Interviste: Mario Caccia, discografico sartoriale e musicista

Mario Caccia, 58 anni, fondatore di Abeat Records – Foto Fatima Batista

Anche per quest’anno ci siamo scrollati di dosso Sanremo. Ne sentiremo parlare di nuovo a fine dicembre, una tregua onorevole per depurarsi dalle sciatte canzoni che sono state imposte per una settimana. Ovviamente con qualche eccezione, vedi il bel brano di Giovanni Truppi ed Elisa e qualche riff  funkeggiante che risvegliava il torpore, mi riferisco a La Rappresentante di Lista… Per il resto big (ma quali?), appiattiti sul nuovo nazionalpop sempre uguale a se stesso, sfinitamente noioso.

Ciò mi permette di introdurre un tema – la cultura musicale – che nel paese della melodia e del lirismo s’è appiattito su uno pseudo rap diventato il nuovo pop. Non importa se non hai voce, se bisbigli non per pathos ma per mancanza di corde vocali e polmoni, se non riesci a prendere una nota. L’importante è rimanere in canoni strettamente vigilati per trarne guadagni, anche sostanziosi.

Non va bene, non va bene per niente. Così s’ammazza la cultura, così si isolano ancora di più quei tanti – eh sì, sono davvero tanti – che sanno suonare e cantare, che cercano percorsi diversi dal mainstream, che studiano perché credono nella loro arte. Artisti che quasi nessuno conosce ma che valgono mille festival in una sola canzone.

Alcuni giorni fa, ben prima di Sanremo, nel mio piccolo mondo di Musicabile ho avuto l’opportunità di intervistare Mario Caccia, il patron di Abeat Records, piccola ma pulsante casa discografica varesina che in catalogo ha per lo più jazz di alto livello.

Non è questione di fare gli spocchiosi, ma proporre buona musica è importante per lo sviluppo di un Paese, tanto quanto un buon libro, una pièce teatrale, una riflessione sulla nostra educazione e in prospettiva, sulla politica, l’economia e i grandi sistemi.

«La musica rientra nelle dinamiche della società contemporanea: tutto ciò che prevede il concetto di scambio viene trattato come commerciale. Promuovere una musica facile, già pronta, è dunque un cavallo vincente. Non ci si impegna e si guadagna», mi dice Caccia, che, oltre a essere un discografico è anche un bravo musicista jazz e pop, bassista per la precisione.

Mario, veniamo subito al punto: perché la buona musica quasi mai coincide con il mainstream?
«Perché la gente non ha gli strumenti culturali per poterla apprezzare. Prendi il jazz, per esempio, i grimaldelli per farlo conoscere sono pochi. Non bastano gli artisti e le case discografiche che li pubblicano. La musica d’avanguardia è, praticamente, sconosciuta. Secondo me è il combinato di due fattori: il fenomeno commerciale e la crescita culturale…».

Ok, essendo la musica un linguaggio – come mi spiegava Claudio Fasoli – se non lo insegni fin dalle scuole primarie, è difficile comprenderlo…
«È un cul de sac, non se ne esce. La storia ci insegna che ci sono fasi cicliche anche nella musica. Negli Stati Uniti, per esempio, il jazz negli anni Trenta del secolo scorso era considerato un genere leggero, snobbato. Il jazz delle grandi orchestre era il pop di quei tempi. Poi, però si è elevato. Perché s’è capito che non era una musica banale. Ogni Paese avanza in base al suo background culturale».

Mario Caccia con Franco Cerri – Foto Stefano Galvani

La cultura è sempre legata a dinamiche socio-politiche…
«In realtà, guardando alla politica, dovremo uscire dalla dicotomia o sei neo-liberista o neo-comunista. Bisogna andare oltre: stiamo vivendo una crisi che se definiamo democratica non si è lontani dalla verità. Ed è una “policrisi”, anche la musica subisce le bordate a destra e a sinistra. L’America ha un suo tessuto culturale, tanto che il jazz da anni è mainstream. In Italia è diverso, abbiamo un ritardo notevole di esperienze e culture musicali. Sempre parlando di jazz: guarda il Nord Europa è avanti, sperimenta, ascolta. Da noi episodi troppo moderni fanno scomparire gli ardori. Il nostro è un Paese vecchio demograficamente e non solo. Tutto di conseguenza è interconnesso, politica, cultura, arte».

