, nazionali e internazionali… ne ho vinti tantissimi, ero considerato un bimbo prodigio. Sensazione molto bella, che mi ha portato, però, un po’ fuoristrada. L’esperienza mi ha dato una facilità di stare sul palco, il saper lavorare con altri musicisti, ma in quella fase della mia vita, anziché fare il circense super virtuoso, avevo capito che mi mancavano elementi importanti per conoscere e capire bene la musica. Così, ho smesso di esibirmi è ho iniziato a studiare musica jazz, lasciando da parte l’organetto e suonando la fisarmonica. Ho fatto anche lì concorsi, vinto premi e poi ho iniziato a lavorare per ditte di fisarmoniche tra cui la Roland: mi hanno scelto per realizzare un nuovo strumento, la FR18 diatonic, una fisarmonica diatonica che ha avuto un successo planetario. Per divulgarla ho iniziato a fare concerti in tutto il mondo, presentando lo versatilità dello strumento attraverso tutti gli stili della World Music. Ora lavoro con le fisarmoniche di Paolo Soprani… Ho continuato a studiare, mi sono laureato in composizione, il Conservatorio de L’Aquila mi ha chiamato per aprire il corso di fisarmonica diatonica. Ho insegnato anche al Santa Cecilia di Roma e al conservatorio di Catanzaro. La mia soddisfazione è che, grazie a tutto questo lavoro, sono stati istituiti corsi di musica tradizionale con vari indirizzi, canto, zampogna, organetto, chitarra battente…».

E il Saltarello?
«Ho cominciato a proporlo quando ero in Giappone per Roland. Lo suonavo nei concerti e il successo è stato unanime. Da lì, vedendo il grandissimo lavoro della Taranta, mi sono convinto a organizzare un festival simile, ma fondamentalmente diverso. Quest’anno, dopo due anni di fermo, ritorneremo con grosso evento che sarà organizzato nella Valle Subequana, una spettacolare zona interna dell’Abruzzo».

Ultima domanda: questo primo disco è solo un inizio…
«Sì, in realtà è il primo volume dedicato all’Abruzzo. Ne uscirà anche un secondo, presto. In futuro, abbiamo intenzione di lavorare allo stesso modo su altre regioni. Ho già un progetto sulle musiche del Centro Italia, che la pandemia fa frenato… Al di là dell’Orchestra ho un progetto jazz a cui tengo molto, con Nino Buonocore, e un altro disco che uscirà tra un paio di mesi, il sequel di No Gender (album pubblicato nel 2016, ndr), Volume II, dove l’aspetto virtuosistico e jazzistico rappresentano al massimo l’utilizzo dei miei strumenti. Tutte composizioni originali, ispirate alla musica balcanica, con ritmi dispari, allo swing, al bluegrass…».

Interviste: Terzino in Fuorigioco? Parola di Tommaso Novi!

Tommaso Novi – Foto Claudia Cataldi

Ma i cantautori esistono ancora? Domanda legittima e provocatoria. Certamente non sono, e ormai da decenni, mainstream. Hanno ceduto il posto al rap e alla trap che è diventato il nuovo pop. Spesso, brani tirati via, testi rapidi che parlano di un disagio che, se all’inizio era sincero, oggi è solo un format perché, se fai quel tipo di musica, puoi diventare un altro Fedez o Sfera Ebbasta. Prima nell’ideale dei giovani c’era il calciatore, ora c’è il rapper. Soldi, soldi soldi…

L’autotune spinto risulta quasi pornografico, storpia voci che altrimenti non esisterebbero, i bit sono per lo più sempre sequenzialmente simili. Un orwelliano appiattimento al diktat comune. E i nostri cantautori? Alcuni si sono ritirati in silenzio lasciando brani fondamentali, altri, più giovani e ostinati, continuano a fare la loro musica non per il successo (ma se viene è meglio!), piuttosto per l’urgente necessità di raccontare storie che colpiscono e fanno discutere. Il modo di vedere dell’artista, in una società democratica e progressista, è importante tanto quanto un saggio di un prof. di filosofia o sociologia. Certo i modi di comunicazione sono diversi, il primo è accademico, quello dell’artista è, spesso, lucidamente visionario, un moderno veggente.

Riflettevo su tutto questo ascoltando un disco uscito una settimana fa o poco più. Si tratta di Terzino Fuorigioco, del toscano Tommaso Novi. Un lavoro dove parola e musica non sono mai per caso. Un album che riporta a echi del “primo” cantautorato. C’è l’ironia acida di Rino Gaetano, ci sono i sogni di Francesco De Gregori, i guizzi di Lucio Dalla, le visioni di Paolo Conte, conditi dalla toscanità, che non è affatto un dettaglio.

