Nico Morelli e il suo American Trio per rivivere la pizzica in jazz

Nico Morelli – Foto Pino Mantenuto

Il motivo del post di oggi ha un nome, un cognome e anche un indirizzo. Nico Morelli, di Crispiano, paese del tarantino di 13mila abitanti, parigino d’adozione da oltre 20 anni. Residenza: via del Jazz, angolo vicolo della musica popolare. 

Sono affascinato dalle contaminazioni, come mi racontava l’altro ieri Lorenzo Pasini, perché creano sempre qualcosa di nuovo e di interessante. Nico Morelli, di professione pianista e compositore – lavori che con lui diventano sempre viaggi e incanti – è un contaminatore culturalmente attento e creativo. Il centro del suo studio, che dura da molti anni, è fondere la cultura popolare della sua terra, la Pizzica e la Tarantella, con quella del jazz di tradizione americana. 

Due mondi che hanno più punti di contatto di quanti possiamo immaginare. La prova è la musica di Nico. La ragione per cui ve ne parlo è che il pianista tarantino è in tournée in trio con due musicisti americani, il versatile contrabbassista dell’Indiana Hilliard Greene e l’altrettanto fantastico batterista canadese Karl Jannuska. Partito dalla Francia, il Nico Morelli American Trio sarà in Italia da domani e ci resterà sino al 10 maggio, per una serie di concerti fra Taranto, Torino, Andria e Biella. Ne approfitto: per chi sarà a Milano, il 22 maggio, nella cornice di Piano City, Nico suonerà al Magnete, quartiere Adriano…

Ammetto, sono curioso di ascoltare questo trio. Soprattutto di capire come Greene e Jannuska interpretano il folk pugliese rivisto dagli arrangiamenti jazz di Morelli. Il jazz che sposa la pizzica, è un bel matrimonio, se consideriamo quanto, grazie alla Festa della Taranta, il folk pugliese abbia catalizzato l’attenzione di appassionati e musicisti di tutto il mondo. 

Del connubio ne avevo parlato già quando vi presentai l’Orchestra Popolare del Saltarello e il suo ideatore, Danilo Di Paolonicola. Lì c’era più World Music, qui è più espressamente un linguaggio jazz, la ratio comunque non cambia. Il progetto che i tre musicisti stanno portando in giro lo si può spiegare con un neologismo che l’artista tarantino ha coniato ormai da da anni, Un(folk)ettable (che poi è il titolo di due suoi album, Un(folk)ettable, del 2007 e Un(folk)ettable Two del 2016: vi invito ad ascoltare alcuni brani). E cioè, ridare freschezza e attenzione, attraverso nuovi spunti e sonorità, alle canzoni tradizionali, creando così un qualcosa di nuovo, potente, allegro. C’è festa, danza, canto, poesia in tutto questo. Una carica vitale che non può lasciare indifferenti.

Ho raggiunto telefonicamente Nico in una delle tappe francesi del suo tour…

Jazz e pizzica hanno origini “comuni”?
«Sono due generi che nascono dal popolo. Il jazz si è arricchito di musiche provenienti da tutto il mondo, in un secolo il suo sviluppo è stato enorme. La musica folk del Sud Italia è rimasta pressoché uguale, anche se poi negli anni ha subito delle mutazioni. Unirli non è una forzatura, anzi, con il jazz il folk pugliese si è sviluppato più armonicamente».

Quando hai deciso di dedicare il tuo studio e lavoro al folk-jazz?
«L’idea mi era venuta negli anni Ottanta da una domanda che mi ero posto (sono uno che se le fa per qualsiasi cosa!): che senso ha che un pugliese si appassioni al jazz? Non è più naturale cercare di seguire la mia cultura? Allora non avevo una risposta perché ero acerbissimo, disponevo ancora degli strumenti per poter realizzare la mia idea. E cioè, seguire la mia passione, che era il jazz, mantenendo salde le mie radici culturali. Nel 2006 ho cominciato a scrivere il primo album Un(folk)ettable, solo che era difficile trovare una casa discografica disposta a pubblicarti».

L’hai trovata poi…
«Sì, in Francia, dove sono molto più attenti e aperti a questi generi. Dopo quel lavoro ho capito che potevo e dovevo continuare su quella strada».

