Floriana Foti: il jazz, la Sicilia e i colori della musica

Floriana Foti – Foto di Jethro Bijleveld

Voci baciate dal sole e dalla grazia. La Sicilia, ancora una volta, mi dà la possibilità di presentare un’altra sua figlia prediletta. Si chiama Floriana Foti, è catanese, ha 37 anni e ha pubblicato poco più di un mese fa il suo primo lavoro, Seven Colors, per TRP Music.

Seven Colors sono, ovviamente, i colori dell’arcobaleno. Che nel lavoro di Floriana esplodono in tutte le loro gradazioni e combinazioni in un caleidoscopio di emozioni, passioni, amore, nostalgia, sensualità, atmosfere che riportano alla terra, al mare, a un’isola ricca di cultura e arte, crogiolo di popoli, multietnica nel cuore e nelle espressioni artistiche.

Il tutto racchiuso in nove “episodi”, tre dei quali originali, composti e arrangiati in ogni loro parte dalla stessa musicista, Seven Colors of Raimbow, If You Stayed With Me dedicato alla nonna paterna, e Spunta Lu Suli, brano di oltre 9 minuti, prolifico biglietto da visita dell’artista. Gli altri sei, scelti da autori che hanno segnato la formazione artistica della musicista catanese, riarrangiati e “amalgamati” in quello che è il mondo musicale e canoro di Floriana. 

C’è, per esempio, una bella versione di Dolcenera di Fabrizio De Andrè, dove l’improvvisazione entra con voce e sax, regalando una tavolozza di emozioni. Lo scat è usato con sapienza e dimostra quanto Floriana domini questa tecnica. A questo proposito ascoltatevi il brano iniziale Seven Colors of the Rainbow o l’energica ’S Wonderful, standard dei fratelli Gershwin, un bonus track che chiude un lavoro senza sbavature e carico di pathos, come un’esplosione di luce, caldo, estate siciliana…

Interessanti e ben riusciti gli interventi sui testi della tradizione che acquistano una veste ethno-jazz, filologica (e qui interviene anche la laurea in Lettere e Filologia Moderna conseguita all’Università di Catania nel 2013). Marzapaneddu (delicato testo messo in musica dalla brava Matilde Politi, che dei canti popolari siculi è autorità indiscussa) ma anche Cu ti lu dissi, con lei diventano piccole opere mistiche, ricordi di un mondo che non esiste più ma che le note del jazz rendono così attuale… Ci sono pure due brani rivisitati della produzione di Rita Marcotulli, L’Amore Fugge e Scitame Sole (quest’ultimo composto dalla Marcotulli e dalla  musicista e cantante napoletana Pia De Vito), amalgamati alla perfezione in quel mondo di colori che Floriana vuole presentarci. 

Una produzione eccellente, dunque. Anche per i musicisti che l’hanno accompagnata: Tony Hoyting al pianoforte, Andrea Caruso al contrabbasso, Quique Ramírez alla batteria, Suzan Veneman alla tromba, Denis Pavlenko al sax alto, Daniele Nasi al sax tenore e Pasha Shcherbakov al trombone, «tutti giovani, talentuosi e portatori di freschezza», mi racconta la stessa musicista.

Dunque, Floriana, Seven Colors è un disco che è molte cose, ethno jazz, composizioni originali, arrangiamenti lavorati con una precisione minuziosa…
«È il mio primo progetto. Il leit motiv è stato: dare varietà al disco. Ci tenevo a trasferire tutto ciò che mi ha ispirato e che ha contribuito a formarmi».

In questo tuo percorso la musica popolare siciliana ha ampio respiro…
«Sì, credo che la musica siciliana si presti particolarmente a essere trasposta nel jazz. Piace soprattutto all’estero, dove c’è sempre una grande attenzione a queste proposte musicali. C’è molta curiosità nel cercare e conoscere la cultura di altri luoghi». 

La lingua siciliana funziona, è musicale…
«Alcuni testi sono vere e proprie poesie. Prendi Marzapaneddu, piccolo marzapane, diminutivo che in siciliano acquista il significato di bocconcino, un vezzeggiativo per parlare dell’amata/o. Il testo si trova nelle raccolte di Alberto Favara, musicista ed etnomusicologo palermitano, vissuto a cavallo tra Ottocento e Novecento, che Matilde Politi ha musicato. Ci sono solo la sua versione e ora la mia, che io sappia. Probabilmente è stato scritto da una donna per la sua delicatezza. Fa parte di quei brani di tradizione orale, racconta di un amore e di un fazzoletto bianco che i marinai lasciavano alla donna amata come pegno affinché lei lo ricamasse e lo restituisse al loro ritorno. La forza del loro legame è tutto in due affermazioni: Tannu si scurdirà lu nostru amuri/ quannu di giugnu veni lu nataliTannu si spartirà lu nostru amuri/ quannu chi sicca l’acqua di lu mari, il nostro amore finirà quando a giugno arriverà Natale o quando si seccherà l’acqua del mare. Un amore eterno!».

