Interviste: il “prossimo passo” di Roberto Occhipinti…

The Next Step. Il Prossimo Passo. È il titolo di un album uscito venerdì scorso firmato da Roberto Occhipinti. Una frase, oserei, lapidaria, che significa molto nella musica. Avanzare, trovare nuove sonorità, raccontare un futuro in note, evolvere, rischiare, rispettare.

Roberto Occhipinti è un canadese, nato a Toronto 66 anni fa, figlio di genitori siciliani di Modica emigrati in cerca di lavoro dall’altra parte dell’Oceano. È un grande contrabbassista e bassista. Viene dalla musica classica – che suona tutt’ora – è passato per la musica contemporanea, ha suonato con i Gorillaz di Damon Albarn e, da sempre, ha una grande passione per il jazz. Compositore e musicista, aperto e gioviale come il sole di quell’isola che considera il suo paradiso. Ha un fratello, Michael, chitarrista jazz di fama mondiale, 54 anni, e un cugino, David, stessa età, altro abile chitarrista. Tutti nati in Canada, cittadini canadesi ma con anche, in mano, il passaporto italiano.

The Next Step è suonato in trio. Assieme a lui, Adrean Farrugia al pianoforte e Larnell Lewis alla batteria. Per un musicista che ha frequentato le grandi orchestre, il trio è il modo migliore per esprimersi come compositore e arrangiatore. In trio Roberto ha suonato molto, per lo più con musicisti cubani, a partire dal grande Hilario Duran con cui ha condiviso per oltre vent’anni i palchi di mezzo mondo.

Prima di leggere l’intervista telefonica che ho fatto a Roberto, qualche annotazione sul disco. Un lavoro molto bello, appassionato, dove il contrabbasso viene suonato con grande tecnica perché Occhipinti passa dall’archetto alla percussione con grande naturalezza, anzi li suona contemporaneamente: la formazione classica e contemporanea viene fuori di prepotenza. L’improvvisazione non è mai esasperata, tutto calibrato tra il pianoforte di Farrugia e la batteria di Lewis che si dedica a un complesso lavoro ritmico.

Nove brani, in tutto (54 minuti e 65 secondi), sei di questi scritti da Roberto e tre riarrangiati. Il primo è di Alessandro Scarlatti, il musicista barocco con natali siciliani (sarà un caso?): O Cessate di Piagarmi, trasposto in jazz, con la voce di Ilaria Crociante, un adagio trasformato in un piccolo capolavoro “smooth” ricco di sfumature, con un evocativo assolo al contrabbasso. Il secondo è la rivisitazione di Opus Pocus, brano del mitico Jaco Pastorius, pubblicato sul primo, omonimo disco solista del bassista degli Weather Reports, uscito nel 1976. Un pezzo piuttosto difficile per tecnica di esecuzione che Roberto ha arrangiato senza snaturare la linea di basso. D’altronde Jaco amava suonare il fretless che gli permetteva certe escursioni sonore che Roberto bene interpreta nel contrabbasso… Sempre in Opus Pocus, complimenti ad Adrean Farrugia per come ha sostituito con il pianoforte l’immensa bravura di Herbie Hancock e pure la partitura al sax di Wayne Shorter.

The Peacocks, il terzo, brano, di Jimmy Rowles, è la sintesi della tecnica di Occhipinti di cui vi parlavo prima, corde suonate con l’archetto e percosse per esaltare al massimo il suono poliedrico del contrabbasso, simile a una sezione d’archi. Three Man Crew è il titolo della sesta traccia, ed è un omaggio al  concetto di trio jazz, inteso come luogo fisico e artistico, la perfezione musicale: pianoforte, basso e batteria, cosa volete di più? E i tre non fanno di certo fatica a spiegarne il concetto. Un’intesa complice e divertita di tre amici affiatati che se la raccontano davanti a un buon bicchiere di rosso morbido dai caldi tannini.

