Dieci dischi degni di nota del 2021 – Seconda parte

Eccovi serviti gli altri cinque dischi degni di nota dell’anno appena trascorso. Come vedrete, troverete alcuni grandi nomi, graditi ritorni, ma anche una trombettista australiana decisamente “superior” e un pianista (italiano) che ha composto uno degli album più interessanti dei tanti ascoltati, per pianoforte, del 2021. Spero di farvi cosa gradita. Mettetevi comodi e cuffie pronte…

La Linea Del Vento – Alessandro Deledda – 30 aprile 2021

Perugino di nascita e formazione ma sardo d’origine, Alessandro Deledda ha composto e prodotto la sua Linea del Vento. Un vento che spira e porta al mare, a una barca che gonfia le vele e va dove la musica e i pensieri hanno deciso di spingersi. Alessandro l’ho intervistato nel giugno dello scorso anno dopo aver ascoltato il suo intenso viaggio nell’oceano della sua memoria. Un album scritto di getto, una sessione di un pomeriggio trascinato in sala di registrazione dal suo fonico con al scusa di provare nuovi microfoni. Il risultato, dopo ore e ore di composizione ininterrotta, è questo album che lui, in modo molto poetico ma anche pratico ha battezzato, appunto, La Linea del Vento. Di formazione classica («la classica è il Pin della musica», mi disse), nelle sue composizioni si trova jazz, rock (è da sempre un appassionato dei Metallica, dei Pink Floyd, dei Depeche Mode), musica elettronica con cui si diletta in un progetto parallelo, dunque, una fusion sistematica. Così mi ha descritto l’album: «Madreterra è una dedica alla mia terra d’origine, la Sardegna (le mie origini sono a Pattada), Ginevra, invece è una cagnolina che ho adottato. Come Charlie Was Here, brano dedicato al mio vecchio amico a quattrozampe che non c’è più. L’ultimo brano del disco, quello più “jazz”, Have You Met Mr. Pongo?, è nato pensando all’altro cane che ho, un trovatello pure lui. Amo gli animali, infatti, una parte del ricavato delle vendite del disco andrà a un’associazione animalista. Gino e l’Olivo, invece, è il ricordo di un anziano agricoltore. Insomma, quando ho suonato in quelle tre ore e mezza, ho davvero ripercorso i miei pensieri più profondi che ho associato a melodie. È la mia linea del vento…». 

Delta Kream – The Black Keys – 14 maggio 2021

Dan Auerbach e Patrick Carney, i The Black Keys, hanno deciso di ritornare al loro biberon musicale, rivedendo pezzi storici del Blues, brani di mostri sacri del genere, come il sommo R. L. Burnside (a proposito, il 25 giugno è uscito un disco roots molto interessante del nipote, Cedric Burnside, I Be Trying), di Junior Kimbrough o di Fred “Mississippi” McDowell, trasformandoli in brani con incursioni rock. Il risultato è un disco che mi è piaciuto perché è un onesto omaggio al genere che ha contribuito non poco a farli diventare famosi, impreziosito dalla chitarra slide (onnipresente) di Kenny Brown e dal basso di Eric Deaton. Molti si sono domandati se fare un disco con brani capisaldi del Blues non fosse un po’ troppo pretenzioso, visto che, ad esempio, per Poor Boy a Long Way From Home di Burnside, ci sono versioni strepitose, una per tutte quella di Howlin’ Wolf, come ha fatto giustamente notare Rolling Stone Usa. I due – diventati per l’occasione quattro – ci sanno fare. È il loro punto di vista, la loro interpretazione, il loro omaggio. Ed è per questo che vanno presi e ascoltati. Anche perché, vale ripeterlo, il lavoro “di fino” che fa Kenny Brown merita da solo l’acquisto dell’album: basti mettere in cuffia Going Down South: il chitarrista con bottleneck all’anulare viaggia in perfetta sintonia con la voce sottile di Dan Auerbach. Musica da strada, sotto il sole, dovunque voi siate…