Anche Cu ti lu dissi è molto intenso.
«È un’altra canzone che è stata tramandata oralmente e che Rosa Balistreri (cantautrice di Licata, riferimento della musica popolare siciliana, morta ad appena 63 anni nel 1990, ndr) l’aveva trascritta per chitarra e fisarmonica. L’ho rivisitata in chiave Valzer a 6/8, in modo da ottenere un sound più naturale…».

Ho apprezzato molto Dolcenera di De Andrè…
«Ho trasferito sul disco tutte le mie influenze, De Andrè, Rita Marcotulli, Patrizia De Vito. Dolcenera mi piace per il sound, un ritmo a 12/8, un po’ Afro. Ma anche per il tema trattato, e per questo si inserisce tra Spunta lu Suli e Scitame Sole: in questa triade c’è un’idea di rinascita, il sorgere del sole, in mezzo il momento down, al tramonto, con la tempesta (il brano di De Andrè parla dell’alluvione che colpì Genova nell’ottobre del 1970, ndr). È un momento drammatico al quale segue la nuova alba con Scitame Sole, Svegliami Sole, cantata in dialetto napoletano. Mi piacciono le sfumature linguistiche….

Eh già, oltre al Conservatorio hai anche una laurea in Lettere e Filologia…
«Sì mi sono laureata nel 2013. Ho fatto il doppio percorso. Avendo frequentato il liceo psicopedagogico è stato naturale per me iscrivermi a Lettere. L’amore per la musica, invece, c’è sempre stato».

Strade parallele e importanti…
«Utili entrambe. Mio papà è un musicista autodidatta, suona la chitarra e canta. Ha una bella voce, da giovane ha lavorato come speaker in radio. A casa portava sempre tanti vinili, ascoltava di tutto, rock, jazz band, musica italiana, e io ascoltavo con lui, ore e ore. Così è stato il mio primo approccio alla musica. In famiglia sapevano tutti che volevo cantare, non era un mistero. A 15 anni ho iniziato a farlo in vari gruppi. Ho fatto concerti e concorsi. A 23 anni ho deciso di studiare canto, tecnica vocale, armonie. Inizialmente cantavo blues, soul e jazz. Ho studiato e mi sono formata al Cesm (Centro etneo di studi musicali) di Catania, dove oggi insegno. Più mi addentravo nel canto, più mi appassionavo all’improvvisazione. È stata una sfida che io stessa mi sono posta».

E poi cosa è successo?
«Ho pensato di andare a studiare all’estero. Così mi sono trasferita in Olanda al Prins Clauss Conservatory di Groningen, dove mi sono laureata nel 2018. Sono stati anni proficui, stimolanti. Al conservatorio arrivavano a tenere lezioni e master class jazzisti americani molto conosciuti. Con loro c’era un rapporto diretto, si cresceva molto velocemente, una grandissima esperienza: il jazz va suonato non può rimanere solo a livello teorico. Ho dato vita al Floriana Foti Quartet e ci siamo esibiti varie volte a Groningen e dintorni. Lì ho iniziato a scrivere musica e fare i miei arrangiamenti».

Floriana Foti – Foto di Marco Foti

Domanda che faccio spesso ad artisti siciliani e sardi, dando per scontati i napoletani, altra “isola” felice: perché Sicilia e Sardegna regalano grandi artisti? C’è un legame particolare tra terra, cultura e musica? Un’altra brava cantante jazz di cui ho parlato e imparato a conoscere è la tua  conterranea Daniela Spalletta
«Daniela! È bravissima, una mia amica. È vero, abbiamo tanti talenti, prendi ad esempio Seby Burgio. Forse perché noi meridionali abbiamo l’esigenza continua di comunicare, scambiarci saperi, creare jam session, pretesto per suonare insieme. Fenomeno, questo, presente anche in Nord Europa. C’è l’esigenza di creare qualcosa al momento, siamo così, non possiamo farci nulla! E poi, sì, c’è lo stretto legame con la terra, presentare un brano della propria tradizione significa rinnovare questa unione».

Spiegami perché ’S Wonderful, bonus track del disco…
«Fare un disco è un biglietto da visita importante. Per essere onesti fino alla fine, volevo mostrare cosa avevo fatto, quello che mi piace e ’S Wonderful è uno dei miei standard preferiti. Mi sono divertita a riarrangiarlo cercando di dar vita a una versione che rispettasse Gershwin ma che avesse una sua freschezza, con cambi di tonalità, ritmici, di tempo. Una versione leggera, briosa. I tre fiati in risposta alla voce hanno fatto un ottimo lavoro. La parte finale cambia tonalità più volte… mi piace uscire dai canoni, andare un po’ fuori e rimanerci, fa parte della mia personalità».

Hai dedicato If You Stayed with Me a tua nonna, era una donna molto importante per te…
«Nonna Pippa, la mamma di mio papà, è stata la mia supporter su tutto. Avevamo un rapporto molto affiatato. I nonni sono sempre un dono, lei aveva anche una bellissima voce, dote naturale. Anche molti dei suoi undici fratelli avevano una predisposizione alla musica e all’arte in generale, chi suonava il mandolino, chi cantava, chi disegnava…».

Domanda inevitabile: cosa ti aspetti dal disco?
«Il più possibile, anche e soprattutto dall’estero. Credo sia un lavoro che in Europa possa avere successo. Ne sono convinta».

