Un italiano con il Brasile in testa e la bossa tra le dita. Tony Canto, siciliano di Messina, autore Sugar, è un musicista con spirito brasileiro. «Ho scoperto João Gilberto per la prima volta a 14 anni, per radio. Un suono che lambiva il silenzio», mi racconta. L’adolescenza lo ha portato ad altro, al rock, al pop, però quel piccolo seme era stato piantato e stava crescendo. Nel frattempo s’era iscritto a giurisprudenza, laureandosi e diventando avvocato. «A 40 anni ho deciso di vivere per e con la musica. Prima come produttore poi come musicista».
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Musica e partecipazione con “Parole al Vento”, a Settimo Milanese

Antonio Ribatti – Foto Robert Cifarelli
Sono convinto che la formazione musicale viaggi lungo un doppio binario. Non solo quella, evidente, degli artisti, ma anche, in parallelo, l’altra, degli ascoltatori. Come detto molte volte in questo blog, ribadito dalle interviste a numerosi musicisti, fra tutti il grande Claudio Fasoli, la musica è un linguaggio e, come tale, perché lo si possa capire e “parlare”, bisogna studiarlo. Avere, insomma, un minimo di infarinatura, che nelle Americhe come in altri Paesi europei esiste fin dalle scuole primarie, mentre da noi rimane per lo più sulla carta… Non fraintendetemi: la musica è un piacere, come lo studio d’altronde, ma per gli ascoltatori curiosi e non passivi la voglia di entrare in un brano, coglierne la sua natura, filtrarla ed elaborarla attraverso le proprie emozioni, è una grande soddisfazione.
Perché vi sto parlando di ciò? Questa sera, a Settimo Milanese inizia Parole al Vento (qui programma, orari, indirizzi), quattro appuntamenti scanditi tra aprile e maggio. Il suono disorganizzato è il tema di oggi, incontro e prova aperta con quell’istrione di Ferdinando Faraò, con cui avevo chiacchierato alcune settimane fa a margine di un suo intervento educativo con l’Artchipel Orchestra.
Il 20 aprile è previsto Inseguendo quel suono – Una storia di Ennio Morricone (Alessandro De Rosa, voce narrante, Fausto Beccalossi, fisarmonica, e Claudio Farinone chitarre), mentre il 4 maggio, Batuke – Storia sociale del Samba, a cura di Nené Ribeiro, chitarra e voce, e Kal dos Santos, percussioni e voce, con il laboratorio di percussioni Toc Toc; e, infine, il 18 maggio, Mingussiana: Seven for Mingus, con Tino Tracanna e gli allievi del conservatorio Giuseppe Verdi di Milano.
Quattro incontri dove suono, cultura, condivisione, mondi diversi possono stimolare il pubblico in connessioni sonore impreviste. Ne ho parlato con Antonio Ribatti, ideatore e curatore della manifestazione. Antonio è un architetto di professione, ma anche fotografo, trombettista jazz, con l’Arte nella testa e una enorme creatività usata per coinvolgere con un unico scopo: mostrare la bellezza: di un racconto, un canto, un concerto, un dipinto, un luogo…
Tutti sappiamo quanto abbiamo bisogno di bellezza, soprattutto dopo due anni di pandemia e ora, con una sporca guerra alle porte di casa. La bellezza non è frivola, è piuttosto un’arma potente che, a differenza dei razzi ipersonici, delle bombe a grappolo e della misera cattiveria cecena, non uccide ma salva, aiuta, fa crescere gli individui. Direte che sono un pazzo, ma ci credo fermamente. Al mitra contrapponi un canto, alla ferocia la bellezza di un trio jazz, alla depressione la forza di un’orchestra…
Con il festival AHUM da oltre vent’anni cerchi di portare bellezza sostenendo che l’Arte è il frutto di una interconnessione continua tra musica, pittura, scultura, letteratura, poesia, teatro, danza, cinema, architettura…
«Tento di connettere le arti, dimostrare, tramite eventi come Parole al Vento, che si può fare educazione divertendo il pubblico, coinvolgendolo, mostrando e spiegando i percorsi mentali e creativi di grandi artisti. Cerco occasioni di incontro, dove ci si può scambiare saperi. Ah-Um è arrivato alla 23esima stagione, prima era un unico appuntamento annuale ora è sempre attivo attraverso molte iniziative, tra cui questa di cui stiamo parlando. Lo stesso titolo, Parole al Vento, offre un messaggio chiaro: dare agli spettatori più informazioni, chi vuole le coglie e le fa sue».
Lavoro che sta facendo anche Ferdinando Faraò con la sua Artchipel Orchestra…
«Con Ferdinando ci conosciamo da anni, ho visto nascere l’Archipel Orchestra! Lui da sempre è impegnato nella divulgazione».
Da amante della musica brasiliana, ho subito notato la serata del 4 maggio, Batuke – Storia sociale del Samba…
«Il Samba è genericamente visto come un’attrazione folklorica, il Carnevale, le ballerine e via dicendo. In realtà è molto radicato nella cultura del Brasile. Lo spiegheranno con parole e musica due bravi artisti, Nené, divulgatore e musicista, e Kal, percussionista che ha fondato varie scuole di musica a Milano, vedi Mitoka Samba. Loro sono i pilastri della cultura brasiliana in Italia. Prima della guerra in Ucraina il nostro obiettivo era, usciti dalla stasi del Covid, fare considerazioni forti sull’uso del corpo. Dopo il distanziamento obbligatorio e il conseguente cambiamento di comportamenti anche impercettibili che questo ha comportato, ci sembra interessante raccontarlo attraverso la metafora del Samba».