Portas – Marisa Monte – 2 luglio 2021

Marisa Monte la seguo da sempre, è una delle voci brasiliane inconfondibili, un’artista che ha tante cose da dire e mai banali, una musicista completa che compone, arrangia, produce. Uno spirito libero perennemente impegnato. All’uscita di Portas l’ho intervistata. Io me ne stavo sotto i quaranta gradi del Salento lei nella sua “invernale” Rio de Janeiro… Se avete voglia di leggerla andate a questo link. Da quella lunga chiacchierata, mi rubo alcuni passi che ho scritto allora… Un album composto da 16 tracce, un racconto, per chi la conosce, che ha del cinematografico. Sedici brani che catturano, conquistano, raccontano storie. In Portas c’è amore, romanticismo, passione, tristezza, allegria, speranza, futuro. Se dovessi fare un paragone, è come vedersi un film alla La La Land. Basta ascoltare Portas, brano che dà il titolo all’album, per capire quale sia la direzione del nuovo lavoro della Monte. Qual é a melhor?/ Não importa qual/ Não é tudo igual/ Mas todas dão em algum lugar/ E não tem que ser uma única/ Todas servem pra sair ou para entrar/ É melhor abrir para ventilar/ Esse corredor… Qual è la porta migliore? si chiede. La risposta arriva subito dopo: non ha importanza quale sia, non è tutto uguale. Ma tutte le porte aprono in un qualche posto. E, non necessariamente deve essere una porta sola, tutte servono per uscire e per entrare. È comunque meglio aprire per far cambiare aria a questo corridoio… Metafora dei tempi correnti. Se volete entrare nel samba, pieno, soffice e sostanzioso, con la collaborazione di Pretinho da Serrinha, ascoltatevi Elegante Amanhecer, brano dedicato alla Portela, scuola di samba carioca, di cui Marisa è sostenitrice, tra cavaquinho, cuica e surdo: Foi lindo de ver a Portela/ O sol raiando/ Elegante amanhecer/ Seu canto ecoou na passarela/ Auê auê salve o samba, salve ela… Tante le collaborazioni che Marisa ha voluto nel disco, da Arto Lindsay ad Arnaldo Antunes, l’ex Titãs, con  lui e Carlinhos Brown hanno creato i Tribalistas… Per proseguire con il bassista Dadi Carvalho o il polistrumentista Marcelo Camelo dei Los Hermanos. Ah, c’è Anche il mago Arthur Verocai che ha arrangiato i brani assieme ad Antônio Neves e Camelo. Il Brasile che mi piace…

Gullfoss – Nadje Noordhuis – 21 settembre 2021

Gullfoss è l’ultimo lavoro di Nadje Noordhuis. Australiana, 41 anni, da molti anni a New York, suona la tromba e il flicorno. Quello che riesce a ottenere è un suono pieno, caldo, struggente e anche… estremamente rilassante. Il disco è uscito in cd il 21 settembre, ma in vinile è stato pubblicato a tiratura limitata nel 2019, ed è la registrazione di un live suonato dalla Noordhuis nel 2018 al Musig im Pflegidach di Muri, in Svizzera, accompagnata dall’arpista Maeve Gilchrist che, per inciso, è stata per un periodo anche sua coinquilina a New York, il chitarrista Jesse Lewis e il bassista Ike Sturm più i tappeti sonori con i sintetizzatori, la batteria e le percussioni di James Shipp, polistrumentista che ha suonato anche con Sting. Insieme fanno il Nadje Noordhuis Quintet, un gruppo affiatato che riesce a trasmettere sensazioni non scontate, in un lavoro ispirato alla Natura e alle sue molteplici forme d’espressione. A tratti ricordano gli islandesi Sigur Rós, per poi aprirsi in atmosfere alla Pat Metheny. Ascoltatevi Indian Pacific, un arpeggio continuo e fluido come le onde del mare di Maeve Gilchrist e della chitarra di Jesse Lewis che fa da base a una struggente melodia che riporta all’emisfero d’origine della Noordhuis. In Silverpoint, altro brano parecchio interessante, la musicista riesce a fondere pattern elettronici con una chitarra che, nel finale, assume toni decisamente rock. Gullfoss, la composizione che dà il titolo all’album e che richiama la famosa cascata islandese, è l’ultimo “messaggio”: attacca con il basso a cinque corde di Ike Sturm, martellante, per poi portarci in un mondo fatto di magici momenti. Un lungo viaggio di emozioni…