Date di tour già fissate?
«Durante la pandemia ha sofferto tutto il comparto, soprattutto i gruppi emergenti. Dobbiamo aspettare, è inevitabile che le prime date che si assegnano siano state prenotate per i grandi artisti. Ci sono tempi di attesa lunghissimi. La mia speranza è che la situazione si sblocchi quanto prima».

Interviste: il “prossimo passo” di Roberto Occhipinti…

The Next Step. Il Prossimo Passo. È il titolo di un album uscito venerdì scorso firmato da Roberto Occhipinti. Una frase, oserei, lapidaria, che significa molto nella musica. Avanzare, trovare nuove sonorità, raccontare un futuro in note, evolvere, rischiare, rispettare.

Roberto Occhipinti è un canadese, nato a Toronto 66 anni fa, figlio di genitori siciliani di Modica emigrati in cerca di lavoro dall’altra parte dell’Oceano. È un grande contrabbassista e bassista. Viene dalla musica classica – che suona tutt’ora – è passato per la musica contemporanea, ha suonato con i Gorillaz di Damon Albarn e, da sempre, ha una grande passione per il jazz. Compositore e musicista, aperto e gioviale come il sole di quell’isola che considera il suo paradiso. Ha un fratello, Michael, chitarrista jazz di fama mondiale, 54 anni, e un cugino, David, stessa età, altro abile chitarrista. Tutti nati in Canada, cittadini canadesi ma con anche, in mano, il passaporto italiano.

The Next Step è suonato in trio. Assieme a lui, Adrean Farrugia al pianoforte e Larnell Lewis alla batteria. Per un musicista che ha frequentato le grandi orchestre, il trio è il modo migliore per esprimersi come compositore e arrangiatore. In trio Roberto ha suonato molto, per lo più con musicisti cubani, a partire dal grande Hilario Duran con cui ha condiviso per oltre vent’anni i palchi di mezzo mondo.

Prima di leggere l’intervista telefonica che ho fatto a Roberto, qualche annotazione sul disco. Un lavoro molto bello, appassionato, dove il contrabbasso viene suonato con grande tecnica perché Occhipinti passa dall’archetto alla percussione con grande naturalezza, anzi li suona contemporaneamente: la formazione classica e contemporanea viene fuori di prepotenza. L’improvvisazione non è mai esasperata, tutto calibrato tra il pianoforte di Farrugia e la batteria di Lewis che si dedica a un complesso lavoro ritmico.

Nove brani, in tutto (54 minuti e 65 secondi), sei di questi scritti da Roberto e tre riarrangiati. Il primo è di Alessandro Scarlatti, il musicista barocco con natali siciliani (sarà un caso?): O Cessate di Piagarmi, trasposto in jazz, con la voce di Ilaria Crociante, un adagio trasformato in un piccolo capolavoro “smooth” ricco di sfumature, con un evocativo assolo al contrabbasso. Il secondo è la rivisitazione di Opus Pocus, brano del mitico Jaco Pastorius, pubblicato sul primo, omonimo disco solista del bassista degli Weather Reports, uscito nel 1976. Un pezzo piuttosto difficile per tecnica di esecuzione che Roberto ha arrangiato senza snaturare la linea di basso. D’altronde Jaco amava suonare il fretless che gli permetteva certe escursioni sonore che Roberto bene interpreta nel contrabbasso… Sempre in Opus Pocus, complimenti ad Adrean Farrugia per come ha sostituito con il pianoforte l’immensa bravura di Herbie Hancock e pure la partitura al sax di Wayne Shorter.

The Peacocks, il terzo, brano, di Jimmy Rowles, è la sintesi della tecnica di Occhipinti di cui vi parlavo prima, corde suonate con l’archetto e percosse per esaltare al massimo il suono poliedrico del contrabbasso, simile a una sezione d’archi. Three Man Crew è il titolo della sesta traccia, ed è un omaggio al  concetto di trio jazz, inteso come luogo fisico e artistico, la perfezione musicale: pianoforte, basso e batteria, cosa volete di più? E i tre non fanno di certo fatica a spiegarne il concetto. Un’intesa complice e divertita di tre amici affiatati che se la raccontano davanti a un buon bicchiere di rosso morbido dai caldi tannini.

Di Occhipinti vi consiglio anche un bellissimo album del 2018 titolato Lei: Music for Solo Bass (2018), dove il musicista sfrutta al massimo la conoscenza dello strumento, per un lavoro iconografico. Altro album da tenere nella vostra collezione di ascolti è A Bend in the River del 2008, in quartetto con David Virelles, pianoforte, Luis Deniz, sax, e Dafnis Prieto alla batteria, dove trovate una bella versione di Naima di John Coltrane. Vi lascio anche un terzo disco che vale la pena ascoltare, ed è Stabilimento (2016), dove c’è un pezzo che mi ha colpito molto, ed è Dom de Iludir, bellissimo brano di Caetano Veloso

Roberto sei un contrabbassista, un compositore, hai un’etichetta discografica (Modica Music), suoni classica, contemporanea, musica latina, afrocubana, jazz e anche rock e hip hop sperimentale, vista l’esperienza con Damon Albarn e i Gorillaz…
«(Ride, ndr). È vero, mi dice in un ottimo italiano con inequivocabile inflessione sicula. Dopo il conservatorio ho iniziato a suonare musica classica nelle grandi orchestre sinfoniche, ho suonato anche in ensemble di musica contemporanea, con Luciano Berio e Salvatore Sciarrino. Però mi piace molto anche il jazz. Ho suonato tanto con musicisti cubani: con Dafnis Prieto e Horacio “El Negro” Hernández, due virtuosi batteristi, sono stato per vent’anni in trio con Hilario Durán, pianista cubano che vive a Toronto… Sono fortunato, perché grazie a tutte queste esperienze ho creato il mio linguaggio musicale».