Di Occhipinti vi consiglio anche un bellissimo album del 2018 titolato Lei: Music for Solo Bass (2018), dove il musicista sfrutta al massimo la conoscenza dello strumento, per un lavoro iconografico. Altro album da tenere nella vostra collezione di ascolti è A Bend in the River del 2008, in quartetto con David Virelles, pianoforte, Luis Deniz, sax, e Dafnis Prieto alla batteria, dove trovate una bella versione di Naima di John Coltrane. Vi lascio anche un terzo disco che vale la pena ascoltare, ed è Stabilimento (2016), dove c’è un pezzo che mi ha colpito molto, ed è Dom de Iludir, bellissimo brano di Caetano Veloso

Roberto sei un contrabbassista, un compositore, hai un’etichetta discografica (Modica Music), suoni classica, contemporanea, musica latina, afrocubana, jazz e anche rock e hip hop sperimentale, vista l’esperienza con Damon Albarn e i Gorillaz…
«(Ride, ndr). È vero, mi dice in un ottimo italiano con inequivocabile inflessione sicula. Dopo il conservatorio ho iniziato a suonare musica classica nelle grandi orchestre sinfoniche, ho suonato anche in ensemble di musica contemporanea, con Luciano Berio e Salvatore Sciarrino. Però mi piace molto anche il jazz. Ho suonato tanto con musicisti cubani: con Dafnis Prieto e Horacio “El Negro” Hernández, due virtuosi batteristi, sono stato per vent’anni in trio con Hilario Durán, pianista cubano che vive a Toronto… Sono fortunato, perché grazie a tutte queste esperienze ho creato il mio linguaggio musicale».

Apriamo una parentesi: sei nato a Toronto, dove vivi, ma sei figlio di italiani. Così anche Durán, nato a Cuba ma cittadino canadese…
«Credo che Toronto sia la città più multiculturale del mondo. È un luogo effervescente, dove vivono tante etnie diverse, si parlano altrettante lingue diverse. Toronto ha una ricca popolazione di origine italiana che continua a parlare italiano. I miei genitori sono partiti da Modica agli inizi degli anni Cinquanta, per venire qui a lavorare. I Canadesi sono diversi dagli americani: qui praticamente tutti si sentono orgogliosamente canadesi ma anche inglesi, francesi, italiani… C’è sempre un piede in due mondi e credo sia per questo che abbiamo doppie, triple mentalità.  Anche riguardo al cibo siamo così: io mangio a mezzogiorno italiano, la sera tailandese, il giorno dopo cinese, l’altro ancora indiano. Mi piace cambiare, è naturale per me. E come per il cibo è così per la musica. Siamo un popolo cortese, siamo neutrali, c’è da aver paura solo quando giochiamo a hockey!».

Perché il contrabbasso?
Da ragazzo nella biblioteca della scuola ho ascoltato Oscar Peterson (mitico pianista, ndr). Suonava in trio con Ray Brown al contrabbasso ed Ed Thigpen alla batteria. Il contrabbasso di Ray Brown mi ha incantato e grazie a lui ho deciso cosa volevo suonare e cosa sarei diventato».

Hai dedicato un disco al tuo strumento, Lei: Music for Solo Bass
«Tutto è nato perché avevo affittato una casa a Ortigia, Siracusa. Nella chiesa di San Cristoforo c’era una mostra dell’artista romagnolo Mauro Drudi, chiamata “Lei”: (Drudi è un artista che, partito da un volto, quello della Vergine Annunciata di Antonello da Messina, lo ha reinterpretato in diversi modi, tonalità, colori, dipinti su tavola e su tela, ndr). In quella chiesa avevo fatto un concerto e ne ricordavo l’acustica. Così, una volta tornato a casa, a Toronto, ho acquistato un nuovo microfono e l’ho provato da solo, suonando un’oretta, nella cantina di casa mia. Quel lavoro, riascoltandolo, l’ho visto bene come sottofondo alla mostra di Drudi. L’ho inciso e l’ho mandato a Mauro dicendo che poteva usarlo come colonna sonora. Se ascolti bene, c’è anche, a tratti, il rumore di sottofondo della caldaia (ride, ndr)».