Live from Blackalachia – Moses Sumney – 10 dicembre 2021

Che dire di Moses Sumney? È uno dei miei artisti preferiti, un innovatore, un visionario, uno che usa e fonde l’elettronica, la sperimentazione sonora (con quella voce che si ritrova!), il rock, il jazz… in altri tempi sarebbe stato definito un situazionista. Infatti, in questo live “solitario” senza pubblico, registrato nel 2020 in piena pandemia sui monti Appalachi nel North Carolina assieme ad altri musicisti compagni di viaggio, vicino alla città dove vive, Moses ha costruito un ambiente ideale per dare vita a un film (da lui diretto) e a un concerto che racchiude brani dagli album Aromanticism e Grae, per fondere Space, Nation Race, Place come canta lui stesso. Un nuovo ambiente, Blackalachia, dove poter “abitare” le arti, la natura e la tecnologia, ricostruito nella testa dell’artista e dato in visione via We Transfer al mondo per trasmettere il verbo. Il disco, che riporta le 14 tracce del live, è una summa dell’arte di Sumney, musicista, regista, creativo, mago che canta sospeso al tramonto, mentre il sole si nasconde dietro i monti e lui dondola nel vuoto interpretando Plastic, uno dei suoi brani più intensi. Tra i quattordici proposti, c’è anche Polly, l’ultima canzone del disco, a cui sono particolarmente affezionato e che trovo bellissima, fatta quasi a scomposizione di bossanova, il riassunto dell’arte scarna ma allo stesso tempo densa di Moses… Album da ascoltare e da meditare!

Alessandro Deledda e la sua Linea del Vento

Alessandro Deledda – Foto Federico Miccioni

Sono qui, davanti al foglio bianco di Pages. La mia base sonora è La Linea del Vento, ultimo lavoro di Alessandro Deledda, classe 1972, perugino con origini sarde, pianista, compositore, polistrumentista. L’ho intervistato un paio di giorni fa. Ma qui mi blocco: come posso presentarvelo? Perché Alessandro è un musicista classico, ma anche un jazzista, ma anche un appassionato di musica elettronica, ma anche uno che si è formato con il cantautorato italiano e il rock, quello solido, e ancora un appassionato dell’insegnamento della musica, un produttore, un arrangiatore. Il prossimo 16 luglio nell’ambito di Bari in Jazz 2021 suonerà nel The Evolution Trio assieme al sassofonista Dimitri Grechi Espinoza. Potrei sostenere che è un artista contemporaneo, parola che non dice assolutamente nulla. Oppure… un musicista genialmente curioso. Ecco, questa mi piace già di più. Mi sembra che lo rappresenti al meglio. Ci siamo dati appuntamento su Zoom per parlare una mezz’oretta del disco. È finita dopo un paio d’ore (ma avremmo potuto continuare ancora a lungo). Il tempo è trascorso veloce, a parlar di musica e passioni. Quindi, quello che leggerete qui di seguito è il condensato della lunghissima chiacchierata (parola chiave che tornerà ancora nel corso dell’intervista) tra Alessandro e il sottoscritto.

Alessandro, parto subito forte: come intendi la musica?
«Mi piace contaminare, esplorare. Già a sei anni ero attratto dalla musica. Mi divertivo a suonare l’organo della chiesa. Quando non c’era il prete, mi impegnavo a tirare fuori i primi accordi. A otto anni ho iniziato gli studi di pianoforte. Studi classici. Volevo suonare l’organo, ma l’organista titolare era il vecchio sacrestano, quindi…».

Quando ti è venuta la passione per il jazz?
«Fino a 16 anni non lo sopportavo proprio. Trovavo assurdo non seguire la lettura degli spartiti… Poi, approfondendo Bach ho capito che lui improvvisava. Bach unì il virtuosismo italiano – adorava Vivaldi, lo studiava a fondo – l’eleganza francese e il contrappunto tedesco. Ho capito che l’improvvisazione lascia un’impronta unica e irripetibile. Poi ci sono quelli che trascrivono queste improvvisazioni e le studiano. Così, a 17 anni ho iniziato a frequentare un laboratorio di musica jazz. Avevo, vista l’età, anche un secondo fine: a quell’epoca suonare uno strumento era il modo più congruo per conquistare una ragazza!».