Apriamo una parentesi: sei nato a Toronto, dove vivi, ma sei figlio di italiani. Così anche Durán, nato a Cuba ma cittadino canadese…
«Credo che Toronto sia la città più multiculturale del mondo. È un luogo effervescente, dove vivono tante etnie diverse, si parlano altrettante lingue diverse. Toronto ha una ricca popolazione di origine italiana che continua a parlare italiano. I miei genitori sono partiti da Modica agli inizi degli anni Cinquanta, per venire qui a lavorare. I Canadesi sono diversi dagli americani: qui praticamente tutti si sentono orgogliosamente canadesi ma anche inglesi, francesi, italiani… C’è sempre un piede in due mondi e credo sia per questo che abbiamo doppie, triple mentalità.  Anche riguardo al cibo siamo così: io mangio a mezzogiorno italiano, la sera tailandese, il giorno dopo cinese, l’altro ancora indiano. Mi piace cambiare, è naturale per me. E come per il cibo è così per la musica. Siamo un popolo cortese, siamo neutrali, c’è da aver paura solo quando giochiamo a hockey!».

Perché il contrabbasso?
Da ragazzo nella biblioteca della scuola ho ascoltato Oscar Peterson (mitico pianista, ndr). Suonava in trio con Ray Brown al contrabbasso ed Ed Thigpen alla batteria. Il contrabbasso di Ray Brown mi ha incantato e grazie a lui ho deciso cosa volevo suonare e cosa sarei diventato».

Hai dedicato un disco al tuo strumento, Lei: Music for Solo Bass
«Tutto è nato perché avevo affittato una casa a Ortigia, Siracusa. Nella chiesa di San Cristoforo c’era una mostra dell’artista romagnolo Mauro Drudi, chiamata “Lei”: (Drudi è un artista che, partito da un volto, quello della Vergine Annunciata di Antonello da Messina, lo ha reinterpretato in diversi modi, tonalità, colori, dipinti su tavola e su tela, ndr). In quella chiesa avevo fatto un concerto e ne ricordavo l’acustica. Così, una volta tornato a casa, a Toronto, ho acquistato un nuovo microfono e l’ho provato da solo, suonando un’oretta, nella cantina di casa mia. Quel lavoro, riascoltandolo, l’ho visto bene come sottofondo alla mostra di Drudi. L’ho inciso e l’ho mandato a Mauro dicendo che poteva usarlo come colonna sonora. Se ascolti bene, c’è anche, a tratti, il rumore di sottofondo della caldaia (ride, ndr)».

Un disco che ho apprezzato molto! La Sicilia, comunque, ce l’hai sempre nel cuore. In Stabilimento, l’immagine di copertina sono le rovine della Fornace Pennisi, sempre di Siracusa…
«Vero, ci andavo a fare il bagno da bambino. Ho iniziato a frequentare la Sicilia da quando avevo sei anni! Scherzo sempre con i miei amici siciliani. Dico loro che sono l’Ultimo dei… Modicani! Allora era sconosciuta, oggi è famosissima perché è diventata uno dei simboli della saga del commissario Montalbano. Mio padre e mia madre se ne andarono da Modica nel 1953. Non perché volevano andare all’estero, ma perché costretti. Non avevano nemmeno il pane per mangiare…».

Rispetto a Toronto l’isola ha un clima più… mite!
«Sono di Toronto ma non ho mai sopportato il freddo! Per questo amo la Sicilia, è una terra ricca di cultura, calda!».

Sei un artista affermato. Hai all’attivo numerosi premi vinti per la tua professione, tra cui ben 5 Juno Awards. Anche tuo fratello Michael ne ha vinti tre…
«Pensa che a un’edizione dei Juno Awards eravamo entrambi candidati, uno contro l’altro. È stato divertente: lui per aver lavorato a un progetto, diventato un disco, sulla musica tradizionale siciliana, basato sul viaggio in Sicilia dell’etnomusiocologo Alan Lomax fatto tra il 1953 e il 1954, The Sicilian Jazz Project, io per il disco A Bend in the River! Siamo una famiglia musicale, è vero! Ma siamo stati anche fortunati di essere nati in Canada. Ai miei tempi, in Ontario, i college avevano l’orchestra sinfonica, la banda e il coro. C’era la possibilità di studiare, e bene, la musica. In Ontario ci sono molte altre famiglie musicali oltre alla nostra! Se fossi nato in Sicilia in quegli anni, sarei finito a fare il mestiere di mio padre, di mio nonno e del mio bisnonno, e cioè, il muratore… Il sistema di studio che avevamo in Ontario era fantastico. Nel corso degli anni, colpa della crisi economica, di altri modi di pensare, i tagli alla cultura sono stati sempre più sostanziosi, con i risultati che vediamo ora, un appiattimento musicale e culturale…».