Kal dos Santos, a sinistra, e Nené Ribeiro, a destra, protagonisti di “Batuke: Storia Sociale del Samba”
Ogni incontro ha un tema che simbolicamente o realmente parla di condivisione…
«Stasera ci sarà Ferdinando che racconterà come nasce un progetto musicale condiviso e come si organizza un “corpo musicale”, i ruoli di ciascuno, le competenze… Anche la serata su Morricone, Inseguendo quel suono, avrà un coralità, sarà uno spettacolo a tre voci con lo scrittore e compositore Alessandro De Rosa, il chitarrista divulgatore Claudio Farinone e il fisarmonicista Fausto Beccalossi. Sulla base dell’autobiografia del maestro, ci saranno gli interventi dei musicisti…».
L’ultima serata sarà dedicata a Charles Mingus, di cui quest’anno ricorre il centenario della nascita…
«Sì, Mingussiana: Seven for Mingus vuole essere un omaggio al genio del musicista, che, fra l’altro, è il mio artista preferito. Qui la coralità, le connessioni saranno totali, visto che il sassofonista Tino Tracanna interpreterà alcune delle più belle composizioni del contrabbassista americano. Lo farà con un settetto di allievi del conservatorio Verdi di Milano. Verrà rispettato l’impianto dei brani, ma nelle improvvisazioni ognuno sarà libero di creare con il proprio strumento. Un omaggio alla libertà espressiva di Mingus!».
A parte gli appassionati, Parole al Vento, dovrebbe essere l’occasione soprattutto per i giovani di aprire la mente alla musica…
«I conservatori sono pieni di ragazzi che vogliono imparare a suonare jazz, ma ai concerti vengono sempre in pochi. Prendi il pop del momento. Ci sono artisti – pochi in verità – che hanno una qualche conoscenza musicale; nei loro brani “citano” altri generi, magari inconsapevolmente. Il resto è dominato da una povertà tematica, manca evidentemente la formazione, non c’è un racconto, piuttosto ci sono immagini fotografiche, da social. Certo, anche un’istantanea può essere raccontata, ma spesso senza andare a fondo, tutto rimane in superficie. C’è poca capacità di leggere la realtà. Questi nostri incontri sono un modo di concentrarsi, almeno per un’ora, su un tema».
Oltre a Parole al Vento ci saranno altri appuntamenti?
«Dal 21 al 24 giugno (il programma è in fase elaborazione) nelle piazze del quartiere Isola di Milano si terranno quattro giornate dedicate a quattro generi musicali diversi, Samba, Swing, Tango e Jazz. Presto saprò essere più preciso!».
Intervista: Marisa Monte e le sue “Portas” aperte sul futuro

Marisa Monte – Foto Leo Aversa
Oggi vi voglio portare ancora in Brasile. Questa volta per parlarvi di un’artista che, in molti anni di attività, è diventata di diritto una delle musiciste internazionali più ascoltate, quotate e influenti del paese sudamericano. Lei è Marisa Monte, carioca di nascita, una voce estremamente raffinata, una cultura musicale vastissima che spazia dalla musica popolare alla classica, dal jazz al samba e alla bossanova e una vita dedicata alla contaminazione, alle collaborazioni con musicisti dalle provenienze più disparate.
Il 2 luglio scorso ha pubblicato Portas, album composto da 16 tracce, un racconto, per chi la conosce, che ha del cinematografico. Sedici brani che catturano, conquistano, raccontano storie. In Portas c’è amore, romanticismo, passione, tristezza, allegria, speranza, futuro. Se dovessi fare un paragone, è come vedersi un film alla La La Land. Basta ascoltare il brano Portas, quello che dà il titolo all’album, per capire quale sia la direzione del nuovo lavoro della Monte. Qual é a melhor?/ Não importa qual/ Não é tudo igual/ Mas todas dão em algum lugar/ E não tem que ser uma única/ Todas servem pra sair ou para entrar/ É melhor abrir para ventilar/ Esse corredor… Qual è la porta migliore? si chiede. La risposta arriva subito dopo: non ha importanza quale sia, non è tutto uguale. Ma tutte le porte aprono in un qualche posto. E, non necessariamente deve essere una porta sola, tutte servono per uscire e per entrare. È comunque meglio aprire per far cambiare aria a questo corridoio. Metafora dei tempi correnti…
Ho l’appuntamento su Zoom. Lei mi risponde da Rio de Janeiro, elegante come sempre, seduta su sfondo nero dietro diverse chitarre, se ne intuiscono le silhouette.
Prima dell’intervista torniamo un attimo alle collaborazioni, perché dicono molto: innanzitutto c’è quel geniaccio di Arto Lindsay, vecchia amicizia di Marisa, grandi collaborazioni, una su tutte, il secondo disco, Mais, prodotto da Arto. E poi Arnaldo Antunes, ex Titãs e compagno nell’avventura Tribalistas con Carlinhos Brown. Il fado Vagalumes è un piccolo omaggio, un gioiello incastonato nelle terre lusitane. Carlinhos non c’è in Portas, in compenso è presente il figlio, Chico, nipote di Chico Buarque de Hollanda, uno dei miti della musica brasileira (ascoltatevi Calma).
C’è anche Nando Reis, altro Titãs (vi consiglio, se ne avete voglia, di mettere sul piatto un po’ di album della rock band nata a São Paulo negli anni Ottanta), Dadi Carvalho, bassista che ha suonato nei Novos Baianos e nei Barão Vermelho (ascoltatevi la bella A Língua dos Animais, frutto della collaborazione tra Marisa, Arnaldo e Dadi) e poi Marcelo Camelo, polistrumentista e anima dei Los Hermanos, gruppo pop rock della fine anni Novanta, quindi Seu Jorge, con cui Marisa ha collaborato più volte, qui in Portas con la figlia Flor, grande voce, nell’ultimo brano, Pra Melhorar! Per continuare con Pretinho da Serrinha, compositore di samba, per un brano tutto da godere, Elegante Amanhecer dedicato alla Portela, scuola di samba carioca, di cui Marisa è sostenitrice, tra cavaquinho, cuica e surdo: Foi lindo de ver a Portela/ O sol raiando/ Elegante amanhecer/ Seu canto ecoou na passarela/ Auê auê salve o samba, salve ela…

La cover dell’album e l’intero concept visivo del disco sono opera dell’artista Marcela Cantuária. «Il progetto è diventato un dialogo audiovisivo tra due donne contemporanee che hanno prestato la oro sensibilità al servizio dell’arte», spiega la musicista. «Marcela è riuscita a rappresentare sia me sia le mie canzoni».
