Roma, alla Casa del Jazz un weekend con Luca Ciarla e il suo Tintiland

Luca Ciarla – Ritratto di Paolo Lafratta

Tintiland. Una crasi per “la terra del Tintilia”, vitigno autoctono molisano dal quale si ricava un vino che ha il colore del rubino, ma anche i profumi e i sapori di una terra poco conosciuta. Non preoccupatevi, non sono passato al turismo enogastronomico. Ma, come spesso accade, la musica c’entra (eccome) anche qui.

Innanzitutto perché la tre giorni di Tintiland si terrà a Roma alla Casa del Jazz, ma soprattutto perché chi l’ha organizzata è la Violipiano Music (coadiuvata da Michele Macchiagodena, direttore artistico del Termoli Jazz Festival, e dall’associazione culturale Jack), impresa fondata vent’anni fa a Hong Kong da Luca Ciarla, musicista di fama, errabondo per scelta, audace nelle sue sperimentazioni musicali e tenace nel diffondere la cultura di una terra piccola ma espressiva.

Leggo il perché di Tintiland spiegato sul comunicato stampa dallo stesso Ciarla: «Siamo cittadini del mondo, soprattutto in questo periodo nel quale esserlo può significare salvarlo, il mondo. Però le radici ce le portiamo dentro, nel cuore e nella mente – e le nostre diversità generano un’enorme ricchezza, senza effetti collaterali. Tintiland nasce per promuovere una terra che sa conquistarti».

Essendo curioso di carattere e professione, l’ho contattato alla vigilia dell’inaugurazione che sarà quest’oggi.

Luca, vino rosso, Tintilia in questo caso, e musica, bell’abbinamento!
«Lo puoi combinare con tante cose buone. Parlo della mia piccola regione, la musica, il grande schermo con Molise Cinema, il Teatro del LOTO (che sta per Libero Opificio Teatrale Occidentale, a simboleggiare un crocevia di esperienze, arti, e culture, ndr) di Ferrazzano, borgo a pochi chilometri da Campobasso. Il Molise è una regione molto semplice, avrebbe bisogno di una scossa…».

Però con il vino e la tua regione hai da tempo una forte connessione. Ricordo nel lontano 2005 avevi pubblicato un disco con un trio particolare, il Luca Ciarla Wine Jazz Trio…
«Vero, tanti anni fa! L’ho costituito a Hong Kong con due straordinari musicisti, il contrabbassista canadese Sylvain Gagnon e il batterista indiano Anthony Fernandes. Con loro suonavo il pianoforte. Ho vissuto a Hong Kong per tre anni, periodo in cui ho cercato di portare la mia cultura e le mie origini anche in Asia. Hong Kong è una città particolare e straordinaria ma anche faticosa. Già allora volevo far conoscere in questo emisfero il vino e la cultura della mia regione».

Fra l’altro un bel disco… A freddo: ma qual è la tua concezione di jazz?
«Potrei definirla anomala, anche se non so se la posso chiamare così! So che gli ingredienti della musica li voglio scegliere a chilometro zero. Per me l’essere un italiano e del Sud ha una valenza. L’approccio mediterraneo nella mia musica è presente, è importante. Il violino è presente nella tradizione ebraica ma anche in quella araba. Fare musica per me è misurarmi con tutto ciò».

La passione per la musica l’hai ereditata?
«Mio bisnonno aveva un’orchestra a Bari. A sette anni vidi per la prima volta il violino e ne fui attratto, così iniziai ad andare a scuola per imparare a suonarlo. Poi è arrivato il pianoforte, anche se, più che un secondo strumento, è lo strumento per eccellenza, imprescindibile se si vuole imparare la melodica di qualsiasi strumento».

C’è da dire che il linguaggio musicale ha catturato non solo te ma anche le tue sorelle…
«Hai ragione (ride, ndr). Siamo una famiglia musicale. Mio padre strimpellava la chitarra da autodidatta, però suonava Bach, Villa Lobos, insomma se la cavava. Mia sorella Giuseppina è una bravissima arpista, vive in Florida e dal 2002 è prima arpista al Sarasota Opera, è di formazione classica ma ama il pop e il jazz. E poi c’è Alberta, che di professione è avvocato ma che ha una gran bella voce…Insomma, sono cresciuto a pane, vino e musica».

Il violino è uno strumento raro, completo e forse per questo, immobile…
«È uno strumento talmente perfetto e bello da vedersi che s’è fermato nel tempo. Non ha seguito nuove strade. Essendo sempre stato un appassionato di jazz e di musica contemporanea, ho sentito la necessità di spingerlo verso altro. Grazie alla tecnologia lo posso usare come fosse un violoncello, un basso, un raddoppio della voce…».

Luca Ciarla nel suo solOrkestra – foto di Alexander Zubko

Proprio a TintiLand porterai questa sera alle 21 un concerto molto particolare, il solOrkestra!
«Sto facendo da tempo una sperimentazione per riuscire a diventare da solo un’intera orchestra. Non lo faccio perché è un bieco tentativo di non pagare i miei colleghi (ride e scherza, ndr) ma perché cerco di creare un percorso nuovo. Grazie a un’app sul telefono che mi permette di suonare con il corpo, ricreo suoni e percorsi melodici per me interessanti. Poi uso anche strumenti “giocattolo”, come il kazoo…Ovviamente non rinnego l’imponente storia classica del violino!».

Lo stai facendo da molto?
«Ho suonato in settanta Paesi nel mondo e in almeno cinquanta ho portato questo mio nuovo modo di intendere il violino, con un gran riscontro di pubblico e critica».

Quindi, non suonerai più con altri?
«Ma no! Suonare con altri bravi musicisti è una gioia immensa. La mia, oggi, è una ricerca di espressione».