Suoni da anni con jazzisti di tutto il mondo, com’è sentita la tua musica?
«Per i jazzisti è sempre qualcosa di estremamente stimolante, son ben felici di uscire dai binari classici del genere e sempre ben disposti ad aprirsi ad altre culture. Il rapporto con la musica deve essere sempre di “scoperta”. I musicisti, soprattuto quelli d’Oltreoceano, quando ascoltano i miei lavori hanno un atteggiamento di estrema curiosità. Vogliono conoscere tutto su pizzica e tarantella, avere più informazioni possibili, che puntualmente fornisco attraverso storie che racconto sempre con piacere».

Il tuo ultimo album pubblicato, Un(folk)ettable Two, risale a sei anni fa…
«Non avverto tutta questa urgenza di produrre dischi. Perché una volta sugli scaffali fisici e virtuali, dopo 15 giorni dall’uscita sono già dimenticati da tutti».

A cosa serve allora fare un album?
«A fissare un percorso e farlo diventare un biglietto da visita del mio lavoro. Da anni ormai il disco ha perso quella funzione che aveva e che lo rendeva unico e cioè essere opera d’arte. Oggi viene prima la visibilità del musicista non la sua musica».

Parliamo del tour: come l’hai costruito?
«Suoniamo arrangiamenti di musiche del folk pugliese e mediterraneo. Ho preso melodie e ritmi di queste canzoni dando loro sonorità da trio che tengono conto delle personalità dei musicisti che mi accompagnano. A volte c’è più jazz e meno folk, altre il contrario».

Dove stai concentrando le tue ricerche folk?
«Soprattutto nel Salento, dove sono nato. Da adolescente sono cresciuto ascoltando Pino Daniele, per me un esempio, una chiave importante: scrivere canzoni su idee tradizionali aggiungendo tocchi di modernità».

Come sei diventato musicista?
«Da bimbo studiavo pianoforte un po’ controvoglia, tanto che a 11 anni l’ho abbandonato. Poi , da adolescente, sono entrato in gruppi di musica leggera. A 18 anni ho avuto la svolta e mi sono messo a studiare pianoforte al conservatorio. Ma il jazz mi piaceva troppo, quindi ho abbandonato la Classica per concentrarmi su questo genere specializzandomi in varie scuole da Siena Jazz alla Berklee School of Jazz di Boston alla Manhattan School of Jazz di New York e diplomarmi, dunque, in jazz al conservatorio di Bari. Nel 1993 ho pubblicato il mio primo disco, Behind the Window; nel ’98, per una coincidenza, il trombettista Flavio Boltro mi invitò a suonare a Parigi. Decisi di rimanere un mese per vedere com’era il mondo degli artisti nella Ville Lumière. Ne ho conosciuto molti, venivano da tutto il mondo, Argentina, Brasile, Nord Africa, paesi dell’Est e del Nord Europa. Tanti mondi diversi con cui ho collaborato, mettendo nella loro musica anche un po’ della mia storia e viceversa. Ho fatto un periodo di spola tra Italia e Francia per poi, 23 anni fa, decidere di vivere a Parigi, dove tuttora risiedo».

Il tuo amore per il jazz è stato un colpo di fulmine?
«No, un processo lento. Mi piaceva il jazz acustico, non riuscivo ad ascoltare gruppi che usavano suoni edulcorati da tastiere. Poi, come ti dicevo, grazie a Pino Daniele è arrivata la svolta, soprattutto quando invitò Wayne Shorter a suonare con lui. Il sassofonista americano mi fulminò perché non aveva un linguaggio canonico. Così comprai un suo disco e scoprii gli Weather Report, Joe Zawinul che ascoltai anche in un album dove suonava il pianoforte, eccezionale! Quindi Oscar Peterson, che all’inizio non mi piacque, avevo bisogno di sentire l’invenzione in tempo reale. Poi, come in una scala, gradino dopo gradino mi sono trovato dentro senza accorgermene. Il jazz funziona un po’ così, come quando bevi un buon whisky, scoprendone a poco a poco i sentori, i profumi, l’intensità, fino ad accorgerti che… sei diventato un alcolizzato! (Ride, ndr)».

