Premio Cesa: a San Daniele c’è Massimo Priviero

Il 3 luglio a San Daniele del Friuli sarà proclamato il vincitore della XIX edizione del Premio Alberto Cesa (musicista, cantore e suonatore di ghironda, anima con Donata Pinti dei Cantovivo, gruppo folk torinese nato negli anni Settanta). Un riconoscimento meritorio per quei progetti italiani che danno voce “a una o più radici culturali di qualsiasi parte del mondo”. 

A contenderselo quest’anno, scelti tra duecento partecipanti, i Femina Ridens dalla Toscana, i Luarte Project dalla Liguria, i Dimotika da Emilia e Trentino, i Grama Tera dal Piemonte, gli Yerba Buena Trio dal Friuli Venezia Giulia e gli Yaràkä dalla Puglia. In questa serata in chiusura dell’edizione Folkest – International Folk Music Festival 2023, domani sera sul palco ci sarà, oltre ai gruppi appena citati, anche un ospite d’onore di gran rispetto, Massimo Priviero. 

Veneto di Jesolo, emigrato a Milano, rock nel sangue, dylaniano nel cuore, Priviero è artista seguito e amato. «Mezzo milione di dischi venduti», mi ricorda lui stesso. È un musicista che vive di musica (non poi è così scontato), «di quello che ho sempre voluto fare», mi racconta. Leghiamo subito, entrambi veneti, entrambi della stessa età, entrambi con la stessa percezione del passato e del presente. «Cantare significa trasmettere valori, senso della vita, lanciare messaggi che vengano raccolti». E come dargli torto?

La sua carriera inizia nell’88 con… San Valentino, album registrato a Londra e cantato in italiano. Due anni più tardi esce uno dei suoi album migliori, Nessuna resa mai prodotto da Steve Van Zandt,  in arte Little Steven, dove l’imprinting della forza comunicativa evidenzia il legame con E Street Band/Bruce, artisti a cui Massimo si è ispirato. Fu la Warner Bros a lanciare il giovane italiano parafrasando il claim che Jon Landau 15 anni prima forgiò su Bruce Springsteen: «Ho visto il futuro del rock italiano e il suo nome è Massimo Priviero». «Mi sono ritrovato a essere famoso, poi mi sono fermato, la vita», mi dice.

La sua storia l’ha raccontata molto bene Matteo Strukul in un libro del 2010, Nessuna Resa Mai – La strada, il rock e la poesia di Massimo Priviero: -…. E poi i riflettori improvvisamente si spensero. Per Massimo cominciò un esilio, fatto di fatica e rincorse e una carriera in trincea trascorsa a riprendere lo spazio perduto, un centimetro alla volta… Da quell’esordio bombastico alla terra. E qui si vede l’uomo: fatica, forza d’animo, resistenza, rinascita. Il ritorno è forte ma non per tutti. È impegno sociale, visione della musica come veicolo culturale.

Oltre alla musica nello spazio culturale di Priviero c’è il teatro canzone. Impegno civile come Dall’Adige al Don con Roberto Curatolo, le Storie dell’altra Italia, con i Gang e Daniele Biacchessi (ascoltate il disco, ne vale la pena!), al più recente Migrazione con Giovanni Giusto. Nel 2018 festeggia i trent’anni di carriera al Teatro della Triennale di Milano e scrive nella sua “casa veneta” la sua autobiografia, Amore e Rabbia «la fotografia di un uomo felicemente fuori dagli schemi» che esce nella primavera del 2019.  

Massimo, sei un artista di culto, cosa vuol dire?
«Che cerco di essere una persona coerente. Ho sempre avuto valori forti e quelli più importanti non li ho mai messi in vendita. Il mio piccolo popolo, come chiamo chi mi segue, l’ha sempre avvertita questa cosa».

Come ti inserisci in un mondo artistico così cambiato rispetto a quarant’anni fa?
«Sono in una riserva indiana, seguo il folk, il rock, Springsteen… il mondo è andato in una direzione che non mi riguarda. Non ascolto né radio né vedo la televisione. Ho superato anche il fastidio che provavo quando entravo nei centri commerciali a fare la spesa! La musica mainstream è mediocre anche se per un certo mondo è salvifica. Io e il mio popolo con questo mondo non c’entriamo niente».

A quale mondo appartieni?
«A uno che non confonde la leggerezza con l’idiozia e la superficialità. Dagli anni Sessanta agli Ottanta la musica ha segnato un desiderio di cambiamento. Il Rinascimento è durato poco, ma ha lasciato un segno».

 Ognuno cerca sempre una qualche forma di salvezza…
«Nel mio caso è la musica, il mio modo emotivo di comunicare con il mondo, una condivisione fondamentale. Però è un modo individuale: ce l’ha molto di più il ragazzotto che vuole imparare a suonare uno strumento di un altro che va ai talent show, o i quattro amici che vogliono fare il Blues “perché ci piace e ci fa stare bene”».

I talent, secondo me, sono diseducativi, la musica non è competizione ma condivisione…
«La competizione c’è sempre stata, per esempio nella vendita dei dischi, ma c’è modo e modo per viverla e farla».

Cosa o chi ti ha fatto decidere di essere un musicista?
«Da ragazzino mi ero innamorato di Bob Dylan: sono nato con dieci anni di ritardo! Ed era stata una folgorazione sulla via di Damasco. Il mio sogno era suonare le canzoni di Dylan, e l’ho fatto in tutte le metropolitane d’Europa. Per cantare bene mi sono imparato l’inglese, l’ho studiato a fondo…».

Sei un artista versatile. Tieni molto al tuo pensiero, sei una persona che crede in quello che fa, senza compromessi e lo canti tra folk, rock e teatro…
«Non solo! Sotto mentite spoglie ho una carriera parallela di musica gospel. Sono entrato in sei o sette compilation».

Gospel? E come ti fai chiamare?
«Uhm… non lo dico ora, anche se si potrebbe intuire, o meglio te lo dico ma giura di non scriverlo! La musica gospel fu una sfida, feci un disco, le canzoni mi vennero bene così mi chiesero di inserirle in compilation natalizie. Non mi aspettavo un successo di queste proporzioni. Devo dirti che mi viene facile scriverle, sono un credente… e poi il gospel è una musica di ringraziamento…».

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