Marisa, un disco di 16 tracce dopo dieci anni dall’ultimo tuo lavoro, come mai tanto tempo?
«Mi sono dedicata a tantissime altre collaborazioni e progetti, come il tour con Paulinho da Viola (uno dei grandi artisti di samba brasiliani, ndr). Doveva essere un minitour in Brasile e si è trasformato in un grande successo! Poi ho lavorato a un progetto d’archivio, Cinephonia, (trent’anni di carriera con inediti audiovisivi, raccolti e catalogati, inaugurato nel marzo dello scorso anno, ndr), ho pubblicato con Carlinhos e Arnaldo il secondo disco Tribalistas… Nel frattempo ho continuato a scrivere, comporre. Non è stato un disco programmato. Quando ho deciso di trasformare quel materiale in un album, avevamo deciso di iniziare a registrare nel maggio 2020 a New York, con Arto Lindsay. Ma con la diffusione della pandemia e il lockdown è saltato tutto. Abbiamo, quindi, rinviato a novembre. Ma poi, vista l’impossibilità di trovarci fisicamente, abbiamo provato a registrare un paio di basi via Zoom tra Rio e New York. Il lavoro stava venendo bene, quindi abbiamo iniziato a lavorare insieme, ho incontrato tanti collaboratori internazionali senza muovermi da Rio! Così abbiamo lavorato a Rio de Janeiro, Los Angeles, New York, Lisbona, Madrid, Barcellona, Seattle…».

Foto Leo Aversa
Sedici canzoni sono tante in un disco…
«In realtà sarebbero 18 tracce, mi rimangono ancora due brani che pubblicherò, il primo tra poco, e il secondo lo terrò per quando inizierò il tour, il prossimo anno».
Parlami di Portas. Il mondo è pieno di porte che si aprono e si chiudono…
«Volevo cantare un po’ di speranza, fornire uno sguardo diverso, positivo del mondo, visto che, soprattutto in questi due anni, siamo stati molto negativi, insicuri. Nonostante tutto quello che è successo con il Covid19, penso che oggi noi siamo comunque migliori di 50 anni fa. Credo che sia meglio vivere il presente, nonostante tutto quello che è accaduto, perché in questo presente abbiamo intavolato molti temi di discussione, dal guardare il mondo con più attenzione e rispetto, al lavorare per una società più aperta, rispettosa dei diritti di tutti. Il mio è stato un lavoro all’opposto del negazionismo, diciamo di “affermazionismo”. Una resistenza poetica e amorosa, una forma di protesta fatta in tutte le forme possibili. Ci vuole molto coraggio nel difendere l’amore!».

Frame dal brano “Portas” che apre il disco.
A proposito di negazionismo, la situazione politica in Brasile non è delle migliori. Hai voglia di parlarmene un po’, mi interessa sapere come la pensi…
«In Brasile c’è stata una sovrapposizione di crisi, la pandemia e una crisi democratica senza precedenti. Non è molto diverso dal resto del mondo occidentale, però. Lo stesso problema c’è stato in America con Trump, c’è in Europa, lo avete avuto anche in Italia. Credo, voglio credere, che questa sia un situazione che non potrà durare ancora a lungo. Passerà, perché questa crisi democratica genererà una gestione futura del progresso».
Il presidente Bolsonaro non vede di buon occhio la cultura, non tiene molto in considerazione voi artisti.
«Alla base c’è un pensiero retrogrado che non considera la cultura come un potente forza economica che genera indotti, ma piuttosto come un nemico ideologico. Purtroppo per loro, per fortuna non si torna indietro. Non ritorneremo nell’oscurità, si dovrà andare avanti, con orgoglio. Credo che tutti questi problemi che hanno i paesi democratici risiedano nel come è veicolata l’informazione, praticamente senza controllo. Le fake news continuano a essere molto disturbanti per i paesi che credono in certi valori. E non sto parlando solo del Brasile».
Tornando a Portas: hai attinto da tutto il bagaglio della musica brasiliana, dal rock di Rita Lee, alle composizione in bilico tra MPB e jazz di Milton Nascimento, al rock degli anni Ottanta, Titãs, Barõ Vermelho, al Samba, alla bossanova e persino a quel nuovo fado portoghese che negli ultimi anni ha rivoluzionato un genere quasi intoccabile…
«Vero, tutti gli artisti che hai citato e che hanno lavorato in quegli anni incidevano dal vivo in studio, tutti insieme. Questa è la grande forza della collaborazione, del creare qualcosa di unico. Purtroppo la pandemia ci ha costretto a lavorare diversamente: era un mio desiderio ma anche una vera impossibilità. Credo che incida sulla dinamica musicale anche se è stato fatto un ottimo lavoro! Ho sempre voluto collaborare con artisti di generazioni diverse perché credo che queste contaminazioni influiscano positivamente sul pubblico: mi ascoltano la nonna e la nipotina! Anche in questo lavoro ho avuto degli arrangiatori incredibili, da Arthur Verocai, musicista di grande esperienza, al giovane Antonio Neves, al mio coetaneo Marcelo Camelo».
Marisa, un’ultima domanda: cosa ti aspetti da questo nuovo album?
«In Brasile è stato accolto benissimo, oltre tutte le aspettative. Spero che possa portare in questo momento amore, poesia e anche talento».