Giusto, chitarre, spiaggia, falò, musica…
«Proprio quello! Ho cominciato a indagare, studiare il jazz, il perché da poche note, la melodia, esce un mondo meraviglioso».

Ti sei appassionato anche all’elettronica…
«Sì, amavo la tecnologia che stava arrivando. Ho iniziato con il computer Atari 1040ST, te lo ricorderai, e un expander per ricavare suoni. La mia rivelazione è stato il concerto dei Pink Floyd a Livorno nel maggio del 1989. Mi ci portò un mio grande amico. Conservo ancora il biglietto d’ingresso, pagato 37.500 lire… Lì mi si aprì un mondo. Allora, nemmeno ventenne, volevo essere tante cose, ma mi trovavo a studiare gli autori classici, leggere ed eseguire. Non mi bastava più».

Avevi gettato le basi per il tuo lavoro attuale.
«A 23 anni mi chiamarono a gestire lo studio Fonit Cetra di Perugia. A Milano, dove c’era la casa madre, conobbi Vince Tempera e Ares Tavolazzi. Con Tavolazzi, avrei suonato negli anni successivi… splendido è stato il concerto all’abbazia di Farfa…».

La musica classica però non l’hai abbandonata…
«No assolutamente. La Classica è il Pin della musica. Attraverso di lei puoi accedere a tutto. Prima di un concerto mi faccio sempre una fuga o un preludio, serve a defragmentare il cervello, una sorta di reset. Solo così riesco a improvvisare meglio».

Cos’è per te l’improvvisazione?
«Come stare tra amici, seduti a una cena o a bersi qualcosa, e chiacchierare, dialogare, raccontarsi. Solo che non lo fai con le parole ma con le note».

Prima di parlare de La Linea Del Vento, raccontami dell’insegnamento, altro capitolo fondamentale della tua vita professionale.
«Insegno da trent’anni. All’inizio, visto che non mi vedevo né in banca né nelle forze dell’Ordine come mio padre, per dimostrare ai miei che il musicista era un lavoro a tutti gli effetti, insegnavo per due lire. Dopo essermi laureato (con lode al conservatorio Francesco Morlacchi di Perugia, ndr), ho insegnato nei corsi preaccademici al Conservatorio di Perugia. Nel 2009 ho fondato un’associazione, Piano, Solo, dedicata al pianista Luca Flores (uno dei più grandi jazzisti italiani, morto suicida a 39 anni nel 1995, ndr). È diventata una scuola di musica. All’inizio era soltanto per pianoforte, ora abbiamo tutti gli strumenti. Con 120 ragazzi a Umbria Jazz presenteremo una versione di So What di Miles Davis con 20 chitarre, 8 bassi, fiati, coristi, ecc. Sono di tutti i livelli di preparazione e, alcuni, hanno imparato a suonare in dad (didattica a distanza). È stato un esperimento anche per noi insegnanti. Credo che la dad abbia un vantaggio, farti entrare subito nella parte pratica. Per il resto non va bene perché manca quella comunicazione spontanea che arricchisce la lezione».

Gli allievi di Piano, Solo sono tutti giovanissimi?
«Abbiamo circa duecento iscritti che vanno dai sei ai sessant’anni e 15 insegnanti. All’interno della scuola c’è uno studio di registrazione e sale per tenere piccoli concerti. Di base prepariamo gli alunni per i licei musicali e i conservatori».