Un disco interessante, per un cantautore che, prima di tutto, è un musicista di lungo corso – assieme a Francesco Bottai (ascoltatevi Vite Semiserie, del 2017) formò un gruppo “storico”, i Gatti Mézzi, jazz, folk, swing, causticità di due pisani – pianista di formazione classica, docente di fischio, avete capito bene, fischio, creatore di un metodo che insegna anche al conservatorio… Insomma uno di quei musicisti che calzano a pennello l’idea che ha Musicabile sul valore della musica.

E… sì! L’ho intervistato, ho voluto scambiare opinioni, storie e futuro con Tommaso, una bella chiacchierata, sana, sincera, divertente… abbiamo discusso di cantautori, musica mainstream, di terzini fuorigioco(!), amori perduti e desiderati, spigole e impresari…

Tommaso, ti ho chiamato per parlare del disco, certo, ma anche per scambiare opinioni con te sul cantautorato italiano. Partiamo da qui, se ti va…
«Bella domanda! (attimi di silenzio e riflessione, ndr)… Siamo in un periodo storico di grande sovraesposizione della musica: dischi, per lo più singoli, sfornati ogni giorno. Una raffica di parole che ti assalgono…».

Talmente tanti che fanno pensare a un appiattimento…
«Le tecnologie hanno cambiato radicalmente il mercato e il gusto del pubblico. Il cantautorato… beh, vive ancora ed è profondamente diverso dal mainstream. La differenza principale è che, in questo caso, si ascolta il punto di vista narrante di un artista che il pubblico coglie come una nuova visione di un determinato contenuto. Il mainstream oggi è un esercito di voci che vuole dire qualche cosa e lo fa gridando slogan senza una narrazione. Dacché l’uomo esiste, la narrazione è un atto fondamentale, lo si faceva un tempo attorno a un fuoco, lo si fa oggi in un teatro. Questo sta svanendo, o per lo meno, è molto contenuto. Perciò mi chiedo: “Oggi c’è davvero bisogno di un cantautore, di una storia da raccontare, oppure servono solo messaggi compressi?”».

La risposta?
«Vedo un disastro. Non mi ritrovo in questo panorama di voci urlanti. Sono vecchio, ho 42 anni, vado per i 43. Però allo stesso tempo rifletto. È possibile, proprio perché sono di una generazione diversa, che faccia l’errore che faceva Salieri ascoltando Mozart? Me lo chiedo spesso. Sono anche un insegnante di pianoforte. I miei giovani allievi mi propinano i loro ascolti. Di primo impatto, inorridisco, ma so che devo fare uno forzo, perché in alcuni di questi ascolti c’è contenuto. Quest’anno, dopo molto tempo, mi sono imposto di vedere il Festival di Sanremo. C’era una ragazzetta, Madame, che diceva cose grandissime. Siamo vecchi, ma il bello riusciamo ancora a distinguerlo. Poi, ascolto Brunori, vedo che al prossimo festival c’è Giovanni Truppi e allora mi dico: “Forse c’è ancora un barlume di speranza!”».

Quello che non sopporto, sarò vetusto, un arnese desueto, ma mi fa diventare una bestia, è l’autotune. Lo trovo ovunque, è il gonnellino di paglia di uno che ha paura di stonare, non vedo nulla di artistico, accidenti…
«L’autotune mi uccide! L’altro giorno ho presentato il disco ed è venuto a trovarmi il mio amico Andrea Appino (Zen Circus, ndr). Siamo finiti a parlare proprio di tutto ciò. Noi, alla fine degli anni Novanta e Zero la gavetta la potevamo fare girando tutti i locali d’Italia e guadagnando giusto giusto per coprire le spese. Oggi critichiamo tanto i talent musicali che consideriamo una scorciatoia, in realtà sono figli di un Paese sordo e cieco con gli artisti. Il Covid non ha fatto altro che esasperare l’esistente. Oggi non puoi andare in giro a suonare nei locali perché… non ci sono più. Molti chiudono, altri non riescono ad andare avanti. Se la situazione prima della pandemia era una palude di acque fangose, ora non c’è più nemmeno l’acqua sporca. Tutto secco, arido, con gli scheletri degli artisti che emergono…».

Immagine truculenta ma efficace. La famosa gavetta ti ha portato a creare con Bottai i Gatti Mézzi…
«Gatti Mézzi è stata un’esperienza gigante, è stato… tutto: ancora oggi ho la sensazione di aver sognato quel periodo. Ho imparato a vivere il palco, una gavetta fondamentale: abbiamo fatto circa 700 date in una decina d’anni, pubblicato sei dischi…».