Musica brasiliana: social, leoni da tastiera e nostalgia

Thiago Nassif – foto Hick Duarte
Voglio tornare su un post che ho pubblicato giusto una settimana fa. L’intervista a Thiago Nassif, uno degli artisti veramente innovativi nel panorama musicale brasiliano piuttosto decaduto negli ultimi anni – secondo me, ma non solo, visto che sono in buona compagnia, dal New York Times al nostro Internazionale che un paio di mesi fa ha scritto un’ottima recensione su di lui, parlando di musica cubista.
Sulla “caduta libera” della nuova musica brasileira possiamo discuterne per ore. La musica brasiliana nel Novecento e nei primi anni duemila aveva alzato l’asticella della qualità in modo sorprendente, il che spiega una certa resistenza da parte dei fan della bossanova e della MPB tradizionale nell’accettare il nuovo. Ci avevano abituato bene. E qui sta il problema. Ho pubblicato sulla pagina facebook di Musicabile un post che rimandava all’intervista e al mio blog. A parte un commento molto positivo, guarda caso, di un musicista, il resto dei pochi commenti erano negativi.
Mi son preso addirittura del “somaro” per quello che avevo scritto (ammesso che il livoroso lettore si sia preso la briga di leggere l’intervista per intero). Ho riflettuto molto su quei giudizi tranchant. Per certi versi li capisco. Bossanova, tropicalismo, MPB sono inimitabili. Ed è giusto che sia così. Però la musica evolve, la ricerca di sonorità diverse, l’esplorazione sull’uso di strumenti, l’elettronica sono inevitabili, sono l’espressione di nuove creatività.
Che poi si attinga da quella musica è un obbligo morale per gli artisti brasiliani, imprescindibile. Thiago Nassif non fa samba, né bossanova, né emula Caetano, Gil, Jobim o Buarque. Fa Thiago Nassif, un artista colto che riconosce l’alto valore artistico di chi li ha preceduti e che cerca di unire quei solidi fili che costituiscono la musica brasiliana di qualità e dispiegarli in altra musica, non banale né commerciale. È ricerca rispettosa della tradizione, persino quella più ostica per noi, parlo dei canti rituali indigeni, o della preziosa musica “campagnola”, la Moda de Viola, che s’è poi sviluppata nella musica sertaneja, filone estremamente popolare nel Paese sudamericano. La ricerca – è banale dirlo – è fondamentale per innovare, imboccare nuove strade, nella musica come nella pittura, nel teatro come nella letteratura.
Non dobbiamo porci all’ascolto di nuovi artisti comparandoli a quelli che ci piacevano e nemmeno pensare che i musicisti brasiliani siano “condannati” a vita a suonare seguendo quei binari armonici che tanto ci piacciono.
La massificazione e la immensa voracità delle grandi label discografiche hanno appiattito la musica ovunque. Brani semplici, spesso uguali, che si dimenticano in un paio di mesi a voler essere generosi, aspiranti artisti intercambiabili, sonorità scontate e ripetute. Musicisti come Thiago vogliono evitare queste sabbie mobili cercando di non essere mai banali. Poi possono piacere o meno. Ma meritano comunque rispetto.
Thiago Nassif, la nuova musica brasiliana. Parola di Arto Lindsay

Thiago Nassif in un ritratto di Caio de Paiva
Quando si parla di musica brasiliana, quelli della mia “era” – cresciuti tra gli anni Settanta e Ottanta – sono rimasti ancorati ai classici della bossanova (nata alla fine dei Cinquanta) e ai psichedelici Os Mutantes, parte di quel movimento, il Tropicalismo, che ha rivoluzionato la musica brasileira assieme a Caetano Veloso, Gilberto Gil, Gal Costa, Maria Bethania, Tom Zé… ma anche al rock del mitico Raul Seixas, al punk, quello nato a Brasília con gruppi come i Plebe Rude, per intenderci, ai roqueiros di São Paulo, i Barão Vermelho, i Titãs, a Rio de Janeiro i Paralamas do Sucesso, a Porto Alegre gli Engenheiros do Hawaii, nel metal, i Sepoltura… Insomma, un fermento musicale incredibilmente vario che – almeno a me – ha fatto chiudere occhi e orecchie alla musica venuta dopo.
Il mainstream di oggi è quello del resto del mondo: l’urban nelle sue varie declinazioni, il pop di facile successo alle Anitta, che, sinceramente, mi getta in un profondo sconforto. Tutta questa tirata per dirvi che la mia idea su una musica brasiliana ferma, ripetitiva, poco o per nulla creativa, improntata a quel declino culturale che è arrivato – ed è un paradosso – con i social, ha incominciato a incrinarsi quando ho ascoltato Thiago Nassif.
C’è vita su Marte, ho pensato! Qualcosa di davvero originale, nuovo, profondo, ricercato, raggiungeva l’Europa. Thiago ha 41 anni è nato e cresciuto a São Paulo, si è trasferito a Rio de Janeiro «perché c’è più fermento creativo». Ha pubblicato il suo quarto album, Mente, uscito giusto un anno fa, un disco esemplare che ha seguito un percorso coerente, testimoniato dai suoi precedenti lavori, soprattutto Práxis, del 2011, e Três, del 2016 (rieditato due anni dopo per la casa discografica inglese Foom), coprodotto con Arto Lindsay.
Proprio ieri è stato pubblicato un remix firmato da Cornelius, il musicista, produttore e dj giapponese, di Pele de Leopardo, secondo brano di Mente. Così, dopo mesi che lo seguo attraverso la sua musica, ho deciso di chiamarlo via Meet e intervistarlo.
Lui ha accettato volentieri: «Che bello, l’Italia si sta sempre più interessando a me, con lei ho un legame, una connessione, anche perché mia nonna materna era italiana», mi dice contento, sorseggiando il primo bicchiere di un intero bricco di caffè. Mi incuriosiva conoscerlo anche perché, quando uscì Mente, il New York Times lo inserì in una sofisticata playlist estiva. La recensione del disco terminava con un complimento categorico: “It’s music of nowhere and everywhere, disappearance and arrival, the archive becoming the now”.