Veniamo a La Linea Del Vento. Perché questo titolo?
«La Linea Del Vento è dove va la musica. Mi sono lasciato portare come una foglia che rotola e vola fin dove il vento vuole. Credo sia questo il modo più significativo per raccontarsi. È un disco in piano solo. La sua genesi è casuale. L’anno scorso la scuola era chiusa, come tutte le altre per il Covid19. Mi chiama il fonico che collabora con noi, un ragazzo bravissimo e con una sensibilità estrema. Mi dice: “Alessandro, proviamo quei nuovi microfoni, andiamo in sala d’incisione, tu stai dentro, io fuori a registrare. Tu suona quello che vuoi”. “Ma sei matto”, gli ho risposto. “Cosa suono, siamo tutti a casa, non se ne parla proprio”. Chiuso il telefono ho riflettuto e ho pensato che poteva essere un modo di vincere quell’apatia che mi aveva preso. Abbiamo approntato il tutto, ho cominciato a suonare altre tre del pomeriggio e sono andato avanti fino alle sei e mezza. Dopo alcuni giorni il fonico mi manda un wetransfer con il file della registrazione. Lo ascolto e inizia l’autocritica, l’autolesionismo: per una sorta di timidezza che ho sempre quando si tratta di giudicare me stesso, ho deciso che non era una registrazione all’altezza. Il fonico, invece, ero entusiasta. L’ho chiamato e gli detto: “Cancella tutto non mi piace”. Lui, invece, senza farmelo sapere, l’ha spedito a Claudio Carboni della casa discografica Egea, fondata da Tonino Miscenà. Mi hanno chiamato entusiasti. “Un gran bel lavoro!” mi hanno detto. Così è nato il disco, undici racconti che parlano di me».

Alcuni brani li hai anche suonati in barca con Federico Ortica e Andrea Palombini…
«Sì, conosco Federico da molto tempo. Ho partecipato a Onde Sonore perché l’idea e i progetti che porta avanti Federico li condivido, è quella la direzione. E poi, il vento, il mare, s’intonavano perfettamente al disco, tra l’altro uscito per Egea Le Vele…».

Inizi con Madreterra, poi passi a Ginevra… ma chi è Ginevra?
«Madreterra è una dedica alla mia terra d’origine, la Sardegna (le mie origini sono a Pattada), Ginevra, invece è una cagnolina che ho adottato. Come Charlie Was Here, brano dedicato al mio vecchio amico a quattrozampe che non c’è più. L’ultimo brano del disco, quello più “jazz”, Have You Met Mr. Pongo?, parla dell’altro cane che ho, un trovatello pure lui. Amo gli animali, infatti, una parte del ricavato delle vendite del disco andrà a un’associazione animalista. Gino e l’Olivo, invece, è il ricordo di un anziano agricoltore. Insomma, quando ho suonato in quelle tre ore e mezza, ho davvero ripercorso i miei pensieri più profondi che ho associato a melodie. È la mia linea del vento…».

Parallelamente stai seguendo altri progetti, come Aura Safari
«Aura Safari (qui Sahara) ci sta dando molte soddisfazioni. È la mia parte elettronica, di esplorazione e composizione, un progetto jazz-funk, nato da quattro amici dj con il mio coinvolgimento. Stiamo andando molto bene in Giappone, in Nord Europa, in Gran Bretagna. È un progetto a cui tengo moltissimo, sono l’unico musicista del gruppo e anche uno dei produttori».

Alessandro, per chiudere, riprendendo la prima domanda, cosa trovi nella musica?
«Per me l’importante sono le tracce che tu lasci. In questi anni ne ho lasciate parecchie, dal jazz alla musica per cartoni animati, a quella per film, ai concerti. La musica è una forma di abnegazione, richiede tanto sacrificio per entrare in quel mondo infinito. Sai, sono convinto che Chick Corea quando è morto non era ancora arrivato dove voleva arrivare, perché la musica è un percorso infinito. Infatti, per come la vedo io, il jazz puro ha già dato tutto, è come la musica classica. Bisogna guardare oltre, sperimentare, contaminare per creare nuovi mondi, come faceva Corea, appunto».

Cosa stai preparando ora?
«Sono indeciso tra un disco di piano solo con cover dei Depeche Mode, band che adoro, o uno che riprenda brani dei Metallica, altro gruppo che ho ascoltato tanto. Non sembra, ma ho un animo decisamente rock!».

Federico Ortica e Andrea Palombini: così canta il Mare

Ritorno su un artista che ho intervistato lo scorso anno. Si tratta di Federico Ortica, 41 anni, docente di Composizione Elettroacustica al Conservatorio Francesco Antonio Bonporti di Trento e sound designer di fama. Lo avevo sentito nel giugno del 2020 per un suo progetto che aveva del fantastico: far suonare gli alberi, usare una foresta come cassa di risonanza, ma anche sentire e rielaborare i rumori che gli alberi fanno di continuo, la linfa che scorre, le foglie che tremano impercettibilmente al vento, i rami che scricchiolano.

