Kole Laca: dal Teatro degli Orrori agli Shkodra Elektronike

Kole Laca – Foto Rozafa Shpusa

Il 10 marzo scorso è uscito un Ep piuttosto unico nel suo genere dal titolo Live @ Uzina, registrato in un vecchio teatro di posa alla periferia di Tirana, dagli Shkodra Elektronike, un duo italo-albanese. Volutamente misterioso, cantato in albanese, tappeti di synth minimal che danno spazio a una voce armonica, melodiosa, a tratti resa più “acida” da incursioni elettroniche…

Ce n’era in abbondanza per stimolare la mia curiosità. Anche perché l’ideatore del progetto e autore degli arrangiamenti è uno di mia vecchia conoscenza di ascolti, Kole Laca (il cognome si pronuncia Lazza, anche se, come scherza Kole, «ormai mi ci sono abituato, non correggo più!»), musicista di professione, diplomato in pianoforte al Liceo “Prenkë Jakova” di Scutari, una laurea in Scienze Politiche all’università di Padova e un trascorso di musicista con molteplici esperienze, tra queste, tastierista de Il Teatro degli Orrori, band veneta formatasi nel 2005, definita genericamente “alternativa”, classificazione piuttosto vasta per un rock nervoso, a tratti noir a tratti spigoloso, post punk, con chitarre acustiche folk che si trasformavano improvvisamente in orgasmi elettrici acidi, accompagnati da testi per nulla banali, profondi e visionari, del frontman Pierpaolo Capovilla

Con Kole c’è Beatriçe Gjiergji, una voce bella, calda con acuti di profonda dolcezza. Ho chiamato Kole per chiacchiere sul lavoro degli Shkoda Elektronike, ma anche sulla musica, sul loro “post immigranti pop” – lo vedremo tra poco – sul Teatro degli Orrori e le evoluzioni/involuzioni del mainstream…

Come sei arrivato agli Shkodra Elektronike?
«Sono partito dal recupero delle canzoni popolari di Scutari, la mia città natale, scegliendo brani che partono dai primi dell’Ottocento e arrivano fino agli anni Sessanta del Novecento. Volevo dare loro una nuova veste, più attuale. Da ragazzo la consideravo, come sempre accade, una musica vecchia, guardavo ad altro, vuoi paragonare i Depeche Mode con un cantante di musica tradizionale! Quando cresci, invece, ti riavvicini, sei curioso sulle tue origini. Ho cominciato a ragionare, ascoltare, apprezzarle dal punto di vista musicale. Già nei 2Pigeons con Chiara Castello, nell’album Retronica (2012, ndr), avevo inserito un brano popolare, Turtulleshë, che abbiamo riproposto anche in Live @ Usina».

Prima di parlare di Beatriçe, avete dato, dunque, una nuova veste a brani popolari senza mutarne la struttura?
«Quando parlo di canzoni popolari mi riferisco a una tradizione piuttosto “recente”, le più vecchie risalgono al Settecento e arrivano fino alla fine degli anni Sessanta. Sono melodie tradizionali di Scutari, non di tutta l’Albania. Se le ascolti bene sono “moderne”, per cui anche se utilizzi sonorità contemporanee, funzionano ugualmente. Operazione peraltro fatta già altre volte nel corso dei secoli: nell’Ottocento venivano suonati con strumenti mediorientali, per esempio, il kavall, a fiato simile a un flauto, o il saz, a corde pizzicate parente dell’oud e del liuto. Con l’arrivo anche della cultura occidentale hanno preso piede la chitarra acustica, l’uso del contrabbasso, della fisarmonica, del violino. Si suonavano sempre le stesse melodie ma con strumenti diversi. Oggi ci sono quelli elettronici».

Veniamo all’altra componente degli Shkodra Elektronike, Beatriçe: come vi siete conosciuti?
«Ci siamo incontrati su Internet. Lei mi ha contattato quando ancora suonavo con il Teatro degli Orrori. Seguiva la mia musica e poi era di Scutari. Ho voluto approfondire e, sempre sui social, ho scoperto che aveva un gruppo, e cantava davvero bene. Viveva in Umbria, era arrivata in Italia più o meno nel mio stesso periodo e lavorava in fabbrica, ma la sua passione era la musica, cantava in una band. “Che brava”, ho pensato, “Spacca di brutto!”. Così in una data a Perugia del Teatro degli Orrori l’ho invitata al concerto. Ci siamo seduti e abbiamo parlato. Le proposi l’idea di rielaborare la musica popolare scutarina e Beatriçe la trovò bellissima. Il discorso finì lì. Nel frattempo, ho continuato a mettere a punto il progetto, provando alcune date per testare la reazione del pubblico. All’inizio non l’ho coinvolta perché lei, da dipendente, non poteva certo assentarsi dal lavoro quando voleva».