Se credete, come io credo, alla ripetitività della storia, ebbene, permettetemi questo paragone: se il Tropicalismo si basava su un’antropofagia culturale, presa a modello dal Manifesto Antropofago stilato dal poeta Oswald de Andrade nel primo Novecento, oggi Thiago è uno dei consapevoli esponenti di un’antropofagia cultural-musicale, che si manifesta in un desiderio di usare tutto quello che l’eredità della sua terra – e non solo – mette a disposizione, dai canti indigeni alla bossanova, dal samba al funk brasileiro, proponendo un suono nuovo, dove conta molto il rumore e anche il silenzio. Non è un caso che il grande Arto Lindsay lo abbia capito e spronato. Ora sono grandi amici, compongono insieme, si intendono alla perfezione. Arto di Thiago dice: «È la musa ispiratrice della nuova generazione di compositori brasiliani».

La cover del singolo “Pele de Leopardo”, remix di Cornelius uscito il 28 maggio 2021.
Thiago, sono curioso, ho un sacco di cose da chiederti. È giusta la mia sensazione di un Brasile culturalmente impoverito nell’ultimo ventennio?
«Al contrario, c’è molto movimento, pensa al funk brasileiro, nato nei sobborghi, nelle favelas. Ogni città, ogni stato di questo Paese ha il suo funk, c’è quello carioca, quello Paulista e via dicendo. Anche il funk, come il samba, è una musica che ha una discendenza africana, che è nato dal basso ed è espressione popolare. Credimi, il Brasile oggi ha molto da offrire, grazie alla musica dell’Afro-diaspora. Per esempio, pensa alla musica nordestina, a Siba (artista pernambucano con il quale ha collaborato lo stesso Arto Lindsay, n.d.r.), un costrutto tradizionale che si evolve. Ma anche ai canti indigeni – non dobbiamo dimenticare il loro apporto alla nostra musica, il loro costrutto canoro è molto geometrico, ma non inteso in forma pitagorica! Si tratta di un lavoro a cui ho partecipato come musicista e produttore, è un disco di canti degli indios Huni Kuin. Al canto, Bella e io abbiamo aggiunto delle sculture sonore, Bruno di Lollo il sintetizzatore, Domênico Lancellotti l’MPC1000. Il tutto per esaltare il potere della voce di Ibã Sales, Uma voz da Floresta Encantada».
Con quale genere musicale ti sei formato? Cosa ascoltavi da ragazzo?
«Mio padre, Zé Nassif, aveva tantissimi dischi, ascoltava molta musica, soprattutto rock, musica strumentale, adorava l’arpista Andreas Vollenweider e il compositore greco Vangelis Papathanassiou, autore di numerose colonne sonore, tra cui quella di Blade Runner…». Verso i dodici anni mi ha preso il blues, la musica nera americana, il movimento di Chicago che gravitava intorno alla Chess Records. Lo studiavo a fondo, ero rapito e interessato al punto che ero arrivato a una conclusione: volevo suonare il Blues. A mio padre piaceva la musica straniera, io, crescendo, mi sono appassionato alla musica brasiliana tradizionale, grazie a mia nonna che abitava all’interno dello Stato di São Paulo. Adoravo la Moda de Viola, una musica delle radici, legata alla terra, eseguita con quello splendido strumento che è la Viola, una chitarra a dieci corde. Ad ascoltarla potrai notare che ha basi di blues e country, quello del Mississippi. Crescendo ho imparato ad amare lo Choro…».
Lo Choro, un antesignano del jazz…
«Esatto, una musica dove si improvvisava dentro rigidi canoni. La mia svolta musicale l’ho avuta a 13 anni con la chitarra elettrica. Per me è stata un vero impatto, mi affascinava l’elettrificazione dei suoni, come li puoi cambiare. Ricordo che mio papà comprò una pedaliera: non riuscivo ad usarla, non la capivo anche se mi ci applicavo. Un giorno venne un suo amico con un solo pedale, e lì mi si è aperto un mondo, ho iniziato a curiosare tra i suoni, a registrarmi con un registratore a quattro piste, ad ascoltarmi, ad apprezzare il rumore della cassetta che emetteva il suono. A 18 anni ho deciso di registrare un album. Andai in studio di registrazione ma ho odiato il suono che il tecnico mi presentava. Non c’era proprio, dovevo imparare a costruire il suono come lo volevo io…».
Cosa hai fatto per trovarlo?
«Mi sono iscritto a ingegneria del suono negli Stati Uniti, nel Tennessee, a Nashville, nel punto nevralgico della musica americana. Mi sono laureato. In quegli anni di studio avevo messo su una band con altri colleghi e grandi amici, i Cowboy Movie. Facevamo un folk psichedelico con molti interventi di Noise. Tornato a São Paulo con alcuni amici abbiamo formato un’altra band, gli Epicac Tropical Banda (ci trovi su Bandcamp), band concettuale con improvvisazioni quasi jazzistiche».
Quando hai deciso di andare a vivere a Rio de Janeiro?
«Nel 2014. Mi sono trasferito a Rio perché la scena musicale – e non solo – era molto diversa da quella di São Paulo. La libertà era un’altra, c’era una forte relazione tra i vari movimenti culturali, Rio era un frullatore: arti visive si mescolavano a jazz, musica brasiliana a musica sperimentale suonata solo da macchine. Tutti facevano capo per lo più allo studio di registrazione Audio Rebel».

Arto Lindasy e Thiago Nassif – Foto Rogerio Vonkruger
E lì c’era anche Arto Lindsay…
«Sì ci siamo conosciuti in quell’ambiente, ci siamo scambiati idee. Lui ha prodotto il mio terzo album Três, siamo diventati amici, lavoriamo spesso insieme. Arto mi chiama per collaborare a suoi lavori, che sia un disco o un’installazione sonora. Lui suona la chitarra al di fuori delle convenzioni, usando delle melodie con inserti ispidi, rumorosi…».