Un disco che ho apprezzato molto! La Sicilia, comunque, ce l’hai sempre nel cuore. In Stabilimento, l’immagine di copertina sono le rovine della Fornace Pennisi, sempre di Siracusa…
«Vero, ci andavo a fare il bagno da bambino. Ho iniziato a frequentare la Sicilia da quando avevo sei anni! Scherzo sempre con i miei amici siciliani. Dico loro che sono l’Ultimo dei… Modicani! Allora era sconosciuta, oggi è famosissima perché è diventata uno dei simboli della saga del commissario Montalbano. Mio padre e mia madre se ne andarono da Modica nel 1953. Non perché volevano andare all’estero, ma perché costretti. Non avevano nemmeno il pane per mangiare…».

Rispetto a Toronto l’isola ha un clima più… mite!
«Sono di Toronto ma non ho mai sopportato il freddo! Per questo amo la Sicilia, è una terra ricca di cultura, calda!».

Sei un artista affermato. Hai all’attivo numerosi premi vinti per la tua professione, tra cui ben 5 Juno Awards. Anche tuo fratello Michael ne ha vinti tre…
«Pensa che a un’edizione dei Juno Awards eravamo entrambi candidati, uno contro l’altro. È stato divertente: lui per aver lavorato a un progetto, diventato un disco, sulla musica tradizionale siciliana, basato sul viaggio in Sicilia dell’etnomusiocologo Alan Lomax fatto tra il 1953 e il 1954, The Sicilian Jazz Project, io per il disco A Bend in the River! Siamo una famiglia musicale, è vero! Ma siamo stati anche fortunati di essere nati in Canada. Ai miei tempi, in Ontario, i college avevano l’orchestra sinfonica, la banda e il coro. C’era la possibilità di studiare, e bene, la musica. In Ontario ci sono molte altre famiglie musicali oltre alla nostra! Se fossi nato in Sicilia in quegli anni, sarei finito a fare il mestiere di mio padre, di mio nonno e del mio bisnonno, e cioè, il muratore… Il sistema di studio che avevamo in Ontario era fantastico. Nel corso degli anni, colpa della crisi economica, di altri modi di pensare, i tagli alla cultura sono stati sempre più sostanziosi, con i risultati che vediamo ora, un appiattimento musicale e culturale…».

Comunque in famiglia la musica doveva avere un ruolo importante!
«È chiaro che nella famiglia Occhipinti ci fosse già una propensione allo studio della musica. Ho cugini a New York che fanno i musicisti. Mio padre, come sai, faceva il muratore, scalpellino, ma conosceva l’opera e la cantava! A Modica lavorava anche per il Teatro cittadino, un vero gioiello, contribuiva alla manutenzione e così si ascoltava le opere in cartellone. Sono cresciuto ascoltando tanta musica. Mio papà comprava molti dischi… Ho anche un “figlio musicale” che però non ha avuto le stesse opportunità nostre. Purtroppo non c’è valore oggi per la musica e la cultura…».

C’è molto appiattimento, tanta banalità nel mainstream…
«Vero, però in Canada, Stati Uniti e Gran Bretagna sto vedendo una generazione preparata e colta, con un livello musicale altissimo che sta cercando di uscire allo scoperto. Io, mio fratello, mio cugino abbiamo frequentato l’Humber College, istituto prestigioso, l’equivalente del Berklee College of Music di Boston. Questi ragazzi vengono dalle stesse scuole… In più, i giovani, grazie alla tecnologia, hanno informazioni che noi non avevamo prima, tutto gira molto più velocemente».

Roberto raccontami dei Gorillaz e di Damon Albarn…
«Si parla di vent’anni fa, al primo tour dei Gorillaz in Nord America. Il loro bassista, un jamaicano che aveva avuto problemi non risolti con la giustizia americana, venne arrestato non appena misero piede a Toronto La band si trovò inguaiata e Albarn iniziò a cercare convulsamente un sostituto. Grazie a conoscenze, allora i Gorillaz e io eravamo sotto contratto della stessa casa discografica, la EMI, arrivarono a me. Per farla breve, mi ascoltarono, eseguii la partitura dei loro brani e mi ritrovai sul palco senza aver ascoltato il disco che stavano portando live. Con loro ho fatto praticamente tutta la tournée americana e tra di noi s’è creata una vera amicizia. Damon Albarn successivamente mi ha coinvolto in un progetto musicale in Mali e, grazie sempre a quest’amicizia, ho conosciuto Tony Allen, che faceva parte di un’altra band-progetto di Albarn, The Good, The Bad & The Queen. Ho suonato con Tony, ed è stato un grande onore…».