Perché è finita?
«La verità è che ci avevano strizzato troppo. Eravamo stanchi, avevamo detto tutto, dunque, felici di aver concluso. Però mai dire mai… da vecchi questo progetto potrà, chissà, essere ripreso!».

Foto Claudia Cataldi

Veniamo a Terzino Fuorigioco, hai impiegato un paio d’anni a scriverlo
«Ho iniziato nel lockdown, come molti altri, l’ho fatto con tutta calma. Però avere troppo tempo a disposizione non porta bene. Ci sono tante canzoni che, nel tempo, iniziano a puzzare, invecchiano. Avevo questo timore prima di pubblicare il disco, ma siamo stati attenti che ciò non succedesse. L’abbiamo curato con molta attenzione. Ringrazio i miei produttori che mi hanno messo disposizione uno studio che posso usare sempre, tutti i giorni. Stare lì dentro mi fa sentire bene, è bello sedersi al mixer e riascoltare, lavorare artigianalmente…».

Mi piace come scrivi, per esempio, in Aria, canti: «Un giorno riuscirò a bere amaro un caffè…».
«Aria è una canzone d’amore dove metto sul piatto una serie di buoni propositi, da quelli più nobili ai più banali. Bere il caffè amaro è uno di questi ultimi. Ma davvero, è un proposito che ogni tanto mi faccio, ma non so come si fa… il caffè amaro non è affatto buono!».

In Spigola, altro brano, racconti: «Non è bastata la neve a Catanzaro per ricordarmi di stare più leggero»…
«(Ride, ndr). Come fai a ricordarti quella parte! Ti spiego: all’epoca mi garbava una ragazza. Lei stava a Catanzaro e postò una foto sui social con la neve in città assieme al suo fidanzato. Mi ha fatto arrabbiare moltissimo e quell’immagine mi è rimasta impressa!».

Terzino a Fuorigioco, mi ricorda La Leva Calcistica del ’68 di Francesco De Gregori…
«Giusto! L’ho fatto consapevolmente. È un brano degregoriano. È la canzone cha dà il titolo all’album. È una canzone che parla di me. Il terzino è un gregario, io mi sento un gregario, ma poi ho dei guizzi, vorrei osare, ma finisce che mi sento fuori luogo. A 42 anni mi chiedo: “Sono davvero nella posizione giusta nel campo da calcio, lì dove dovrei essere?”. Se ci pensi, nel calcio un terzino fuorigioco o è un pazzo o un genio!».

L’ultimo brano del disco è dedicato al tuo impresario. Ma l’hai fatto davvero?
«Sì, Il Mio Impresario è proprio dedicato al mio impresario, Luca Zannotti, di Musiche Metropolitane. È un pezzo d’amore puro dedicato a quest’uomo. Perché è un elemento essenziale del mio lavoro. Oggi a un artista si richiede di essere più figure allo stesso tempo, imprenditore di se stesso, manipolatore di strumenti di marketing, essere presente sui social sennò sei considerato sparito… Tutto questo mi fa incazzare tantissimo. Dedicargli un brano è un modo per stimolarlo, che trovi per me uno spazio tra i Black Sabbath e Iva Zanicchi, come canto».

Come ha reagito Il Tuo Impresario che “vola più alto per cercare il sole”?
«S’è emozionato, molto. Ai concerti faccio sempre un teatrino, quando la canto lo chiamo sul palco e lo abbraccio. E lui si commuove ogni volta».

Cosa ti aspetti da questo disco?
«Sto imparando ad avere aspettative molto basse. Poi, sai, ogni creativo vede nella sua creatura un figlio. Ti posso dire quello che sogno: sogno di vincere un Premio Tenco, per me il primo, grande passo per fare cose importanti. E poi, sogno un vero tour, diobono!, come si facevano un tempo».

Ultima domanda: sei anche un esperto di fischio, credo uno dei pochi al mondo che sia riuscito a farne una materia di insegnamento…
«A quanto mi risulta siamo solo un indiano e io… Il fischio è una costante in tutte le case degli italiani, siamo un popolo fischiante da sempre! Nonno e papà fischiavano. Ho iniziato da piccolissimo per imitarli. Ero un bimbo molto agitato, iperattivo, avevo molti tic nervosi, quindi fischiavo sempre, era più un segno di disagio che un diletto. Fischiavo tutto il giorno, così a 20 anni mi sono trovato uno strumento musicale formato. In una serata alcolica degli amici mi chiesero di insegnare loro a fischiare. A casa ho iniziato a mettere giù degli appunti per spiegare. Quelle poche annotazioni sono diventate un libro, un manuale e, quindi, un metodo. Dopo 15 anni di progettualità e insegnamento, il conservatorio Luigi Cherubini di Firenze mi chiama per tenere lezioni, fatto che mi onora tantissimo, ho anche registrato un brano (Un fischio esagerato, ndr) con il maestro Nicola Piovani per la colonna sonora del film Una Festa Esagerata di Vincenzo Salemme. Un’esperienza che serberò per la vita, quel giorno, a Roma, sono ingrassato di venti chili!».