Veniamo a Mente, lo hai definito un disco di connessioni…
«Perché è proprio questo, un disco costruito su una mia base da molte persone che ho scelto con attenzione. Ciascuna di queste ha dato quello che era necessario al lavoro. Quando componevo con una chitarra elettrica e un semplice pedale Looper pensavo a quali fossero gli artisti giusti che potessero dare il loro apporto in termini estetici, melodici e armonici. In questo viaggio mi hanno accompagnato, formando strati musicali, Pedro Sá, Guilherme Lirio, Menino Brito, un percussionista fantastico che suona samba con Pretinho da Serrinha. Lui ha portato il suo bagaglio, che è diverso dal mio, suonando la cuica in Vóz Unica Foto Sem Calcinha. Lo stesso dicasi per Sergio Azul: viene da Bahia suona in un afro-bloco gigantesco di percussionisti. Il suo “toque” viene dal Candomblé, è diverso da quello carioca. Ognuno ha il suo timbro…».

Thiago Nassif – foto Hick Duarte
Al disco ha partecipato anche Vinícius Cantuária…
«Sì, lui vive a New York, ma era a Rio de Janeiro, così sono riuscito a coinvolgerlo. È un “violonista”, suona la chitarra, ma per caso l’ho sentito suonare la batteria: aveva un suono e una tecnica tutta sua, parte dell’universo di Vinícius. Così, in Soar Estranho e Plástico lui suona la batteria».
Non ci sono solo musicisti in Mente. O meglio, sono anche musicisti ma si occupano d’altro…
«Ho chiamato anche Bella, artista che fa una musica di ricerca, lei si costruisce gli strumenti. Ha messo strati ai brani, approfondendo sempre di più la complessità del suono. Come vedi, questo disco non l’ho fatto solo io, ma anche Arto e tutti gli amici coinvolti. È frutto della ricerca di ciascuno. Il disco cerca proprio questo equilibrio di saperi».
Apriamo una parentesi sul “rumore” a cui tu tieni molto.
«Per me il rumore è ritmo, quello che ti fa danzare, ti dà la carica, l’energia. Può essere anche una prateria testuale o musicale. Comunque è sempre presente nella nostra vita e per me dà il ritmo, scandisce il silenzio».
Perché hai deciso di chiamare il tuo album Mente?
«Mente ha un doppio significato. La mente umana, il pensare in modo razionale ma anche, nella sua forma verbale, il mentire, e mi riferisco alla situazione politica soprattutto attuale. Quest’ultimo è un discorso lungo e complesso da fare, che il Covid ha amplificato. Siamo in un momento di “post verità”, un momento molto delicato per il mio Paese. Allo stesso tempo la mente è uno specchio, una riflessione di se stessi che ci confonde. Non a caso l’immagine della cover rappresenta uno specchio dove io butto un secchio d’acqua. Riprendendo il mito di Narciso che muore affogato nel suo continuo compiacersi e specchiarsi, ecco, lui è la mia speranza, prima o poi deve svegliarsi e non finire preda di se stesso».
Arrivati a questo punto, come posso definire la tua musica? Elettronica? No-wave?
«Non solo, ho cercato di prendere l’essenziale da ogni genere della musica brasiliana una connessione più che una contaminazione per raggiungere l’essenza della musica. Dentro c’è Tropicalismo, jazz, musica sperimentale, funk carioca, musica elettronica, praterie di suoni e ritmi, lo stesso fatto di cantare in portoghese e inglese è una dimostrazione delle connessioni anche attraverso le parole».
La chiudo qui. Vi assicuro che di sostanza nella musica di Thiago Nassif ce n’è molta. I suoi lavori vanno ascoltati con attenzione, vanno apprezzate le texture melodiche, i singoli rumori mai buttati a caso, il gran lavoro percussivo, l’amalgamare suoni che apparentemente stridono. L’antropofagia culturale diventa una necessità, una sorta di chiamata a raccolta del proprio passato e delle esperienze musicali universali. Tutto viene ricondotto in melodie che contengono mondi diversi, generi diversi, strutture diverse. Connessioni reali e non virtuali…Vi lascio con Plástico, suonato con Arto Lindsay, Vinícius Cantuária, Negro Léo e Laura Wrona…
Tre dischi per il ponte/2: Toquinho e Yamandu Costa, Squid, Sons Of Kemet
Ed eccoci al secondo appuntamento. Oggi condivido con voi tre album molto diversi tra loro. In comune c’è la ricerca, sia che si tratti di MPB, Musica Popular Brasileira, o di un rock alternativo o di un jazz che ha il compito di comunicare, raggiungere il maggior numero di persone possibile, e per fare ciò, parla e fonde linguaggi attuali, come l’hip hop e un rinato spoken word. Partiamo dunque!