Bello (e sano) ubriacarsi di jazz! Cosa ti ha conquistato del genere?
«Il fatto che nella musica popolare ci sia la stessa passionalità che c’è nel jazz. C’è in lui qualcosa di ancestrale come nel folk. Non è musica solo estetica, ma legata allo stomaco, alla terra».

Interviste: Danilo di Paolonicola, la World Music e il Saltarello abruzzese…

Danilo di Paolonicola e l’Orchestra Popolare del Saltarello – Foto di Emidio Sciannella

Un disco di World Music in Italia è sempre una benedizione. Il recupero di tradizioni sonore che si sono contaminate nei secoli grazie a scambi culturali e conflittuali, imposti o mutuati, sono la base di un’ulteriore “fusione” per chi ha la voglia, l’intelligenza e le capacità di addentrarsi in un mondo musicale che può offrire infinite combinazioni.

Danilo di Paolonicola, 44 anni, abruzzese di Teramo, fisarmonicista che ha solcato i palchi di mezzo mondo, con la sua Orchestra Popolare del Saltarello ha pubblicato il 28 dicembre scorso Abruzzo, primo disco ufficiale dell’Orchestra, che va ascoltato con molta attenzione. Perché, in otto brani, molti dei quali famosissimi anche fuori regione, ha dimostrato che la musica è un’arte senza tempo e che le canzoni popolari, quelle che si ballano alle feste paesane, possono diventare musica colta.

Voci potenti, che da un abruzzese stretto improvvisamente volano nel jazz o raggiungono accenti blues, saltarelli che si fondano in metriche jazz, escursioni balcaniche alla Bregović, strumenti mediterranei come il bouzouki greco uniti a percussioni sudamericane…

Sempre con un accento originario forte, ben marcato: d’altronde resta pur sempre una musica da ballo, canzoni che uniscono, creano comunità, condividono gioie e dolori, amori e fatica (non a caso i live dell’Orchestra sono sempre accompagnati da ballerini professionisti, a testimonianza del serio lavoro storico che sta alla base dell’operazione creativa).

Essendo molto curioso, soprattutto su dischi di questo genere, ho chiamato Danilo per farmi raccontare la genesi dell’album…

Un gran bel disco, pura Italian World Music!
«(sorride, ndr) Di base, le melodie sono rimaste le stesse, il resto è stato completamente rivisitato. Il lavoro che ho fatto nella maggior parte dei brani è stato contaminarli con i suoni e i ritmi che nascono lungo il percorso della transumanza. Siamo abruzzesi, conserviamo nel DNA l’antica tradizione dei pastori che facevano la transumanza verso la Puglia lungo il tratturo Magno (244 km da L’Aquila a Foggia, il più lungo d’Italia, ndr). Facendo questo percorso la musica popolare si trasforma: dal Saltarello diventa Ballarella, poi passa alla Tammurriata, quindi alla Tarantella del Gargano fino ad arrivare alla Pizzica…».

E qui c’è stato il primo livello di “fusion”…
«Esatto, all’interno di questo disco la prima fase di arrangiamento è stato proprio l’inserimento di altri ritmi popolari sulle canzoni abruzzesi, Oltre a questo lavoro, visto che in Abruzzo abbiamo un grande repertorio di canzoni – e di balli – ho deciso di inserire un paio di canzoni completamente rivisitate. La prima, Maria Nicola, ha un ritmo reggaeton, nella seconda, Diasill, che non è una canzone ma una litania, ho inserito una base funk su un testo rap».

Ma anche in Vola Vola Vola, che apre l’album, per esempio, hai lavorato molto, soprattutto nella coralità…
«Sì, i cori sono sempre molto curati. La mia idea di musica prende spunto anche dalla musica pop, dove c’è grande attenzione per cori e arrangiamenti. Abbiamo fatto un grande lavoro sulle voci. Su Vola Vola Vola, il mood è jazz, l’esposizione del tema della strofa mantiene l’armatura jazz con  accordi complessi; sul ritornello, invece, ritorna nella versione originale che tutti conoscono. Ho cercato di renderla più raffinata e, allo stesso tempo, riconoscibile, essendo l’unico brano popolare abruzzese famoso in tutto il mondo. Una vera particolarità, perché le canzoni popolari italiane più famose all’estero sono quelle napoletane…».