Comunque in famiglia la musica doveva avere un ruolo importante!
«È chiaro che nella famiglia Occhipinti ci fosse già una propensione allo studio della musica. Ho cugini a New York che fanno i musicisti. Mio padre, come sai, faceva il muratore, scalpellino, ma conosceva l’opera e la cantava! A Modica lavorava anche per il Teatro cittadino, un vero gioiello, contribuiva alla manutenzione e così si ascoltava le opere in cartellone. Sono cresciuto ascoltando tanta musica. Mio papà comprava molti dischi… Ho anche un “figlio musicale” che però non ha avuto le stesse opportunità nostre. Purtroppo non c’è valore oggi per la musica e la cultura…».

C’è molto appiattimento, tanta banalità nel mainstream…
«Vero, però in Canada, Stati Uniti e Gran Bretagna sto vedendo una generazione preparata e colta, con un livello musicale altissimo che sta cercando di uscire allo scoperto. Io, mio fratello, mio cugino abbiamo frequentato l’Humber College, istituto prestigioso, l’equivalente del Berklee College of Music di Boston. Questi ragazzi vengono dalle stesse scuole… In più, i giovani, grazie alla tecnologia, hanno informazioni che noi non avevamo prima, tutto gira molto più velocemente».

Roberto raccontami dei Gorillaz e di Damon Albarn…
«Si parla di vent’anni fa, al primo tour dei Gorillaz in Nord America. Il loro bassista, un jamaicano che aveva avuto problemi non risolti con la giustizia americana, venne arrestato non appena misero piede a Toronto La band si trovò inguaiata e Albarn iniziò a cercare convulsamente un sostituto. Grazie a conoscenze, allora i Gorillaz e io eravamo sotto contratto della stessa casa discografica, la EMI, arrivarono a me. Per farla breve, mi ascoltarono, eseguii la partitura dei loro brani e mi ritrovai sul palco senza aver ascoltato il disco che stavano portando live. Con loro ho fatto praticamente tutta la tournée americana e tra di noi s’è creata una vera amicizia. Damon Albarn successivamente mi ha coinvolto in un progetto musicale in Mali e, grazie sempre a quest’amicizia, ho conosciuto Tony Allen, che faceva parte di un’altra band-progetto di Albarn, The Good, The Bad & The Queen. Ho suonato con Tony, ed è stato un grande onore…».

Scivolo nell’attualità: cosa pensi della guerra di Putin in Ucraina e dell’allontanamento di Valerij Gergiev dalla Scala di Milano?
«Mi ha colpito molto, e con me i canadesi, visto che il mio Paese ospita una grandissima comunità ucraina: qui a Toronto quasi tutti hanno un amico/a ucraino/a. Sono stato in Russia a suonare e incidere tre volte e ti devo dire che è un Paese stranissimo. Il mio primo maestro di contrabbasso classico, Joel Quarrington, oggi uno dei più grandi contrabbassisti classici del mondo, conosce piuttosto bene Valerij Gergiev, il direttore d’orchestra molto amico di Putin. So che in Italia s’è sollevato un caso per il suo allontanamento dalla Scala perché non s’è dissociato da questa guerra. Credo che noi musicisti dobbiamo prendere posizione, non sono d’accordo che la musica sia altro. La musica fa parte della vita e i musicisti devono dire che c’è qualcosa che non va in tutto questo, dobbiamo marcare una linea sulla sabbia oltre la quale non si deve andare. Per quello che sta succedendo oggi e per come s’è comportato, devo abbandonare tutto il rispetto che ho per Gergiev. È una questione di umanità e non di politica».

Roberto, porterai in Italia il tuo The Next Step?
«Ora è molto difficile. Vorrei venire in Europa, ci sarebbe il Jazzahead! in Germania a fine aprile (quest’anno la kermesse di Brema incontrerà il jazz canadese, ndr). Sto comunque cercando di organizzare per settembre, magari direttamente in Italia!».

Grazie del tuo tempo Roberto, spero di sentirti presto…
«Aspetta, aspetta, prima ti faccio un regalo, un secondo di pazienza…».

Rumori di sottofondo, poi arriva il suono del contrabbasso. «Lo senti?», mi urla. «Sì, sì, forte e chiaro!», rispondo. Un paio di minuti di musica, tutta per me! Che emozione… «È Chelsea Bridge di Billy Strayhorn! Ora ti lascio, stasera ho un concerto…».