1 – Bachianinha: Toquinho e Yamandu Costa (Live at Rio Montreux Jazz Festival) – Toquinho e Yamandu Costa
Due giganti della musica brasiliana e della chitarra. Due generazioni diverse, due origini diverse: Toquinho, 74 anni, è nato e cresciuto a São Paulo, Yamandu Costa, 41 anni, viene da Passo Fundo, città del Rio Grande do Sul. Il primo erede di un modo di suonare che vede in Vinicius de Moraes, con cui ha collaborato a lungo, e la bossa nova il suo naturale elemento. Il secondo viene dallo Choro, dalle bachianinhas, musiche popolari ispirate a Bach, che suo padre suonava, e da un tipo di musica “di frontiera”, gaucho, appunto, dove Brasile Argentina, Uruguay e Paraguay si fondono anche nelle note. Il live è stato registrato lo scorso anno, senza pubblico a Rio, causa pandemia. Il disco è uscito il 21 maggio. Se vi piace il suono della chitarra classica e della chitarra a sette corde, di cui Yamandu è un virtuoso, lo ascolterete tutto d’un fiato. Il repertorio scelto dai due, che per la prima volta incidono insieme, anche se si conoscono da molti anni, si basa sulla musica d’autore brasiliana. Sto parlando di Dorival Caymmi, per i musicisti del gigante sudamericano, un mito intoccabile: un brano che in realtà ne include due, rivisti il minimo possibile da Toquinho, apre l’album O Bem do Mar/ Saudade da Bahia, per proseguire con un altro classico, Asa Branca di Luiz Gonzaga sempre con Toquinho solo sul palco. Yamandu risponde con A Legrand, suo pezzo originale dedicato al musicista francese Michel Legrand. Insieme deliziano com Apelo, storico brano di Baden Powell. Bossa e choro, come nella Bachianinha n°1 di Paulinho Nogueira. Insomma, credo l’abbiate capito, se volete immergervi nel Brasile d’altri tempi questo è un disco che fa per voi. Tecnica, pathos, amore, confronto generazionale, gli ingredienti ci sono tutti. Ve lo consiglio!
2 – Bright Green Field – Squid
Cambiamo registro, totalmente. Dopo un paio di Ep e una serie di singoli, gli Squid, band di Brighton, sono usciti con il loro primo album il 7 maggio scorso. Come inquadrarli? Post punk? No, troppo semplice. Piuttosto musicisti creativi che fanno delle contaminazioni un loro punto di riferimento e forza. Se ascoltate Narrator, vi trovate il sapore dei Talking Heads, mentre in G.S.K. delle note acide di funk si fondono bene con la voce di Ollie Judge che, per inciso, trovo molto simile al primo David Byrne, mentre le chitarre diventano potenti, con inserimenti di tastiere post prog. 2010 ha un attacco morbido alla Steve Hackett dei Genesis e prosegue in maniera sempre più decisa, per arrivare a un metal bello denso. Piacciono? Li trovo interessanti, una musica che potremmo sicuramente inserire nella grande casa del Rock, finalmente diversa, un bell’esercizio di stile che fa ben sperare. Va ascoltato più volte per coglierne le diverse sfumature. Non licenziatelo al primo passaggio, fareste un grosso errore…
3 – Black To The Future – Sons Of Kemet
Dietro Sons Of Kemet si nasconde Shabaka Hutchings, un sassofonista e clarinettista londinese che si divide fra tre sue creature, i Sons Of Kemet, appunto, con cui fa un jazz/hip hop, i Comet Is Coming con i quali si diletta nel soul prog, e i Shabaka and the Ancestors, gruppo con cui suona spiritual jazz. Ci sono altri jazzisti che fanno hip hop tramite loro alter ego. Ad esempio, il trombettista americano Leron Thomas che si trasforma in Pan Amsterdam (ve ne ho parlato nell’ottobre dello scorso anno). Torniamo a Black To The Future: Hutchings vuole parlare di memoria collettiva sulla questione razziale, e lo fa attraverso una musica complessa, sempre molto spinta. Suona, ma le note qui sono politica, cerca di unire i vari filoni della diaspora africana, quello americano e quello inglese. Chiede, come nota Hubert Adjei-Kontoh, il critico che ha scritto la recensione del disco per Pitchfork, uno sforzo di tutti, un impegno comune per parlare dell’oppressione e della storia che attanaglia gli africani. La musica segue esattamente questo. I Sons Of Kemet sono in quattro, due fiati e due percussioni, eppure la musica che ascoltate sembra uscita da una superband. La tuba suonata da Theon Cross fa il lavoro del basso, Shabaka Hutchings “canta e ricama” con il sax e il clarinetto, le percussioni di Tom Skinner ed Edward Wakili-Hick pompano richiami e tempo creando un pattern d’alta combustione. In Pick Up Your Burning Cross, per esempio, agli strumenti si aggiungono le voci di Moore Mother, musicista, poetessa, attivista di Philadelphia, e di Angel Bat Dawid, jazzista americana. Come in Hustle, dove il rapper inglese Kojey Radical canta a ripetizione Born from the mud with the hustlе inside me… Si chiude con Black (più cristallino di così!) con l’intervento, in perfetto spoken word, del poeta Joshua Idehen. Un crescendo tragico, duro, un pugno nello stomaco. Qui i primi versi…
Black is tired
Black would like to make a statement
Black is tired
Black’s eyes are vacant
Black’s arms are leaden
Black’s tongue cannot taste shit
Black’s stomach cannot compress death
And black would like to state that black is not a beast of myth
To be slain in a fable
Recounted atop a round table
Surrounded by blue-collared brave men
Black has demands
Black demands baton-proof bones and bullet-resistant skin
Black thinks no person that’s trigger nervous deserves a gun
Much less a badge…
La storia di José Mauro, l’artista che ha vissuto due volte
Oggi vi voglio raccontare una storia. Che ha a che fare con la musica popolare brasiliana, quella del suo massimo splendore creativo, negli anni Sessanta/Settanta, la dittatura e una misteriosa scomparsa.
Il personaggio della nostra vicenda si chiama José Mauro, è nato a Rio de Janeiro. Ha pubblicato, ventenne, due dischi (Obnoxious e A Viagem das Horas, il primo nel 1970, il secondo nel 1976) registrati in un’unica sessione nel 1970, negli studi di Roberto Quartin, produttore e arrangiatore che lavorò anche con Frank Sinatra e che, con la sua label omonima, fece conoscere al mondo grandi nomi della musica brasiliana, da Baden Powell e Deodato al Quarteto em Cy, da Moacir Santos a Nara Leão. Quartin è morto nel 2004, ad appena 62 anni, per un infarto.