Ascoltando come hai rielaborato questi brani hai una visione diversa della canzone popolare, giustamente catalogata come World Music…
«Vengo da altri generi musicali. Sono un jazzista e, oltre al jazz e al pop/rock dove sono laureato, studio da tempo la musica etnica. Penso che le cose più interessanti uscite negli ultimi dieci anni siano venute tutte dalla World Music. Unendo suoni diversi, tipici di altre culture, si creano sonorità molto interessanti e anche, forse, innovative, se me lo permetti. Più correttamente, nuove sonorità, che miscelate con suoni “attuali”, diventano un prodotto interessante».

Foto di Emidio Sciannella

Quello che fa fatto Stweart Copeland con la Taranta…
«Il lavoro di Copeland del 2003 è l’edizione della Notte della Taranta che preferisco. Un brano che non è presente nel disco, il Saltarello Teramano, l’ho arrangiato prendendo spunto proprio dalla Pizzica degli Ucci».

A proposito: come hai scelto i brani da mettere nel disco?
«Nel repertorio dell’Orchestra che proponiamo dal vivo sono di più, ovviamente. Ho voluto prendere delle canzoni che tutti più o meno conoscono e dare loro un vestito nuovo».

Parlami dell’Orchestra, i musicisti che estrazione hanno? Come hanno preso questa idea di World Music in senso lato…
«I musicisti dell’orchestra non vengono dalla musica popolare, a parte i cantanti. Abbiamo una ritmica di jazzisti, ma chiaramente ci sono strumenti popolari come la zampogna, l’organetto, la fisarmonica, che io suono, e i tamburelli. I cantanti principali vengono, appunto, dalla musica popolare, abbiamo, per esempio, un africano – è lui che rappa in Diasill – che canta anche in abruzzese, ed è bello sentire il diverso accento che dà alle parole, poi abbiamo una italo-algerina: anche lei porta il suo bagaglio culturale… Questo ensemble produce un risultato diverso da quello che il pubblico è abituato ad ascoltare.

Gli arrangiamenti dei brani sono tutti opera tua?
«Sì. Li propongo – perché non li preparo a casa, ma lavoro in sala prove con tutti – osservando le facce dei miei musicisti. Quando li vedo tutti sorridenti, vuol dire che piace e che si divertono a suonare. È importante, così facciamo un lavoro di gruppo, dove tutti sono motivati».

L’improvvisazione c’è quasi sempre nella musica popolare, vedi lo Choro brasiliano, il Changuï di Guantanamo… Vale anche per il Saltarello?
«Abbiamo parti scritte e altre lasciate alla libera interpretazione dei musicisti, perché la musica popolare ha bisogno di questo, lo richiede, come il jazz… L’improvvisazione arricchisce un brano, lo cambia sempre, rendendolo in questo modo unico e prezioso».

Di quanti elementi è composta l’Orchestra?
«Undici o dodici. Li abbiamo ridotti, inizialmente l’organico era di diciotto, ensemble molto complicato da portare in giro. In più c’è un gruppo di ballo composto da 4/6 ballerini».

In Abruzzo come hanno preso questa tua rivisitazione popolare?
«Vabbè è normale, c’è sempre qualcuno che storce un po’ il naso, però noi le cose ce le siamo guadagnate sul campo».

La genesi dell’Orchestra?
«È nato tutto per caso, nel 2014, in una giornata di divertimento passata in montagna. In realtà era un’idea che avevo da tempo. Per realizzarla ho chiamato alcuni ignari amici musicisti, tutti provenienti dall’ambiente jazz, giustificando una session estemporanea di musica popolare per puro divertimento. Prove dalle 11 del mattino fino all’una del pomeriggio. Sembrava tutto finito, poi, dopo il pranzo, la sorpresa: un concerto, che nessuno di loro si aspettava. L’ho fatta apposta perché ero sicuro che, vista la loro provenienza artistica, non mi avrebbero seguito nel progetto che avevo in testa. C’è ancora il video sulla nostra pagina Facebook. Da allora non ci siamo più  fermati, ci hanno chiamato ovunque per suonare. Nel 2017 siamo stati invitati al Concerto del Primo Maggio a Roma. Da quel momento siamo diventati di fatto l’Orchestra dell’Abruzzo!».