Disco del Mese: “Amanti, Santi e Naviganti”: la Sicilia di Antonio Smiriglia

Antonio Smiriglia – Foto Charley Fazio

Ci sono state buone uscite nel mese di febbraio. L’altro giorno i Rehab con Sand Castles, e i Caroline, otto elementi al loro primo disco, ipnotico e riflessivo, con un lavoro che porta il loro stesso nome. Quindi gli Electric Sheep Collective, anche questi artisti al primo disco pubblicato, dieci musicisti per un contemporary jazz frizzante, elaborato, complesso ma seducente (ne riparlerò sicuramente, me lo sono ripromesso!). Quindi c’è il ritorno di Hurray for the Riff Raff con un disco dai contenuti forti, Life On Earth

Ma ce n’è uno che mi ha folgorato, una World Music di marca italiana davvero interessante. E, sì: è proprio lui il Disco del Mese di febbraio. L’autore è Antonio Smiriglia, un artista siciliano, di Galati Mamertino, paese di 2700 anime sui Monti Nebrodi, vicino a Capo d’Orlando, più o meno a metà strada tra Catania e Palermo. Il disco, invece, Amanti, Santi e Naviganti, uscito il 19 febbraio per Aventino Music/Opensound Music, è un piccolo, prezioso gioiello, uno spaccato di vita raccontato in siciliano.

Smiriglia è un musicista che da anni sta dedicando buona parte della propria attività artistica alla ricerca della musica popolare sicula. È un nome affermato nel giro della musica popolare d’autore. Collabora da anni con Ambrogio Sparagna – è voce solista dell’orchestra Tavola Tonda di Palermo, e ha aperto in diverse occasioni concerti all’Auditorium Parco della Musica di Roma. Ha all’attivo quattro lavori discografici, Ventu d’amuri con i Discanto Siculo, Vinni a cantare e Susiti bedda con i Cantori Popolari dei Nebrodi. Ha collaborato anche con Franco Battiato. Grazie a questa straordinaria passione, riesce a raccontare e trasferire nella sua musica atmosfere e ritmi unici. Parliamo di World Music, quella vera.

Devo confessarvi che il lavoro di Smiriglia mi ha incuriosito e stregato non poco. C’è un che di ancestrale che attrae inesorabilmente, una sirena che ti cattura in una rete di spunti sonori, mediterraneità allo stato puro, storia, attualità. 

Arrangiamenti mai scontati, dove tamburi a cornice e bouzuki insieme agli strumenti tradizionali siculi – vedi il friscalettu di canna o il tamburo Marranzano – si amalgamo nella composizione di melodie e armonie che riportano a ritmi antichissimi ma anche a quella certa World Music colta, Peter Gabriel ne è stato un maestro, dove viene sfruttata la bellezza e la potenza melodica in un compiuto e dovuto omaggio a una terra meravigliosa, abitata e conquistata da numerose etnie che ne hanno rafforzato carattere e genio artistico.

Un lavoro pignolo, sia nella composizione sia negli arrangiamenti, una registrazione altrettanto attenta che nobilita strumenti e voce, ne fanno uno dei più belli e interessanti dell’ultimo periodo. L’attacco del primo brano, Naviganti, un contrabbasso che inizia a narrare una litania propiziatoria per la gente che esce in mare, seguito da una chitarra in arpeggio e una serie di vocalizzi di Antonio, una voce acuta e struggente, araba, valgono l’ascolto del disco. Perché lì, in quelle prime frasi sta scritto tutto quello che ascolterete nel disco. Lì, proprio lì, inizia un racconto fantastico fatto di salsedine, afrori amorosi, santi, devozioni, pescatori e migranti. Il Mediterraneo è croce e delizia, soprattutto in questi ultimi anni, vita e morte, amore e sofferenza, calore e gelo… Un disco che puoi annusare, ascoltare con tutti i sensi, e che percepisci subito come tattile.

Dentro Amori, Santi e Naviganti c’è, dunque, un piccolo grande mondo, quello della Sicilia, un’isola che ha migliaia di storie – belle e tragiche – da raccontare e noi, per fortuna, da ascoltare. La cultura musicale mediterranea rivive in preziosi accenti, nessuno prevaricante, piccoli inserti jazz – vedi la batteria in Tempu, suonata da Stefano Sgrò -, frammenti di rock prog – in alcuni punti ci sono echi dei Jethro Tull, di Ian Anderson -, ascoltate il flauto traverso di Fabio Sodano in Controvento -, quindi, il fado non convenzionale di Dulce Pontes (in Si Li Me Paroli).

Il mare porta e confonde tutto, va e viene, e in questo fluttuare galleggiano ritmi e poesie del mondo dove non manca nemmeno il Brasile, con quegli interventi nell’uso dei fiati e dei cambi di ritmo tipici della scuola mineira di Milton Nascimento. Vanno e vengono, naturalmente. L’inizio di Terra lo conferma: un bouzouki metallico suonato da Socrate Verona, a scandire, e il flauto traverso sempre di Sodano a introdurre: brano che racconta il mare degli sbarchi: “Varda la navi ca staci partennu/ Cu li migranti a sbarcari/ Varda la navi ca staci partennu/ Pi farli jri a muriri”, canta Antonio.

Permettetemi un’annotazione sulla voce e sul canto: meriterebbe un post a parte tanto è attento, complesso, teatrale, profondamente legato alla terra. Credo che la summa del canto di Smiriglia la si trovi in Donna Gintili, dove la voce dell’artista si fonde con quella della musicista messinese Oriana Civile, al punto da non percepire più quale sia una e quale l’altra. Perfettamente in sincrono, armonicamente fuse. Un piccolo capolavoro.