Interviste: Beppe Dettori, Raoul Moretti e le tante “Animas”

Beppe Dettori e Raoul Moretti in concerto – Foto Claudio Muzzetto – PHOTO&PANO

Echi lontani, etno folk, progressive rock, preludi bachiani, cori millenari. Quando mi sono trovato ad ascoltare Animas, lavoro uscito nel maggio scorso dalla creatività di Beppe Dettori e Raoul Moretti ammetto di essermi sentito perso in una dimensione dove tempo e generi non esistono. Ci sono solo parole e armonie che si fondono per chi ha la pazienza e la curiosità di ascoltare. Esattamente il punto di forza di questo album. Un’isola dove convivono suoni e canti creati con il chiaro intento di raccontare. Un ricordo, una storia, una sensazione, un’emozione. Ho citato isola non a caso, visto che i due artisti vivono in Sardegna.

Beppe è nato a Stintino e Raoul, comasco di nascita, da una decina d’anni ha scelto Cagliari come suo luogo di vita. Nel mio lavoro di autostoppista musicale la Sardegna è un luogo magico, come la Sicilia. Isola sonora (ne avevo parlato con Paolo Fresu qualche settimana fa), dove il crocevia di popoli e culture ha fatto sì che anche la musica, espressione popolare, venisse contaminata. Isola legata alle tradizioni, da cui riparte alla ricerca di nuovi orizzonti musicali.

Beppe e Raoul sono due esempi cristallini di quello che ho scritto sopra. Il primo, virtuoso della voce – è stato per otto anni anche il cantante dei Tazenda – il secondo, diplomato al Conservatorio in arpa, è una delle migliori espressioni di questo strumento in Italia e non solo. Dopo la formazione classica s’è dedicato allo studio e al suono dell’arpa elettrica che usa in vari modi (poi leggerete). Suonano insieme da alcuni anni. “Ci siamo trovati”, dicono entrambi, e “ci divertiamo un sacco a far musica insieme, soprattutto dal vivo, un proficuo scambio artistico”.

In Animas ci sono collaborazioni importanti e varie. I Tenores di Bitti Remunnu ‘e Locu, i Cordas et Cannas, i Concordu e Tenores de Orosei, Paolo Fresu, Franco Mussida, Davide Van de Sfroos, Gavino Murgia, Flavio Ibba, Alberto Pinna, Daniela Pes, Lorenzo Pierobon, i FantaFolk, Andrea Pinna, Giovannino Porcheddu, Massimo Canu e Federico Canu, Massimo Cossu… Un ensemble che ha avuto piena libertà di espressione nel suonare o cantare i brani composti dal duo.

Si tratta di dieci inediti e una cover, l’ultimo brano dell’album, la rivisitazione in sardo di una canzone di Peter Gabriel, Fourteen Black Paintings – che qui è diventata Battordicchi Pinturas Nieddas – dall’album Us, non una delle più conosciute, ma sicuramente una delle più affini a Beppe e Raoul, grandi fan dell’ex-frontman dei Genesis e del suo percorso personale nel prog e nella worldmusic. Fra l’altro, Gabriel da anni è un assiduo frequentatore della Sardegna, dove ha casa vicino alla Costa Smeralda.

Come sono solito fare, per capire la nascita di un album così denso di riferimenti stilistici ed emozionali ho deciso di fare quattro chiacchiere con loro. Abbiamo parlato del disco e, poi, siamo finiti, come dei ragazzini alle loro prime scoperte musicali, a raccontarci di questo o quell’altro artista, della musica che si ascoltava e di quella che si sta ascoltando, delle abilità di certi musicisti di fare più cose contemporaneamente sul palco… Insomma, tre amici al bar davanti a una birra e con l’entusiasmo per la stessa passione.

Parto subito diretto: cosa rappresenta per voi Animas?
Beppe – «Quello che noi siamo. Dentro al disco c’è tutta la mia esperienza, ci sono vari generi musicali che mi piacciono. Raoul viene da studi classici, io dalla musica leggera. Ho studiato lirica per qualche anno e poi ho virato verso il pop. Insieme, con le nostre differenze, ci divertiamo tantissimo. Le nostre anime si divertono. Questo è un progetto studiato apposta per il palco, il live. Abbiamo deciso di metterlo anche su un supporto meccanografico con l’idea di “archiviare” questo lavoro, lasciarne traccia. Fino a qualche anno fa suonavamo in un gruppo i Dolmen Project, in quattro più una performer coreografica. Poi, come spesso accade nelle band, siamo rimasti in due. Raoul a Cagliari, io a Sassari e per suonare ci siamo trovati a metà strada, a Oristano!».