Vi siete esibiti all’estero, pandemia permettendo?
«Solo a Monaco per un evento dell’ufficio del Turismo. Abbiamo, però, ricevuto molti inviti, in Canada, Stati Uniti, Sudamerica. L’idea c’è, ci stiamo attrezzando per il prossimo anno, ma il grosso scoglio, come potrai capire, sono i costi, soprattutto i biglietti aerei. Stiamo cercando di ottenere sovvenzioni dalle istituzioni, dalla Regione Abruzzo».

Il disco è stato autoprodotto…
«Sì, l’abbiamo voluto così. L’ho arrangiato e prodotto, l’abbiamo pagato di tasca nostra, perché, per il momento, non vogliamo legarci a nessuna etichetta discografica, per avere maggiore libertà di utilizzarlo come meglio crediamo. Non è un’operazione per far soldi, ma per divulgare un’idea di musica in cui crediamo. È… cultura».

Come t’è venuta la passione per la fisarmonica?
«Ho iniziato a suonare l’organetto a sei anni, andando a lezione da Fanciullo Rapacchietta, famoso musicista d’organetto abruzzese. L’elemento fondamentale che ha caratterizzato il mio percorso musicale è stata la vittoria di molti concorsi, nazionali e internazionali… ne ho vinti tantissimi, ero considerato un bimbo prodigio. Sensazione molto bella, che mi ha portato, però, un po’ fuoristrada. L’esperienza mi ha dato una facilità di stare sul palco, il saper lavorare con altri musicisti, ma in quella fase della mia vita, anziché fare il circense super virtuoso, avevo capito che mi mancavano elementi importanti per conoscere e capire bene la musica. Così, ho smesso di esibirmi è ho iniziato a studiare musica jazz, lasciando da parte l’organetto e suonando la fisarmonica. Ho fatto anche lì concorsi, vinto premi e poi ho iniziato a lavorare per ditte di fisarmoniche tra cui la Roland: mi hanno scelto per realizzare un nuovo strumento, la FR18 diatonic, una fisarmonica diatonica che ha avuto un successo planetario. Per divulgarla ho iniziato a fare concerti in tutto il mondo, presentando lo versatilità dello strumento attraverso tutti gli stili della World Music. Ora lavoro con le fisarmoniche di Paolo Soprani… Ho continuato a studiare, mi sono laureato in composizione, il Conservatorio de L’Aquila mi ha chiamato per aprire il corso di fisarmonica diatonica. Ho insegnato anche al Santa Cecilia di Roma e al conservatorio di Catanzaro. La mia soddisfazione è che, grazie a tutto questo lavoro, sono stati istituiti corsi di musica tradizionale con vari indirizzi, canto, zampogna, organetto, chitarra battente…».

E il Saltarello?
«Ho cominciato a proporlo quando ero in Giappone per Roland. Lo suonavo nei concerti e il successo è stato unanime. Da lì, vedendo il grandissimo lavoro della Taranta, mi sono convinto a organizzare un festival simile, ma fondamentalmente diverso. Quest’anno, dopo due anni di fermo, ritorneremo con grosso evento che sarà organizzato nella Valle Subequana, una spettacolare zona interna dell’Abruzzo».

Ultima domanda: questo primo disco è solo un inizio…
«Sì, in realtà è il primo volume dedicato all’Abruzzo. Ne uscirà anche un secondo, presto. In futuro, abbiamo intenzione di lavorare allo stesso modo su altre regioni. Ho già un progetto sulle musiche del Centro Italia, che la pandemia fa frenato… Al di là dell’Orchestra ho un progetto jazz a cui tengo molto, con Nino Buonocore, e un altro disco che uscirà tra un paio di mesi, il sequel di No Gender (album pubblicato nel 2016, ndr), Volume II, dove l’aspetto virtuosistico e jazzistico rappresentano al massimo l’utilizzo dei miei strumenti. Tutte composizioni originali, ispirate alla musica balcanica, con ritmi dispari, allo swing, al bluegrass…».