Un Paese che non riconosce più il valore di certa musica (classica, lirica, jazz anni Cinquanta, cantautorato anni Sessanta e Settanta…) e che rifiuta di ascoltare cose nuove, per inerzia, pigrizia, avvento del digitale, s’è appiattito: ascolti svogliati e di facile presa…
«Lo streaming ha cancellato una selezione che veniva fatta inizialmente dalle case discografiche, nel bene e nel male. Si è chiusa un’epoca: sento spesso materiale poco significativo. Non è decadenza, ma abbassamento qualitativo. Materiale un po’ meno convincente anche se ben suonato… Abbiamo musicisti d’oro ma musica d’argento…».

Eppure ci sono etichette coraggiose, vedi la Tŭk Music di Paolo Fresu o la stessa Abeat. Investite molto sui giovani, e giustamente…
«Credo si debba rischiare qualcosa in questo mestiere. Già è titanico produrre un nome affermato, figurati dei giovani artisti per lo più sconosciuti!».

E arriviamo ad Abeat…
«Sono sempre stato un musicista atipico, borderline. Una ventina d’anni fa mi trovavo in una serata tra amici che si stavano lamentando delle etichette discografiche allora in auge, incapaci di interpretare le esigenze degli appassionati di certa musica. Così richiesero: “Mario, perché non la fai tu un’etichetta?”. Ho pensato e mi son detto, “perché no?”. Iniziai con due dischi che ebbero una certa eco. Renato Sellani nel 2001: il grande pianista in quel periodo era stato un pochino dimenticato. Pubblicai Il Poeta, in quartetto con De Aloe, Moriconi e Bagnoli. Mi piace pensare di aver avuto un ruolo nel suo rinnovato successo. Quindi, sempre lo stesso anno, Prism, di Don Friedman in trio con Marco Ricci e Stefano Bagnoli…».

Mario raccontami il tuo capitolo di musicista…
«Ho studiato contrabbasso classico che ho dismesso per il basso elettrico. Suonavo musica leggera, di intrattenimento. Il jazz è venuto dopo, l’ho scelto per rispetto e stima, una specie di sudditanza psicologica verso quegli artisti che si divertivano a fare improvvisazione, nella musica pop non si poteva. Mi incuriosivano. Così mi sono dato al jazz. Qualche amico ancora oggi mi coopta a suo rischio e pericolo! Bisogna essere sinceri con sé stessi: sono un musicista piuttosto anarchico. Ho un discreto talento ma uno scarso impegno…Insegno basso in una scuola di musica e cerco di lasciare molta libertà interpretativa ai miei allievi».

Il premio che a gennaio hai ricevuto da TopJazz per Next, il disco di Claudio Fasoli, è un bel riconoscimento…
«Sì, la testimonianza dei vent’anni di lavoro di Abeat Records. E poi sono molto contento per Claudio, sta ottenendo attestati e fama. Per me, diciamo che contribuisce a fare curriculum, come si dice oggi!».

Tra gli artisti nuovi che pubblicherai?
«Ce n’è una che è davvero brava. Si chiama Aura Nebiolo, è astigiana e ha uno straordinario talento, è una musicista completa, canta, compone, arrangia, usa la voce come uno strumento. Ne sentiremo parlare molto…».

Interviste: Claudio Fasoli, il jazz e la cura per l’armonia

La teoria della spugna, ma anche la pratica dell’uvaggio e la pazienza dell’ascolto. Da un’intervista, generalmente, si impara sempre qualcosa. Ti fissi dei punti fermi, delle sensazioni che poi ti riservi di approfondire. Ma, raramente, ti segnano. Nella mia – ormai – lunga vita prestata al giornalismo ho parlato e scritto di centinaia di persone. Ma vi confesso che solo tre mi sono rimaste impresse a distanza di anni, una dall’altra.