Avete fuso parecchi generi musicali, dal folk al prog…
Raoul – «I generi mi (ci) stanno stretti. Sono molti quelli che ci dicono: “Musicalmente non riusciamo a collocarvi”. Sono cresciuto con il progressive, il Rock e le radici folk dell’arpa, quindi, celtiche e sudamericane. Sono comasco di nascita e crescita ma in Sardegna ho trovato un terreno prolifico per la musica che voglio fare e collaborazioni meravigliose».

A proposito di di Sardegna, perché quest’isola vanta così tanti musicisti e di varie estrazioni?
Beppe – «Perché è un territorio adatto a liberarsi da tante costruzioni mentali. Qui c’è un’apertura totale alle connessioni e posso esprimere tutto quello che ho imparato. Con Raoul abbiamo deciso di far uscire qui la nostra creatività. Suonando in mezzo alla gente. Nel progetto live S’Incantu ‘e Sas Cordas, diventato un album (2019, ndr), ho lavorato su vari linguaggi per la vocalità. In S’incantu I e II il testo non ha significato, sono frasi inventate, parole in diverse lingue che mi interessava inserire per ottenere un determinato ambiente sonoro della voce».
Raoul – «Nel nostro lavoro, nei live c’è tanta improvvisazione anche in pezzi con strutture ben definite. Ci riserviamo dei momenti “liberi”, che poi è la filosofia che sta alla base del jazz. Per esempio, il brano di Gabriel, Battordicchi Pinturas Nieddas, non lo facciamo mai uguale dal vivo. Nel disco c’è l’intervento dei cori dei Tenores di Bitti e di Lorenzo Pierobon, sul palco il brano si svuota, c’è solo l’arpa, la chitarra e la voce di Beppe, si dà più spazio ai silenzi».

Quindi Animas è un lavoro di sottrazione?
Raoul – «Effettivamente con le collaborazioni ci è sfuggita la mano, abbiamo invitato tanti artisti, amici, lasciandoli liberi di esprimersi e l’album è ricco di tutto ciò».
Beppe – «C’è molta introspezione in Animas. Ci siamo tenuti sulle note bordone sulle quali appoggiare e giostrare armonie in quella tonalità che è madre e padre».

Beppe Dettori e Raoul Moretti – Foto Claudio Muzzetto – PHOTO&PANO

Beppe tu lavori molto anche sul canto diatonico…
«Più che diatonico, è difonico. Il canto armonico mi appassiona molto, l’ho studiato e continuo a farlo. Può sembrare di origine orientale, in realtà, da oltre 4mila anni si usa anche in Europa: i canti nuragici esistevano già duemila anni prima di Cristo. D’altronde la struttura del canto a tenore (inserito nell’Unesco tra i Patrimoni orali e immateriali, ndr) non è altro che il tentativo di connettersi alla natura attraverso le imitazioni dei tre animali importanti per la vita dell’uomo in migliaia di anni, su bassu, un suono baritonale, gutturale che rappresenta il bue, sa contra, il contralto, la quinta sotto, è il verso del muflone, mentre sa mesu oghe, la mezza voce, il belato dell’agnello.  Il pastore è la voce solista, su tenore, quella che dà il senso al motivo. Di solito è una poesia, non necessariamente scritta, può essere anche di tradizione orale. Il solista ha il potere di scegliere lo stile (da ballo, d’ascolto, di musica sacra), sempre comunque connesso con la natura. Il muggito del bue è dato da un uso delle false corde (quelle di cui si servono anche i monaci tibetani o le versioni growl del metal, ndr).

Raoul, curiosità mia, come ti sei appassionato all’arpa?
«È stato puramente casuale. In realtà agli inizi degli anni Novanta l’arpa aveva ben poca diffusione, soprattutto tra gli studenti maschi del conservatorio. Avevo cominciato, infatti, con il pianoforte. Quando si trattò di scegliere l’altro strumento di studio obbligatorio, qualcuno mi suggerì di mettere l’arpa perché pochissimi la seguivano. Grazie ai miei insegnanti mi sono appassionato al punto di farlo diventare il mio strumento di studio principale e, poco a poco, abbandonare il pianoforte. Durante il percorso accademico ho iniziato a vederlo come uno strumento dalla grandi possibilità anche fuori dai canoni orchestrali. Infatti, con i miei amici,  suonavo rock con l’arpa. È stato lì che mi sono interessato all’arpa elettrica. Ho passato notti a casa di Francesco Zitello, un grandissimo arpista, ascoltando e suonando. Negli ultimi anni il nostro strumento sta prendendo sempre più visibilità». «Usa il distorsore!», interviene Beppe. E continua: «E poi fa lo slide con un cacciavite, potrei raccontartene tante su Raoul e l’arpa…». (Raoul ride e continua): «Con l’arpa elettrica faccio assoli simili o uguali a quelli della chitarra elettrica, spesso uso anche l’archetto per suonarla…».