Sì, mi ha intrigato molto questo Amanti Santi e Naviganti. Come mi spiegava Ilaria Pilar Patassini nel post pubblicato la scorsa settimana, «quando un disco mi piace lo ascolto, riascolto e ascolto ancora…». Per questo ho chiamato Antonio, per fare quattro chiacchiere con lui.

Bello il titolo Amanti, Santi, Naviganti
«Raffigura e sintetizza la mia terra. L’aspetto amoroso viene dalla tradizione popolare a cui ho voluto dare una nobiltà propria: le serenate, l’amore cantato, contrastato, bello, fatto di passioni, dove ci sono le partenze, la nostalgia i cuori affranti. Santi, perché da sempre qui il sacro convive con il profano. Basti pensare alla commistione in tempo pasquale nel venerdì santo dove convivono riti cattolici e feste pagane. O per esempio, la festa del Muzzuni il 24 giugno, che coincide con la ricorrenza di San Giovanni e il solstizio d’estate. Il Muzzuni è una brocca mozza rivestita di tele e oro pregiati, riempita di sementi fatti germogliare. Un rito propiziatorio in onore della Madre Terra che si rifà alle feste dionisiache…».

E poi ci sono i Naviganti…
«Siamo un’isola, una terra circondata dal mare. Sono numerosi i riti devozionali, chiamati Cialome, che servivano ai pescatori, per una buona pesca, per un ritorno a casa, alla famiglia. Le invocazioni si manifestano in vocalizzi quasi da muezzin, un richiamo di voci per farsi forza durante la pesca del corallo. Invocazioni e ritmo per incitare a remare. Naviganti sono anche i migranti che arrivano sulle nostre coste, gente che spera in una vita migliore e che invece trova, nel mare, la morte».

Qui il testo di Naviganti:
E vidi comu assumma lu curallu
E vidi
E vidi comu assumma lu curallu
E tira
E lu ventu ca lu mari fà strammiari
E vidi e vidi
E vidi comu assumma lu curallu
Comu assumma lu curallu
Ca lu ventu ca sciuscia ora passerà
Ca lu ventu c’acchiana ora carmerà
Amuninni cu li santi ca passari lu fà
Pi la luna e pi li stiddi
Pi li santi piciriddi
La madonna e li santi ni pruteggirà
La madonna e li santi n’accumpagnerà
La madonna e li santi ni pruteggirà
Ca lu ventu ca sciuscia ora passerà
Ca carmerà ca passerà
La madonna e li santi
La madonna e li santi passari lu fà

 

Antonio Smiriglia – Foto Charley Fazio

Antonio cosa ti attrae della musica popolare?
«Ero militare a Caserta. Lì iniziai ad ascoltare la Nuova Compagnia di Canto Popolare, le Villanelle napoletane, Roberto De Simone. Tornato a casa ho studiato la tradizione siciliana, mi incuriosivano i riti, come quello della mietitura, le canzoni che cantavano gli anziani contadini e i pescatori. Sentivo il bisogno di registrarli. Poi… me ne sono innamorato perdutamente. Per questo scrivo e canto solo in siciliano, mi esprimo attraverso la mia lingua, che è vibrante, dagli accenti forti. Nei live mi trasformo, divento tutt’uno con la musica, la tradizione, la vocalità la gestualità, gli spettatori rimangano affascinati da tutto ciò».

Sei nato a Galati Mamertino, paese dei Nebrodi, e hai scelto di vivere qui…
«Sì, sono a mezz’ora dal mare, da Capo d’Orlando, e immerso nell’entroterra dei Nebrodi, un luogo meraviglioso. Sono sempre stato qui, come si dice: le battaglie si fanno sul posto. Avrei potuto andarmene a Roma o a Milano, ma ho preferito rimanere nella mia terra. Ho bisogno di questo posto, mi sento attratto, come se, dentro di me, ci fosse qualcosa che qui trova le pulsazioni giuste. Non riesco a spiegartelo, qui compongo, studio, faccio il musicista, sono me stesso, mi nutro di questo senso di appartenenza. La Sicilia, lo dico sempre, è bedda e maliditta: è un laboratorio a cielo aperto, un luogo che produce storie fantastiche. Ho un rapporto molto bello con lei, anche contrastato, ci sono le difficoltà che si conoscono. Insomma, la Sicilia o la ami o la odi. Qui ci sono molti talenti musicali completamente sommersi, che difficilmente riescono a uscire dai confini isolani. In Puglia, per esempio, è già diverso, grazie all’ormai più che decennale progetto Puglia Sounds, attraverso il quale gli artisti riescono ad avere una certa visibilità».

Oltre alla Sicilia, ti senti attratto da altri luoghi?
«Amo il Portogallo, è un altro posto dove le tradizioni sono ancora forti, ricco di storia di musica. Si Li Me Paroli ha tanto fado dentro».

È, dunque, un bel lavoro di World Music…
«Anche su questo sto molto attento. Fare World Music non significa semplicemente aggiungere uno strumento etnico. È un linguaggio che richiede la conoscenza di tempi musicali scomposti, di accostamenti fra strumenti e voce…».