La prima è stata con lo scrittore brasiliano Jorge Amado, che mi ha parlato della sua Bahia, la seconda con un altro brasiliano immenso, l’architetto Oscar Niemeyer, la terza oggi, con Claudio Fasoli, compositore, sassofonista, uno dei miti del jazz. Il motivo della mia chiamata a Claudio è stato un premio prestigioso che ha vinto a gennaio: il miglior disco italiano del 2021, con Next, assegnatogli dalla rivista Musica Jazz nel suo annuale “award” Top Jazz. Un premio importante perché il lavoro di quest’album – tra poco ne parlerò più approfonditamente – premia la ricerca oltre che la qualità.

Torno un attimo indietro, a Niemeyer. L’ho intervistato nel suo studio a Rio de Janeiro, a Copacabana, una calda mattina di fine primavera, con il cielo azzurro terso e il sole che rendeva l’oceano scintillante. Di lì a un mese avrebbe compiuto 100 anni. Nel suo ufficio mi colpirono tre cose, un cavaquinho, che lui stesso suonava, una foto in bianco e nero raffigurante tre donne nude, distese (rappresentavano il flessuoso panorama di Rio, ma anche la fissazione dell’architetto per le linee curve) e un enorme televisore che cozzava con la stanza piccola, raccolta. Lì il geniale professionista che disegnò Brasília e lasciò le sue tracce in tutto il mondo, Italia inclusa, componeva la sua arte. Un anziano signore con una creatività fanciullesca accompagnata da una saggezza dovuta ad anni d’esperienza sul campo, tracciava con il carboncino sulla parete che faceva imbiancare ogni mese, veloci linee che guardavano il futuro, spazi che nascevano modellando il cemento, curvandolo, rendendolo armonico con la natura circostante, grazie anche a giochi d’archi e d’acqua e a soluzioni estreme. L’architettura come mezzo per diffondere cultura e bellezza, aiutare la gente comune a guardare oltre i propri limiti (tempo, censo, educazione) e le difficoltà della vita.

Parlare con Claudio Fasoli mi ha ricordato proprio tutto questo. Nonostante suoni da anni, il musicista continua a ridisegnare il pentagramma con la sua musica intuitivamente fresca, guardando al futuro, cercando di non ripetersi, creando suoni diversi… Fare arte e cultura, appunto…

Ho iniziato ad apprezzare Fasoli, poco più che adolescente, negli anni Settanta quando faceva parte di quella band, per me mitica, che furono i Perigeo. Ricordate Azimut? Era il 1972. E anche Abbiamo tutti un Blues da piangere (1973), o La Valle dei Templi (1975). Una band che sancì l’inizio della fusion in Italia. Certo, c’erano anche gli Area, come mi fa notare lo stesso musicista. Ma il sax di Claudio, le tastiere di Franco d’Andrea, la chitarra elettrica di Tony Sidney, il basso di Giovanni Tommaso e la batteria di Bruno Biriaco sono un capitolo importante della musica d’avanguardia italiana.

Per questo ho voluto intervistare Fasoli. Milanese d’adozione e veneziano di nascita racchiude l’essenza delle due città, la prima seria, riflessiva, intraprendente, rispettosa dei tempi e dei silenzi, la seconda aperta da sempre alle contaminazioni, elegante, leggiadra. Riunire armonia ed efficenza è una fortuna per chi la sa cogliere…

Ultima precisazione prima di leggere l’intervista: in Next, disco pubblicato dalla Abeat Records il 5 agosto dello scorso anno, che vi raccomando di ascoltare attentamente perché entra poco a poco, sottilmente persuasivo, per poi conquistare, Claudio ha dei meravigliosi compagni di viaggio: il chitarrista Simone Massaron, il contrabbassista Tito Mangialajo Rantzer e il batterista Stefano Grasso, tutti milanesi. Un quartetto incredibile…

Claudio, partiamo dal Top Jazz per Next, miglior disco 2021…
«È un riconoscimento importante, che dà soddisfazioni, perché indica che abbiamo intrapreso una strada giusta, riconosciuta e riconoscibile. Un premio apprezzato visto che viene assegnato da una giuria composta da critici specializzati».

Un lavoro dove proponi forme innovative nel linguaggio jazz.
«Seguo la mia curiosità. Per me era importante riuscire a realizzare un progetto con una realtà sonora caratterizzata da suoni diversi da quelli fatti finora. Fissare un’idea di progetto aprendo una nuova strada rispetto alle ultime produzioni. Questo non vuol dire che abbia chiuso con le esperienze precedenti. Next è un disco fondamentale per verificare il mio lavoro».