Torniamo al 1970: esce Obnoxious, undici tracce scritte assieme ad Ana Maria Bahiana, giovane appassionata di musica e giornalismo (che poi diventerà il suo lavoro, vive da anni a Los Angeles), con le orchestrazioni straordinarie di Lindolfo Gaya e personaggi della scena musicale carioca di tutto rispetto, come il sassofonista Paulo Moura (uno dei protagonisti del film Brasileirinho di Mika Kaurismäki, del 2005, dedicato allo Choro carioca) e il batterista Wilson das Neves.
Il disco, uscito nel pieno vigore dell’AI-5, l’Ato Institucional numero 5, il momento peggiore della dittatura brasiliana, portava quel titolo che poteva avere molti significati e legami con la situazione del Brasile di allora. Sia in portoghese, obnoxio, sia in inglese, obnoxious, significa insopportabile, detestabile. L’album non ebbe un gran successo nell’immediato. Eppure era un gran bel lavoro, da vera avanguardia, composto da un giovane di talento, musica molto curata e complessa, con testi altrettanto intensi di Ana Maria Bahiana e, dunque, in teoria, passibili delle reazioni feroci e violente di una dittatura ossessionata e priva di cultura.
La voce baritonale, rassicurante, di Mauro veniva ricamata dai controcanti angelici di Ana Maria, con continui riferimenti a un mondo spirituale che si muoveva tra sincretismo e cattolicesimo. La ragione del suo mancato successo, probabilmente, sta nel fatto che il disco non fu promosso a sufficienza e tantomeno distribuito. Insomma, un gioiello chiuso nel cassetto.
Di Obnoxious se ne tornerà a parlare nel 2016, grazie a un’etichetta inglese, la Far Out Recordings di Joe Davis, dj e produttore patito da sempre di musica brasiliana, uno dei massimi esperti del genere nel Regno Unito, che, rilevati i titoli di Quartin, lo ripubblica. Come era successo negli anni Novanta con nomi di spicco della musica d’avanguardia brasiliana dello stesso periodo, per esempio gli Azymüth (ascoltateli, qui in Despertar) Marcos Valle (qui con Não Tem Nada Não), Banda Black Rio (eccoli con Maria Fumaça), Arthur Verocai (un grande! Qui Na Boca do Sol), Joyce (qui con Passarinho Urbano), anche Mauro con Obnoxious era entrato nel culto di collezionisti, rapper americani e dj inglesi, che usavano questo bendidìo come basi per rappare e far ballare nelle discoteche. Quelle musiche tra samba, jazz, folk, accordi difficilissimi, sonorità “tropicali” attiravano e incantavano.
E qui iniziano i problemi: bisognava pagare i diritti d’uso dei brani, ma José Mauro dov’era finito? Qualcuno era riuscito ad avere un numero di telefono, a cui non rispondeva mai nessuno. Da anni circolavano strane voci sull’artista sparito misteriosamente, anche perché, come avevano fatto molti suoi colleghi – vedi Gilberto Gil o Caetano Veloso – in quei tempi duri, José non aveva scelto l’esilio, decidendo di rimanere a Rio. Saltò fuori una storia, che prese piede: era morto in un incidente di moto. E poi un’altra: probabilmente era stato fatto sparire dagli sgherri della dittatura… Altri sostenevano che, povero, vivesse in una favela di Rio…
Nulla di tutto questo: Mauro, semplicemente disilluso dal fatto che i suoi dischi non erano stati sufficientemente spinti, s’era ritirato in silenzio, scomparendo come un eremita, dedicandosi sempre alla musica, scrivendo colonne sonore per pièce teatrali, e, soprattutto, votandosi all’insegnamento della sua amata chitarra. Che ha dovuto abbandonare negli ultimi anni perché malato di Parkinson. Quando ha saputo di tutto il clamore, l’artista, settantaduenne che vive a Vargem Pequena, quartiere nella parte occidentale di Rio, ha scritto un whatsapp smentendo le dicerie e dicendo che stava vivendo la sua vita tranquilla e tutto questo clamore lo stupiva.
Quanto alla sua scomparsa dal circuito musicale, l’artista, via mail (come scrive Bandacamp) chiarisce lapidario: «Non sono scomparso. Il mondo mi ha fatto sparire». Grazie a Joe Davis e alla sua Far Out recordings il mondo dovrà ricredersi su quel piccoletto, schivo, con il volto rotondo che abitava in una stanza vicino al Jardim Botânico: il 28 maggio, prossima settimana, verrà ripubblicato A Viagem das Horas, album che Davis scoprì per caso nel 1986 in un negozio di dischi usati a Rio. Uscirà come avrebbe dovuto essere all’origine, con tre brani che nel ’76 non furono inclusi, Rua Dois, Moenda e Variação Sobre Um Antigo Tema.
Dopo 50 anni José Mauro e la sua musica stanno per ricevere il meritato riconoscimento. Giustizia artistica verrà fatta. La storia di questo musicista brasiliano, schivo, con un carattere non facile, geniale, assomiglia molto a un’altra vissuta a 8mila chilometri di distanza a nord di Rio, negli Stati Uniti, a Detroit. È quella di Sixto Rodriguez, cantastorie folk che incise nel 1970 e nel 1971 due begli album, Cold Fact e Coming From Reality, ma che in America non ebbe fortuna.
Nella sua vita, oltre al musicista, Rodriguez ha fatto il muratore e s’è impegnato per migliorare la vita dei lavoratori di una delle città più difficili e dure degli States. Non sapeva, Sixto, che in Australia, Nuova Zelanda ma soprattutto in Sudafrica, era un idolo, più famoso di Bob Dylan, e che i suoi testi erano considerati inni durante lotta contro l’apartheid. Per caso la figlia del musicista si imbattè in internet in un sito dedicato al padre e scoprì quanto fosse amato e venerato. Malik Bendjelloul, giornalista e regista svedese, ci fece un film, Searching For Sugar Man, che vinse l’Oscar nel 2013. La vita di Sixto cambiò più o meno all’età attuale di Mauro. Sulle note di I Wonder vi lascio e vi auguro un buon fine settimana.