Ditemi a quale brano di Animas siete più affezionati…
Beppe – «Non è semplice, però, fammi pensare… beh, credo sia Figiura’, dove ha collaborato Franco Mussida. È uno sfogo consapevole su cosa siano la vita e la morte. L’ho scritta in un periodo particolare della mia vita. Con il Covid ho perso una sorella, ho così riflettuto sulla perdita, sul vuoto che rimane, ho cercato di farmene una ragione. Un altro brano, che è collegato al precedente, è Eziopatogenesi, tecnicamente lo studio delle cause di una malattia e di come questa si manifesta, un gioco ironico per vincere la paura di ammalarsi. Come venirne a capo? Affidarsi alla medicina allopatica o ai rimedi omeopatici? Ognuno reagisce a suo modo. Abbiamo voluto esorcizzare tutti questi timori quanto mai attuali».
Raoul – «Difficile dire quale brano preferisco, ognuno ha avuto la sua genesi. Se Beppe è legato al contenuto di Figiura’ ed Eziopatogenesi, io lo sono per questi due brani a livello musicale, alla partitura. La prima nasce da un tema di un brano solista che ho improvvisato sul palco durante un concerto».

Che musica state ascoltando in questo momento?
Beppe – «Bella domanda! Posso risponderti che ho avuto modo di incontrare Ambrogio Sparagna (musicista importantissimo non solo in Italia per i suoi studi sulla musica popolare, ndr). Il suo ultimo lavoro, un cd book realizzato per i 700 anni dalla morte di Dante Alighieri dal titolo Convivio – Dante e i cantori popolari, è molto interessante. Ha preso alcune terzine, quelle più conosciute della Divina Commedia, facendole cantare da voci “estreme” come quelle di Raffaello Simeoni e Anna Rita Colaianni, messa in musica dai solisti dell’Orchestra Popolare Italiana dell’Auditorium Parco della Musica di Roma (c’è anche un prezioso intervento di Francesco De Gregori, ndr). Poi c’è il messicano Israel Varela, batterista e pianista che collabora con la cantante italiana Serena Brancale, c’è tanto flamenco e tanto jazz. Poi, continuo ad ascoltare Peter Gabriel e Nusrat Fateh Ali Khan, quest’ultimo mi ricorda quanto circolare sia la musica…»”.
Raoul – «Tra i miei ascolti c’è sempre Peter Gabriel! Ora sto interessandomi a progetti provenienti dalla Scandinavia, con una virata ad autori italiani. Vabbè te lo rivelo: tutto ciò perché Beppe mi sta convincendo/costringendo a cantare!».

Novità: Gullfoss e la magia di Nadje Noordhuis

Da un album politico ed elettronico come quello di Jerusalem In The Heart a uno sognante e “acustico”. Oggi voglio sottoporvi all’ascolto un altro disco che mi è piaciuto molto. Si tratta di Gullfoss, l’ultimo lavoro di Nadje Noordhuis. Australiana, 41 anni, da molti anni a New York, suona la tromba e il flicorno. Quello che riesce a ottenere è un suono pieno, caldo, struggente e anche… estremamente rilassante.

Il disco, uscito in cd venti giorni fa, ma in vinile nel 2019 e solo a tiratura limitata, è la registrazione di un live suonato dalla Noordhuis nel 2018 al Musig im Pflegidach di Muri, in Svizzera, accompagnata dall’arpista Maeve Gilchrist che, per inciso, è stata per un periodo anche sua coinquilina a New York, il chitarrista Jesse Lewis e il bassista Ike Sturm più i tappeti sonori con i sintetizzatori, la batteria e le percussioni di James Shipp, polistrumentista che ha suonato anche con Sting.

Insieme fanno il Nadje Noordhuis Quintet, un gruppo affiatato che riesce a trasmettere sensazioni non scontate, in un lavoro ispirato alla Natura e alle sue molteplici forme d’espressione.