Una prova del tuo “Inner Sound”, il suono interiore di cui parli spesso? (Il musicista ha pubblicato anche un libro sul tema, Inner sounds nell’orbita del jazz e della musica libera, 2016, oltre a un album, Inner Sounds, dello stesso anno, con il Double Quartet, ndr)…
«È l’idea giusta. Il musicista jazz, che ha la responsabilità e l’opportunità di caratterizzare la sua musica, lo fa in base ai suoi ascolti. Deve comportarsi come una spugna, e cioè assorbire, ascoltare, tanto e di tutto, partendo dalla musica classica. L’ascolto è importante, perché solo così si ha la possibilità di ampliare le possibilità espressive. Inner Sound significa anche comportarsi come un bravo enologo, saper dosare uve diverse e miscelarle in una botte dove l’uvaggio riposerà per diventare un’altra cosa, ricca, intrigante, soprattutto diversa. Senza il primo passo non ci sarà il secondo. Se ascolti King Oliver, Chopin, Debussy, Keith Jarret, Jan Garbarek e Miles Davis otterrai di sicuro un suono che non è quello dei singoli musicisti ma un altro, elaborato dalla tua conoscenza e creatività».

Buona parte del tuo lavoro, dunque, è ascoltare…
«Dedico molto tempo, perché la musica è fatta di tante cose, entri in contatto con varie esperienze. Non è detto che tutto ciò che si ascolta sia necessariamente buono o apprezzato».

Scivolo sui ricordi, tenendo il tema Inner Sound: i Perigeo sono stati una delle band che, negli anni Settanta, hanno contribuito ad accendere la mia passione per la musica. Siete stati i primi in Italia a inserire il concetto di Fusion…
«Quello che caratterizzava i Perigeo era l’uso del rock come elemento ritmico in un’architettura  jazzistica. Non facevamo jazz ortodosso, era piuttosto la ricerca di qualcosa di nuovo, ma il linguaggio dei Perigeo era jazzistico. Non eravamo i soli, anche gli Area lavoravano più o meno in quel senso».

Elementi ritmici presi da hip hop o rap non sono nelle tue corde?
«Herbie Hancock ha spesso usato questo materiale con risultati più o meno discutibili. Non sono nelle mie corde, non li ho mai studiati seriamente e, a dire il vero, non interessano alla maggior parte dei musicisti jazz, sia americani sia europei».

Ciò significa che…
«Nella mia musica cerco di essere integerrimo. Preferisco rispettare le mie valenze facendo musica onesta che ha in sé delle verità. Non faccio musica per gli altri, non seguo le mode per vendere. È una musica autentica, vera. Pop e Hip Hop sono generi che non conosco e non sento il bisogno di approfondire. Sarebbe come chiedere a Debussy perché non ascolta Stravinskij. Ti confesso che tanti ritmi africani non li ho coltivati a lungo. Sono più per la cura dell’armonia e della melodia».

Come nascono le tue composizioni?
«(ride, ndr) Mi hanno fatto addirittura un docufilm (Claudio Fasoli’s Innersounds di Angelo Poli e Carlodavid Mauri, 2018, ndr). In tempi normali, in modo del tutto occasionale. Sono un po’ evasivo. Ogni giorni mi assalgono tante idee, certe volte, per strada, mi viene in mente un brano perfettamente congegnato. Se trovo qualcosa su cui scrivere me lo appunto, altrimenti, dopo dieci minuti me lo sono già dimenticato. Quando, invece, ho bisogno di comporre perché non ho musica pronta, mi metto a strimpellare al pianoforte… Recentemente ho trovato un faldone di appunti dove avevo già preparato alcuni brani completi, che mi ero totalmente scordato di aver scritto. Due di questi li ho uniti in un unico brano, Mix, che ho pubblicato su Next».