Scivolo nell’attualità: cosa pensi della guerra di Putin in Ucraina e dell’allontanamento di Valerij Gergiev dalla Scala di Milano?
«Mi ha colpito molto, e con me i canadesi, visto che il mio Paese ospita una grandissima comunità ucraina: qui a Toronto quasi tutti hanno un amico/a ucraino/a. Sono stato in Russia a suonare e incidere tre volte e ti devo dire che è un Paese stranissimo. Il mio primo maestro di contrabbasso classico, Joel Quarrington, oggi uno dei più grandi contrabbassisti classici del mondo, conosce piuttosto bene Valerij Gergiev, il direttore d’orchestra molto amico di Putin. So che in Italia s’è sollevato un caso per il suo allontanamento dalla Scala perché non s’è dissociato da questa guerra. Credo che noi musicisti dobbiamo prendere posizione, non sono d’accordo che la musica sia altro. La musica fa parte della vita e i musicisti devono dire che c’è qualcosa che non va in tutto questo, dobbiamo marcare una linea sulla sabbia oltre la quale non si deve andare. Per quello che sta succedendo oggi e per come s’è comportato, devo abbandonare tutto il rispetto che ho per Gergiev. È una questione di umanità e non di politica».

Roberto, porterai in Italia il tuo The Next Step?
«Ora è molto difficile. Vorrei venire in Europa, ci sarebbe il Jazzahead! in Germania a fine aprile (quest’anno la kermesse di Brema incontrerà il jazz canadese, ndr). Sto comunque cercando di organizzare per settembre, magari direttamente in Italia!».

Grazie del tuo tempo Roberto, spero di sentirti presto…
«Aspetta, aspetta, prima ti faccio un regalo, un secondo di pazienza…».

Rumori di sottofondo, poi arriva il suono del contrabbasso. «Lo senti?», mi urla. «Sì, sì, forte e chiaro!», rispondo. Un paio di minuti di musica, tutta per me! Che emozione… «È Chelsea Bridge di Billy Strayhorn! Ora ti lascio, stasera ho un concerto…».

Tre dischi per il ponte/1 – Tony Allen, Moby e Charles Lloyd

Il ponte che ci porta alla festa della Repubblica, il 2 giugno, è l’occasione per ascoltare nuova musica. Ho pensato, quindi, di condividere con voi sei dischi in due post, tutti di recente o freschissima uscita, che hanno catturato la mia attenzione. Come sempre, questione di gusti. Non pretendo di imporre, ma piuttosto di condividere quello che mi piace mettere in cuffia…

1 – There Is No End – Tony Allen

Partiamo forte, con un disco pubblicato il 30 aprile scorso. Un lavoro postumo, quello di Tony Allen, morto a Parigi lo scorso anno, il 30 aprile, appunto, per un aneurisma. Il disco era quasi ultimato, lo aveva già più che imbastito. Per il padre dell’Afrobeat, assieme a Fela Kuti con il quale ha suonato per anni prima nei Koola Lobitos e quindi nei mitici Afrika 70, questo lavoro è la conferma  di come Allen ha concepito la musica e la batteria, strumento che suonava con una devozione e una conoscenza unica. Negli oltre sessant’anni di carriera Tony Allen ha messo a disposizione il suo incredibile know how ad artisti famosi e a quelli alle “prime armi”. Se credeva a un progetto, statene certi, lui c’era. Come nel supergruppo The Good The Bad and the Queen insieme a Damon Albarn (Blur e Gorillaz), Paul Simonon (Clash) e Simon Tong (Verve, Blur, Gorillaz), oppure con Flea, bassista dei Red Hot Chili Peppers, e sempre Damon Albarn, sotto il nome di Rocket Juice & The Moon (ascoltate Poison, grandi!). Ha suonato la batteria anche per Jovanotti, nell’album Oh Vita!. Con There Is No End, collabora con producer e rapper di varia estrazione: c’è Jeremiah JaeGang On Holiday (Em I go We?) – e anche Danny Brown – splendida la loro Deer in Headlights. E ancora, Mau Mau, con la keniota Nah Eeto; o Cosmosis, brano con Skepta e il poeta e scrittore nigeriano Ben Okri. Una iniezione di vita e di energia. E un grazie postumo a questo artista incredibile, nato a Lagos, in Nigeria, ma cittadino del mondo, al servizio della musica.