Nadje Noordhuis Quintet – Frame dal concerto al Musig im Pflegidach di Muri, in Svizzera

Nadje ha deciso di essere musicista e trombettista dopo aver ascoltato Doo-Bop, disco di Miles Davis uscito nel 1992, «una fusione di jazz e rap», come ha ricordato lei stessa in un’intervista di qualche tempo fa, che l’ha introdotta al mondo del grande jazzista americano. Ha suonato, quindi, nella Maria Schneider Orchestra, uno dei suoi successi personali a cui tiene di più, fa notare spesso. Essere parte dell’orchestra della Schneider è stato «un privilegio e una fortuna», sostiene la Noordhuis. Di Maria Schneider ricorderete la collaborazione con David Bowie nel lungo brano Sue (Or in a Season of Crime) pubblicato nel 2014, un anno e mezzo prima della scomparsa del mitico artista.

E veniamo al disco. Un lavoro estremamente raffinato, che fa viaggiare la mente, la stimola in modo positivo. Il classico album da mettere in cuffia, luci basse e un buon bicchiere di whisky da sorseggiare. Musica contemplativa, grazie anche alle magie all’arpa della scozzese Gilchrist e dei synt impercettibili ma pieni di Shipp.

Ascoltatevi Indian Pacific, un arpeggio continuo e fluido come onde del mare di Maeve Gilchrist e della chitarra di Jesse Lewis che fa da base a una struggente melodia che riporta all’emisfero  d’origine della Noordhuis. In Silverpoint, altro brano parecchio interessante, la musicista riesce a fondere atmosfere alla Pat Metheny con una chitarra che, nel finale, assume toni decisamente rock. Gullfoss, la composizione che dà il titolo all’album e che ricorda la famosa cascata islandese, è l’ultimo “messaggio”: attacca con il basso a cinque corde di Ike Sturm, martellante, per poi portarci in un mondo fatto di magici momenti. Un lungo viaggio di emozioni. Ascoltatelo, ne vale proprio la pena…

Ascolti d’agosto: Flag Day, la colonna sonora…

L’hanno definito «un film da sbadigli». Flag Day, in concorso a Cannes nell’edizione dello scorso luglio, di Sean Penn, con lo stesso Penn protagonista, porta sul grande schermo le memorie  familiari della giornalista Jennifer Vogel. Non è un capolavoro, anche se Penn è uno dei miei attori preferiti. Se la pellicola ha convinto poco la critica, questa ha un “plus” che non passa inosservato: la colonna sonora. Che è notevole e profonda, nata da tre grandi artisti e dalla partecipazione della figlia di uno di loro. Nell’ordine, Eddie Vedder frontman dei Pearl Jam, l’irlandese Glen Hansard, la imperscrutabile Cat Power, al secolo Chan Marshall, e, in due brani, la voce di Olivia Vedder, figlia di Eddie (My Father’s Daughter, che apre il disco, e There’s a Girl). 

Eddie Vedder non è nuovo nella creazione di soundtrack, basti pensare ai suoi brani in Into The Wilde, film uscito in Italia nel 2008, regista sempre Penn, ascolto spesso Rise, voce, ukulele e pathos, o il docufilm di Eric Becker, Return To Mount Kennedy, in cui il leader dei Pearl Jam ha sfoderato una sequenza di brani di grande efficacia in compagnia dei Mudhoney, Yes Yeah Yeahs, R.E.M. e Lord Huron. Lo stesso dicasi per Glen Hansard: un Oscar per la miglior canzone originale nel 2008 per il brano Falling Slowly, cantato con Markéta Irglová nel film Once di John Carney, dove i due erano pure attori protagonisti. 

Anche l’inquieta Cat Power ha avuto a che fare con colonne sonore di film: anzi, in uno, Speaking for Trees: A Film by Mark Borthwick, del 2004, è stata l’unica protagonista, due ore di musica, solo lei, nel mezzo di una foresta. Alcuni dei suoi brani sono stati usati negli anni per arricchire la narrazione cinematografica di alcune pellicole, come la sua reinterpretazione di Stuck Inside of Mobile With the Memphis Blues Again nel film I’m Not There, opera biografica su Bob Dylan di Todd Haynes (2007), dove hanno suonato e cantato anche Eddie Vedder, gli Sonic Youth (con il brano che dà il titolo al film), i Calexico, i Los Lobos, Willie Nelson, Glen Hansard e Markéta Irglová, i The Black Keys e molti altri… (un altro gran bel disco!).

Un disco di ballate, dove Vedder e Hansard si sentono a casa con i loro tappeti di chitarre acustiche, e dove Cat/Chen può esprimere il suo tipico dark folk. Ci sono anche due cover d’alto livello: la prima cantata da Cat Power, I Think of Angels, brano di KK (Kristján Kristjánsson) la seconda, Drive dei R.E.M., eseguita da un ispirato Eddie Vedder. Chiude il disco Dream di Cat Power. Piano e chitarra acustica in una di quelle ballad tranquille e sognanti, che ricordano una trasposizione acustica delle atmosfere elettroniche degli islandesi Sigur Rós.