Quali sono i tuoi ascolti?
«Peter Gabriel, Enzo Avitabile, David Bowie, The Smiths, Simon & Garfunkel. Poi ascolto di tutto, non ho barriere. Quello che non riesco a capire è il nuovo pop italiano. Non è nelle mie corde».

Sei laureato in legge, giusto?
«Sì ho anche fatto pratica. Poi – è un ricordo che non ho mai raccontato – un giorno in cancelleria, dove stavo depositando un atto, ho incontrato un giudice che mi aveva visto suonare e cantare in uno dei miei concerti. Mi disse: “Che ci fai qui? Questo non è il tuo posto, vai a fare Arte”. Così ho deciso una volta per tutte cosa sarei stato!».

Dal Tango, alla bossa, al jazz, il lungo viaggio dei Libertango 5tet

«L’editore, come il musicista, non è altro che un traghettatore di storie». È una frase che mi è piaciuta molto nella sua pulita metafora. L’ho letta in un’intervista a Olivia Sellerio, mi pare l’avesse pubblicata La Repubblica, cantante (il disco Zara Zabara: 12 canzoni per Montalbano è un piccolo gioiello) ed editrice con il fratello Antonio dell’omonima casa editrice palermitana.

Mi è venuta in mente ascoltando un disco uscito a settembre dal titolo Point Of No Return dei siciliani Libertango 5tet. La Sicilia come crocevia di popoli e di artisti vanta un bel parterre di musicisti, a partire da Franco Battiato che ha raccolto l’essenza di quelle contaminazioni mediterranee, alla pianista jazz Cettina Donato, da Mario Venuti ad Alborosie, da Salvatore Sciarrino a Sade Mangiaracina, da Daniela Spalletta, di cui vi ho parlato pochi giorni fa, al sassofonista Francesco Cafiso. Musicisti di varia estrazione, dal jazz alla classica, dal pop al reggae, ne ho citati solo alcuni, non me ne vogliano gli altri che ho dimenticato. E, a questi, aggiungo i Libertango 5tet, band che sta insieme dagli anni Novanta, che s’è eclissata per una quindicina d’anni e che, nel mezzo del cammin della sua vita, è ritornata con un disco davvero interessante.

I cinque componenti sono tutti bravissimi e pignoli musicisti che sanno il fatto loro, venuti su a cultura e musica, ascoltata e suonata. Francesco Calì alla fisarmonica e al pianoforte, Gino De Vita alle chitarre, Marcello Leanza ai fiati, Giovanni Arena al contrabasso e basso elettrico, Ruggero Rotolo alla batteria. 

Point Of No Return è proprio un traghettatore di storie e stili musicali. Sembra – provatelo ad ascoltare in sequenza di brani – un racconto che inizia forte in Argentina con Five or Four Tango, quello alla Astor Piazzolla (non a caso hanno deciso di chiamarsi Libertango!), per poi proseguire con il brano che dà il titolo all’album, Point Of No Return, un’ariosa, brasileira bossa jazz che tanto mi fa ricordare la scuola “mineira”, quella dei vari Milton Nascimento, Wagner Tiso, Beto Guedes, o le influenze di Egberto Gismonti, con la sua musica estremamente colta, contaminata da folk, jazz, classica… A proposito, anche la madre di Egberto, Ruth Gismonti, dotata di una gran voce, è di origini siciliane…

Un’orchestra d’archi, molto cinematografica, riprende le redini nel terzo brano, I’ll Be There, dove il pianoforte di Calì si fonde con una struggente chitarra di De Vita. Siamo ancora in America Latina, ma si inizia ad avvertire la sicilianità in temi musicali cari alle colonne sonore tipiche di un film alla Giuseppe Tornatore.

Il viaggio ha una sterzata improvvisa, allegra, popolare con una fisarmonica da festa e da danze paesane con Alysia’s Dance. Sezioni ritmiche al massimo (vero divertimento per Ruggero Rotolo che lancia stimoli continui alla serotonina) e una chitarra acustica che racconta la gioia di una serata d’allegria in riva al mare in una notte d’estate.

I Libertango 5tet in concerto – Foto Salvo Cantone

I brani si alternano, da sognanti session latin jazz ad accenti di jazz classico, oserei, liberty, con gli strumenti che si richiamano e il contrabbasso che marcia che è un piacere, camminando felpato su sax, chitarra e fisarmonica (Three Brothers).

Brano complesso, in chiave contemporanea, Mal d’Afrique, è tecnicamente perfetto da rischiare di sembrare senz’anima. Pensiero che svanisce presto nel successivo Dr. Tomas e in Life and Death, intensi e struggenti.

Fine col botto con Tango for Sigfred, dove si fa tango, secco, vellutato, sensuale, ma si usa la lingua jazz intrecciandola a una chitarra rock, quasi acida, che ricorda come la musica sia interconnessa e i generi siano solo un aspetto secondario di quel fiume di note placido o impetuoso che ha traghettato l’ascoltatore lungo un disco che vale davvero la pena mettere nella propria collezione.