Com’è il tuo rapporto con la musica elettronica?
«Negli ultimi dischi ho usato solo strumenti fisici, ma la trovo estremamente scenografica, evocativa, seduttiva, sensazioni che non necessariamente gli strumenti normali sanno trasmettere. Usare l’elettronica per me è come imparare una lingua straniera: vieni a conoscenza di altri mondi sonori e amplii, così, le tue possibilità. Il jazz è il mio italiano, ma posso imparare il mio francese, il mio russo, che è l’elettronica».

Il jazz è un po’ come l’Esperanto, un insieme di lingue diverse…
«Di bello ha la disponibilità ad aprire la mente a ogni tipo di esperienza e rendere “jazz” ciò che non lo è. Se ascolti Wayne Shorter ci trovi Chopin, Debussy, la cultura della musica in senso lato. Il jazz ha sempre assorbito e/o arricchito, è sempre disponibile all’apertura, un linguaggio straordinario».

Però non è di massa. È per pochi privilegiati?
«Il Jazz è una musica di nicchia, ma non per sua scelta. Non viene presentato come meriterebbe, è praticamente uno sconosciuto, come la musica contemporanea. La verità è che non lo si fa mai ascoltare. Il jazz esiste nei vinili, nei Cd, ma non nelle radio. Non ci sono spettacoli diffusi. Fanno ascoltare il gospel passandolo per jazz».

Perché, secondo te?
«Per lo stesso motivo per cui in Italia non esiste che ti vedi al cinema un film in lingua originale. Non ci abituiamo a sentire suoni e parole pronunciati in maniera diversa dalla nostra. Dovremmo, invece, addestrarci ad ascoltare altre lingue. Lo stesso vale per il jazz. È una questione culturale e un’emarginazione razziale, vale anche per la musica classica: le poche volte che viene trasmessa alla radio o in televisione, se non sei avvezzo ad ascoltarla, cambi subito canale, reputandola noiosa! Abituandosi a sentirla, come fai con una lingua straniera, entri nel suono, la capisci, la riconosci, la acquisisci come linguaggio. Se i mezzi audiovisivi fanno ascoltare solo il festival di Sanremo, fatto bene non lo metto in dubbio, ma pompato solo per scopi commerciali, si crea di fatto una discriminazione, impedendo a molte persone di ampliare i propri orizzonti culturali. Il risultato è che c’è un grande timore ad ascoltare ciò che è diverso dal mainstream perché è ignoto, e l’ignoto spaventa».

Come ti sei avvicinato alla musica?
«Nell’infanzia e in gioventù sono sempre stato immerso nella musica. Ai tempi, la radio trasmetteva molta più musica classica di oggi. Ho ascoltato anche arrangiamenti di orchestre che mimavano il jazz. Poi… mi sono innamorato del sassofono. Ho vissuto cinque anni ascoltando solo Lee Konitz. Mi piaceva anche Charlie Parker, ma Konitz aveva un linguaggio e un suono proprio, una sua identità. Geni, erano dei geni, gente che inventava cose che non esistevano».

Quindi, tornando alle “lingue straniere”, questo analfabetismo di ritorno è dovuto a una “settorialità” commerciale dei mezzi di comunicazione?
«Se trasmetti un concerto di Keith Jarret o il bellissimo docufilm su Michel Petrucciani (Body&Soul, 2011, ndr) alle 2:30 del mattino, di fatto impedisci di approfondire e imparare. Il Jazz non viene fatto conoscere. Era così anche negli anni Novanta nei Conservatori, quando insegnavo composizione jazz… Avevano aperto opportunisticamente le porte al jazz, ma, in realtà, questo veniva ostacolato. Poi c’erano anche invidie accademiche: io avevo 12 allievi e facevo lezioni singole di un’ora, altri docenti avevano un solo alunno… Oggi abbiamo Stefano Bollani che, nei suoi programmi televisivi, tenta di proporre il jazz come può. Per il resto, silenzio assoluto».

Ultima domanda: ti ha mai attratto la bossanova?
«La musica brasiliana mi piace tantissimo, mi commuovo ogni volta che ascolto quel capolavoro di Tom Jobim che è Retrato em Branco e Preto. È devastante la bellezza di quella musica che Stan Getz ha poi diffuso negli Stati Uniti. È un genere con grandi testi, un ritmo intelligente, una bella armonia. Jobim e Gilberto sono stati musicisti incredibili. E Ivan Lins è… straordinario!».