2 – Reprise – Moby

Reprise, nel senso di riprendere in mano canzoni, hit che hanno fatto conoscere l’artista newyorkese, per offrire ulteriori e nuove suggestioni. L’album, uscito fresco di stampa oggi, 28 maggio, per la prestigiosa etichetta discografica Deutsche Grammophon, è la dimostrazione che Moby è un artista curiosi e completo. Accettare la semplicità e la vulnerabilità di strumenti acustici o classici invece dell’elettronica è stata la sua sfida, come ha dichiarato quando ha annunciato l’uscita del disco. A dire il vero, un certa forma meditativa l’avevamo vista nell’album “pandemico” Live Ambient Improvised Recordings Vol. I, sonorità in cerca di pace e tranquillità spirituale e fisica. La passione per la classica l’aveva preso nel 2018, quando fece un concerto dal vivo con il suo amico Gustavo Dudamel, direttore d’orchestra e violinista venezuelano, alla Walt Disney Concert Hall insieme alla Los Angeles Philarmonic. Ecco, dunque, Reprise, eseguito con la Budapest Art Orchestra e un nutrito numero di straordinari interpreti, tutti grandi artisti: Gregory Porter e Amythyst Kiah per cantare una strepitosa versione di Natural Blues, Mark Lanegan e Kris Kristofferson per una solida, calda e “sofferta” The Lonely Night, poi Alice Skye, Apollo Jane, Darlingside, Jim James, Luna Li, Mindy Jones, Nataly Dawn, Skylar Grey e Vikingur Ólafsson, il pianista islandese che tre mesi fa pubblicato un album molto interessante, Reflections, dove interpreta con il suo modo vellutato, quasi misterioso, brani di Rameau e Debussy, al quale Moby ha affidato God Moving Over The Face Of The Waters. Che altro dire: un viaggio “mistico”, un percorso inverso, dall’elettronica all’analogico, incredibilmente affascinante…

3 – Tone Poem – Charles Lloyd & The Marvels

A 83 anni compiuti, il sassofonista di Memphis è in uno stato di grazia estremo. L’album, uscito a marzo di quest’anno, è una delle perle di questo 2021. Anche per chi non ascolta jazz o lo frequenta poco, Tone Poem offre emozioni a non finire. Innanzitutto perché i Marvels, al terzo disco insieme a Lloyd, sono quattro grandissimi musicisti: alla chitarra, sempre più in gran spolvero, Bill Frisell, alla pedal steel guitar Greg Leisz e alle sezioni ritmiche due colonne, il bassista Reuben Rogers e il batterista Eric Harland. E poi perché la scelta dei brani è stata curata con una precisione millimetrica: da partiture classiche come le prime due tracce dell’album, Peace e Ramblin’ di Ornette Coleman, prosegue con Anthem di Leonard Cohen, ve la ricordate? The birds they sang/ At the break of day/ Start again/ I heard them say/ Don’t dwell on what has passed away/ Or what is yet to be… per poi continuare affrontando Thelonius Monk, Gabor Szabo e una versione live molto bella di Ay Amor, storico brano del cubano Bola de Nieve (il suo vero nome era Ignacio Jacinto Villa Fernández, morto a 60 anni nel 1971). Il lavoro di Frisell in questo disco è superbo, tesse merletti per il sassofono di Lloyd, ricama di fino, quasi impercettibile. Come quello della sezione ritmica, efficace e morbida, e gli interventi ricchi e gentili di Leisz.