Gli Shkodra Elektronike a Tirana – Foto Erdiola Mustafaj

E il tuo esperimento ha funzionato…
«Sì e anche piuttosto in fretta. Mi hanno chiamato a suonare alla Biennale di Venezia alla festa di inaugurazione del padiglione Albania/Kosovo a maggio dell’anno scorso. A Milano, al Germi – Luogo di contaminazione, il locale di Manuel Agnelli, ho dovuto aggiungere più date… Vedevo che il progetto stava prendendo piede, alla gente piaceva, così ho chiamato Beatriçe per un minitour di sei date da fare in una settimana. Lei ha chiesto le ferie. Abbiamo provato solo un giorno e mezzo prima di salire sul palco a Genova allo Spazio Lomellini 17, la prima data. Da lì, la settimana è diventata un mese, poi un altro e un altro ancora fino al febbraio del 2020. Abbiamo suonato anche in Albania, con buoni riscontri. Poi è arrivata la pandemia e ci siamo dovuti fermati».

Prima con i 2Pigeons, ora con gli Shkodra Elektronike: la tua dimensione ideale è un duo?
«(ride, ndr) Il duo è la soluzione per essere più leggeri nella gestione del progetto. Uso la tecnologia perché siamo in due. Essere in tanti richiederebbe investimenti maggiori che al momento non abbiamo. Spero che le cose vadano bene per avere più musicisti sui palchi con noi».

Quando avete registrato il live in Albania?
«Nel febbraio del 2020, sul filo di lana. Ci eravamo appena esibiti a Tirana, abbiamo deciso di incidere il live all’ultimo minuto utile prima del lockdown. Poi ci siamo messi a cercare un’etichetta che potesse pubblicarci. Abbiamo trovato la AltOrient di Mohamed Aser, un ragazzo palestinese che vive tra Berlino e il Canada. Ci sembrava la soluzione migliore: siamo albanesi, immigrati, abbiamo trovato su Internet un’etichetta internazionale che propone musica elettronica del Medico Oriente. Sempre della stessa etichetta, ti consiglio di ascoltare Tamada, artista georgiano bravissimo. In questo attuale contesto di “tutti contro tutti”, fare questi percorsi insieme è un messaggio di speranza, nel mio piccolo».

Cosa pensi della musica attuale? Stiamo sull’Italia…
«C’è un po’ di decadenza da anni. Non vado contro il mainstream, ti confesso che cederei anch’io! Non mi riferisco ai ragazzini che fanno la trap, piuttosto a un certo ambiente che spaccia per alternativa roba che non lo è affatto. L’italia ha la tendenza a esasperare un po’ in tutte le cose. Credo, comunque, che si tratti di periodi. Penso anche che la musica degli anni Novanta, quella della mia generazione, per certi versi ci abbia fatto quasi male: allora erano mainstream i Nirvana, Björk, i Soudgarden, i Radiohead, oggi è altro… Ci eravamo abituati bene! Un periodo che, purtroppo, è finito e tanti della mia generazione se ne sono accorti tardi. La musica, rispetta la società…».

Il Teatro degli Orrori dunque…
«È una conseguenza degli anni Novanta. Pierpaolo Capovilla, veniva dagli One Dimentional Man, come Giulio Ragno Favero, il bassista, e Francesco Valente, il batterista. Il Teatro faceva una musica senza compromessi, cruda, diceva quello che aveva da dire. Molti colleghi oggi analizzano gli artisti in base al loro successo. A me interessa se quello che uno fa mi piace o non mi piace. Il successo è diventato indispensabile, concetto esportato dai rapper americani. Rappresenta il riscatto del povero, che non è sociale, ma di reddito. L’ostentazione del povero che diventa ricco la vedi nei gioielli che indossano, nel circondarsi di belle donne, nell’avere la macchina potente. L’”IO” è diventato l’unico parametro, l’unica cosa importante. E l’”IO” non è relativizzato. La conseguenza è una musica passeggera, effimera».

Come hanno preso i “ragazzi” del Teatro la tua nuova avventura?
«Pierpaolo ha pubblicato sui suoi social, Giulio ci ha dato consigli, Marcello ha mixato i brani, tutti comunque entusiasti. Posso dire di sentirmi fortunato perché è rimasto uno spirito vero di condivisione, di amicizia».

Hai definito la musica degli Shkodra “post immigrant pop”…
«Non è facile dire cosa stiamo facendo. Noi usiamo suoni contemporanei che attraggono i giovani albanesi, ma in generale tutti i ragazzi che ci ascoltano, per poter ricordare la loro storia, da dove provengono, la cultura popolare. Post Immigrant Pop in questo senso, dove Post significa che siamo cittadini italiani ma anche albanesi, siamo tutte e due le cose e, in realtà, nessuna delle due; Immigrant perché viviamo una commistione tra la nostra cultura originaria e quella che abbiamo scoperto e fatto nostra; Pop perché con l’elettronica parliamo una lingua oggi comprensibile».