Tre dischi per il weekend: St. Vincent, Joe Barbieri, Vijay Iyer

1 – Daddy’s Home – St. Vincent

Come consuetudine, vi propongo tre dischi da ascoltare nel fine settimana. Parto subito con un’uscita fresca fresca, di giornata: Si tratta di Daddy’s Home, ultimo lavoro di St. Vincent, nome d’arte dietro cui si cela la brava Annie Clark, musicista e produttrice americana che vanta collaborazioni importanti, una a cui sono particolarmente legato, è quella con David Byrne in Love This Giant, album del 2012 (ricordate Who?). Dadd’ys Home è un disco irriverente e autobiografico (Annie racconta il periodo, dieci anni, in cui suo padre è stato rinchiuso in prigione per aver partecipato a una truffa azionaria pump & dump di oltre 43 milioni di dollari).

Inevitabili i ricordi dei dischi che giravano in casa, quella musica anni Settanta (lei è nata nel 1982), dove gli artisti amavano sperimentare. E lei reinterpreta quell’ansia quasi nevrotica di cambiare il presente mutando a sua volta la musica di quegli anni. Live in the Dream, per esempio, ricorda tanto Us and Them dei Pink Floyd, che poi si evolve in una forma altra, quasi una parodia del brano originale, con quegli effetti di sitar elettronico, molto usati in quegli anni da quasi tutte le band rock, ma con l’aggiunta dei suoi assoli di chitarra acidi e della batteria che scandisce secca, quasi apatica, in netto contrasto con i suoni avvolgenti di Gilmour e Mason. Sotto questi aspetti, un lavoro originale, non banale, uno spaccato della sua vita non solo di artista. Viene in mente quello che proprio St. Vincent, alle battute finali di What drives Us, docufilm di Dave Grohl che consiglio vivamente, dice: «Alla fine, suonare e scrivere fottute canzoni è ciò che amo fare, la cosa che mi piace di più in assoluto!».

2 – Tratto Da Una Storia Vera – Joe Barbieri

Passiamo a tutt’altro, veniamo a casa nostra per un’uscita di un mese fa: Tratto Da Una Storia Vera, di Joe Barbieri. Su Barbieri mi sono già espresso in questo post, è uno degli autori italiani più bravi e raffinati che possiamo vantare. A cavallo tra jazz, bossanova, arie classiche, è un artista completo. In questo album vanta, as usual, collaborazioni di rispetto, come Fabrizio Bosso nel brano che apre il disco La Giusta distanza, o Niente di Grave, con il violoncellista carioca Jaques Morelenbaum, o ancora In Buone Mani, cantata con Carmen Consoli e Promemoria, esplosione di gioia, con il grande trombonista Mauro Ottolini che ho intervistato qualche settimana fa su questo blog. Un album personale, autobiografico, dove dentro ci sono tutte le passioni musicali di Barbieri, quei generi e quegli amici che lo hanno reso l’artista che è oggi.

3 – Uneasy   Vijay Iyer, Linda May Han Oh, Tyshawn Sorey

E ora ci tuffiamo nel jazz con un pianista che per suonare non sceglie mai le strade più facili, ma ama avventurarsi in terreni affascinanti, in nuove sonorità, in fraseggi complessi che restituiscono all’ascoltare la meraviglia di una lingua, la musica, ricca di “sinonimi e contrari” senza ricadere sempre sulle solite “frasi fatte”. Lui è il newyorkese Vijay Iyer, 49 anni, per l’occasione in trio con altri due grandi musicisti, la contrabbassista e compositrice australiana Linda May Han Oh e il batterista (polistrumentista e compositore newyorkese) Tyshawn Sorey. Il risultato è Uneasy, titolo che potremmo tradurre con “A disagio”, uscito il 9 aprile scorso. A disagio per gli anni di pandemia, a disagio per le tensioni razziali in America ancora irrisolte – ascoltate Combat Breathing.

Ma anche artisti preoccupati di cercare di far capire quello che i tre stanno portando avanti in nome della creatività. Proponendo, ad esempio, anche dei superclassici, come Night and Day di Cole Porter, da ascoltare non come brano in sé ma come una trasformazione sul tema, un altro punto di vista, più complesso, appunto, per le implicazioni emotive e le storie professionali di ciascuno dei tre musicisti. Dunque, un disco da mettere in cuffia a cuore aperto, per lasciarsi conquistare da nuovi linguaggi, considerare altri orizzonti, al di là dei propri gusti personali.