Cosa ascolti ultimamente?
«Ascolto di tutto, perché è importante. Uno che sento sempre è il brasiliano Egberto Gismonti, secondo me un grande artista, sempre alla ricerca di nuovi confini musicali».

Prima di lasciarti, torniamo a TintiLand, qual è il senso di questa kermesse?
«Presentare cose belle, cose buone e incentivare la curiosità verso una piccola regione che, credimi, ha il suo perché. Ora sto abitando a Roma, ma da Termoli, la mia città natale, vedo le isole Tremiti, il mare, è una sensazione incredibile ogni volta che arrivo lì. E poi abbiamo anche altri personaggi da scoprire, ad esempio Jacovitti, l’autore di personaggi famosissimi, da Cocco Bill a Cip l’arcipoliziotto. I suoi diari (me li ricordo eccome!, ndr) hanno venduto più di dieci milioni di copie, un personaggio controverso, in realtà libero, che tutti volevano tirare dalla loro parte».

Chiudo con una raccomandazione: questo weekend chi si trova a Roma sa cosa fare! Alla Casa del Jazz per Luca Ciarla, questa sera, ma anche domani sera per Antonio Artese con il suo Voyagesuite per quartetto jazz con dieci sue composizioni originali e, domenica, per Francesca Tandoi Quartet, feat. Daniele Cordisco, con lo spettacolo Jac in Jazz con Stefano Sabelli (attore e fondatore del Teatro del LOTO). Musica e teatro dedicati a Jacovitti…

Dal Tango, alla bossa, al jazz, il lungo viaggio dei Libertango 5tet

«L’editore, come il musicista, non è altro che un traghettatore di storie». È una frase che mi è piaciuta molto nella sua pulita metafora. L’ho letta in un’intervista a Olivia Sellerio, mi pare l’avesse pubblicata La Repubblica, cantante (il disco Zara Zabara: 12 canzoni per Montalbano è un piccolo gioiello) ed editrice con il fratello Antonio dell’omonima casa editrice palermitana.

Mi è venuta in mente ascoltando un disco uscito a settembre dal titolo Point Of No Return dei siciliani Libertango 5tet. La Sicilia come crocevia di popoli e di artisti vanta un bel parterre di musicisti, a partire da Franco Battiato che ha raccolto l’essenza di quelle contaminazioni mediterranee, alla pianista jazz Cettina Donato, da Mario Venuti ad Alborosie, da Salvatore Sciarrino a Sade Mangiaracina, da Daniela Spalletta, di cui vi ho parlato pochi giorni fa, al sassofonista Francesco Cafiso. Musicisti di varia estrazione, dal jazz alla classica, dal pop al reggae, ne ho citati solo alcuni, non me ne vogliano gli altri che ho dimenticato. E, a questi, aggiungo i Libertango 5tet, band che sta insieme dagli anni Novanta, che s’è eclissata per una quindicina d’anni e che, nel mezzo del cammin della sua vita, è ritornata con un disco davvero interessante.

I cinque componenti sono tutti bravissimi e pignoli musicisti che sanno il fatto loro, venuti su a cultura e musica, ascoltata e suonata. Francesco Calì alla fisarmonica e al pianoforte, Gino De Vita alle chitarre, Marcello Leanza ai fiati, Giovanni Arena al contrabasso e basso elettrico, Ruggero Rotolo alla batteria. 

Point Of No Return è proprio un traghettatore di storie e stili musicali. Sembra – provatelo ad ascoltare in sequenza di brani – un racconto che inizia forte in Argentina con Five or Four Tango, quello alla Astor Piazzolla (non a caso hanno deciso di chiamarsi Libertango!), per poi proseguire con il brano che dà il titolo all’album, Point Of No Return, un’ariosa, brasileira bossa jazz che tanto mi fa ricordare la scuola “mineira”, quella dei vari Milton Nascimento, Wagner Tiso, Beto Guedes, o le influenze di Egberto Gismonti, con la sua musica estremamente colta, contaminata da folk, jazz, classica… A proposito, anche la madre di Egberto, Ruth Gismonti, dotata di una gran voce, è di origini siciliane…

Un’orchestra d’archi, molto cinematografica, riprende le redini nel terzo brano, I’ll Be There, dove il pianoforte di Calì si fonde con una struggente chitarra di De Vita. Siamo ancora in America Latina, ma si inizia ad avvertire la sicilianità in temi musicali cari alle colonne sonore tipiche di un film alla Giuseppe Tornatore.

Il viaggio ha una sterzata improvvisa, allegra, popolare con una fisarmonica da festa e da danze paesane con Alysia’s Dance. Sezioni ritmiche al massimo (vero divertimento per Ruggero Rotolo che lancia stimoli continui alla serotonina) e una chitarra acustica che racconta la gioia di una serata d’allegria in riva al mare in una notte d’estate.

I Libertango 5tet in concerto – Foto Salvo Cantone

I brani si alternano, da sognanti session latin jazz ad accenti di jazz classico, oserei, liberty, con gli strumenti che si richiamano e il contrabbasso che marcia che è un piacere, camminando felpato su sax, chitarra e fisarmonica (Three Brothers).

Brano complesso, in chiave contemporanea, Mal d’Afrique, è tecnicamente perfetto da rischiare di sembrare senz’anima. Pensiero che svanisce presto nel successivo Dr. Tomas e in Life and Death, intensi e struggenti.

Fine col botto con Tango for Sigfred, dove si fa tango, secco, vellutato, sensuale, ma si usa la lingua jazz intrecciandola a una chitarra rock, quasi acida, che ricorda come la musica sia interconnessa e i generi siano solo un aspetto secondario di quel fiume di note placido o impetuoso che ha traghettato l’ascoltatore lungo un disco che vale davvero la pena mettere nella propria collezione.