Esseri vivi come il mare che Federico, insieme ad Andrea Palombini, musicista e skipper che dal 2020 porta avanti un progetto battezzato Onde Sonore il cui sottotitolo è un gioco di parole: musica da mare, hanno deciso di far cantare.

Andrea Palombini, al timone, e Federico Ortica i protagonisti di questo incredibile viaggio sonoro.

È stato lo stesso Federico a chiamarmi «Ciao Beppe, sono in barca con Andrea, siamo partiti da Palermo e arriveremo a Olbia. Dieci giorni di viaggio per captare, con sofisticati microfoni, la vita nell’acqua durante la navigazione, nei porti, di notte e di mattina presto, e sull’imbarcazione – un Jeanneau Sun Odissey 40 – per cogliere la vera essenza dell’andar per mare». Nel progetto è coinvolta anche L’Associazione Spazio Musica di Cagliari, prestigioso luogo della musica d’avanguardia (si occupa di ricerca e produzione musicale da 39 anni).

Incuriosito, conoscendo Fabrizio, gli ho detto subito: «Mi interessa, eccome!». E lì sono partito con le domande: quanti microfoni, che tipo di apparecchiatura, cosa avete sentito, che sensazioni ne avete ricavato, ma il mare e la barca suonano davvero… insomma, una sana curiosità difronte a un progetto che unisce scienza e arte.

«In acqua abbiamo quattro idrofoni che possono arrivare fino a 9 metri di profondità, microfoni direzionali per catturare ogni minima vibrazione sulla barca e un mixer». Per l’esattezza, prosegue Ortica, «siamo partiti con dieci microfoni a contatto, quattro idrofoni, quattro microfoni ambientali, due trasduttori elettroacustici, più il Mixer, un impianto audio, due camere, un modem portatile. E poi gli strumenti: chitarra elettrica, amplificatori, ukulele, tromba, cajon e percussioni…  Abbiamo messo in risonanza la barca, è diventata una barca canterina… e a oggi, abbiamo registrazioni per oltre 10 giga», racconta Federico entusiasta.

Con questo viaggio-esperimento Ortica e Palombini – con l’aiuto di Nicola Casetta al field recording e di Andrea Marchi allo streaming audio/video, quest’ultimo assai complicato in barca – vogliono dimostrare anche che il suono dell’acqua non è solo il banale (anche se bellissimo e tranquillante) frangersi delle onde sugli scogli, ma rumori che, senza quei sofisticati microfoni, in navigazione non si sentirebbero, confusi con i tanti prodotti dall’imbarcazione, dal vento, dai flutti.

Oltre all’esperimento sonoro, durante il viaggio che si concluderà domattina, 5 giugno, a Olbia, ci sono stati incontri con musicisti che hanno usato come basi questi nuovi suoni per improvvisare, creando così melodie dove l’acqua assume una parte fondamentale del tutto. Emozioni? «Tante, sentire il canto dei delfini sott’acqua mi fa fatto venire la pelle d’oca, una registrazione meravigliosa, come pure le sartie in acciaio: in navigazione si sono trasformate in un’interessante sezione ritmica». Alcune registrazioni le potete ascoltare sul sito di Onde Sonore.

Chi ha avuto la fortuna di trovarsi nei porti di attracco di Onde Sonore, ha potuto ascoltare le registrazioni montate da Federico, ma anche artisti come Alessandro Deledda, pianista che ama contaminare jazz ed elettronica e che in barca ha presentato il suo ultimo lavoro La Linea del Vento: se volete ascoltarlo andate sul suo sito. Non lo cito a caso: provate ad ascoltare, per esempio, il brano di Deledda Have You Met Mr. Pongo? e aggiungeteci, dal sito di Onde Sonore, la registrazione della “Navigazione da Cagliari a Villasimius”: troverete assonanze e una melodia che fonde jazz e mare, pianoforte e vento…