“Tango Macondo”, una storia fantastica a suon di folklore

 

Sono stato al Teatro Carcano di Milano a vedere Tango Macondo, favola ricca di fantasia, cuore e musica di Giorgio Gallione, prodotto dal Teatro Stabile di Bolzano, con le musiche (e la presenza sul palco) di Paolo Fresu (flicorno e tromba), Daniele di Bonaventura (bandoneon)  e un incredibile Pierpaolo Vacca (organetto).

Ispirato al libro di Salvatore Niffoi Il Venditore di Metafore (Giunti, 2017), più che una classica piece teatrale è una epica, fantastica, spettacolare narrazione, grazie alle scenografie di Marcello Chiarenza, alla bravura degli interpreti, personaggi che si “rubano” la parola senza interagire tra di loro, diventando narratori di un vorticoso e audace racconto che cattura, stimolando la parte fanciullesca del pubblico. Ugo Dighero, Rosanna Naddeo e Paolo Li Volsi sono i felici interpreti mentre Luca Alberti, Alice Pan, Valentina Squarzoni e Francesca Zaccaria, del DEOS, il Danse Ensemble Opera Studio di Genova, i danzatori.

Tutti sul palco, attori, musicisti, ballerini a ricreare una storia che parte da Mamoiada in Sardegna (il paese del Carnevale e dei Mamutones) e finisce in Argentina in un villaggio che Mataforu, assieme all’amore della sua vita, Anzelina Bisocciu, costruiscono e chiamano Macondo (il riferimento al paese inventato di Gabriel García Márquez in Cent’anni di Solitudine, aumenta nello spettatore i desideri di miti, terre lontane, avventure…). In questo mondo parallelo dove si alternano risate e tragedia, ci sono i tre musicisti, pilastri immobili a costituire un triangolo narrativo ed evocativo. Il flicorno e la tromba di Paolo Fresu fanno da collante all’organetto di Pierpaolo Vacca e al bandoneon di Daniele di Bonaventura.

Ora che vi ho raccontato il mio spettacolo (vivendo un’ora e mezza nel fantasy ogni singolo spettatore ne esce con una sua versione di quanto visto e sentito), faccio un breve approfondimento su una terra a me più familiare, la musica, parlando del disco che è uscito parallelamente alla piece teatrale e che porta lo stesso titolo, Tango Macondo, uscito per la Tŭk Music. L’occasione per i tre musicisti di eseguire i temi dello spettacolo, con ampi spazi per il folklore sardo, e includere anche brani ampiamente codificati del tango argentino. L’intelligenza di Fresu, artefice dell’operazione, è quella di aver inserito tre perle rare in questa collana di note, sia per la loro bellezza sia per le interpreti scelte, tutte italiane.

La prima in ordine di ascolto è Alguien Le Dice Al Tango, brano di Astor Piazzolla su testo di Jorge Luis Borges, interpretata da Malika Ayane; la seconda El Día Que Me Quieras, scritta da Carlos Gardel nel 1934 su un testo del giornalista e drammaturgo Alfredo Le Pera del 1919, cantata da Tosca (a proposito: se siete a Milano l’8 novembre, andate ad ascoltarla al Teatro Parenti, dove porterà in scena il suo ultimo album, Morabeza, con la direzione artistica di Joe Barbieri, uscito nel 2020 e per il quale ha vinto due targhe Tenco,). La terza è una incredibile versione di Volver, brano composto sempre da Gardel e sempre nel 1934 con le parole di Le Pera, eseguita da una cristallina Elisa. Da ascoltare e riascoltare. Buon weekend a tutti…

Canzoni immortali/ Hallelujah, Leonard Cohen

Ci sono canzoni che sono entrate “sottilmente”, con grazia nel nostro quotidiano, al punto che sembra siano nate con noi. Esistono e basta, ce le portiamo avanti, spesso perdendone l’autore, tante sono le versioni che sono state incise e gli artisti che le hanno reinterpretate. Canzoni assolute, si potrebbe dire, canzoni senza tempo, che appartengono a tutti, alle emozioni di ciascuno di noi. Più o meno queste riflessioni mi son trovato a fare quando, martedì scorso, sulla mia solita tratta metropolitana diretto a Cadorna, è entrato uno dei tanti musicisti in cerca di moneta in cambio di una mini esibizione, sempre la stessa, di vagone in vagone. Violino, carrello della spesa riadattato a porta-amplificatore, sguardo assente, mezza età, elegante. C’erano pochi viaggiatori sul vagone… tempi magri con il coronavirus, protagonista assoluto delle nostre vite in questi strani giorni d’epidemia… Incuriosito, ho tolto le cuffie (stavo ascoltando Myopia, ultimo lavoro appena pubblicato della compositrice danese Agnes Obel, di cui vi parlerò – non prendetela come una minaccia!).

Ed eccola lì: Hallelujah di Leonard Cohen  – e la suonava pure bene, con il giusto pathos. Torniamo alle canzoni senza tempo: Hallelujah ne è l’esempio. Un brano perfetto, descritto nella sua composizione nella prima strofa, «It goes like this, the fourth, the fifth, The minor fall, the major lift, The baffled king composing Hallelujah» (Fa così, il quarto, il quinto, il minore scende, il maggiore sale, il re confuso mentre compone Hallelujah). Che tradotto, essendo la musica in Do maggiore, il quarto di Do è il Fa, il quinto, il Sol, il minore che scende è il La e il maggiore che sale, il ritorno al Do. Le cronache coheniane narrano che il sommo Leonard impiegò anni a scriverla (lo rivelò anche lo stesso cantautore canadese); sul suo quaderno, anzi, i suoi quaderni, annotò oltre 80 strofe, e alcune di queste le usò negli anni cambiandole durante i suoi concerti. Arrivò persino, una sera, ospite al Royalton Hotel di New York, seduto per terra, a sbattere la testa, confuso e arrabbiato per non riuscire a mettere una parola fine a quel lavoro che sembrava immane. Il brano fu inserito nell’album Various Positions, uscito l’11 dicembre del 1984. Il testo è complesso, come d’altronde tutti quelli di Cohen, saggio e introspettivo pensatore, parla di di Dio, d’amore, d’erotismo assoluto, di rapporti umani, di coppia… insomma, molti si sono cimentati nella sua esegesi, arrivando a teorizzare gli opposti, a seconda che la vivessero da credenti o laici. Tralascerei le varie posizioni, per ritornare alle “cover”. Il primo a inciderla è stato un mito della musica underground, John Cale, nei Velvet Undergound assieme a Lou Reed: la sua Hallelujah è davvero spettacolare. È contenuta nell’album I’m Your Fan, un tributo a Cohen realizzato da vari artisti, uscito il 30 settembre 1991 (oltre a Cale, c’erano i Pixies, i R.E.M., Ian McCulloch degli Echo & the Bunnymen…). Anche Bob Dylan rilasciò la sua interpretazione, in un concerto al Forum de Montréal in Canada, nel 1988. Nel 1994 è la volta di Jeff Buckley, la voce d’angelo del rock che la inserì nel suo album capolavoro Grace. Buckley morirà annegato in un affluente del Mississipi, a Memphis, tre anni più tardi. Questa, per molti (e io mi accodo) è la versione più bella e intensa tra le tante, quasi 200, eseguite negli anni. Degna di nota anche quella di Rufus Wainwright: la canzone faceva parte della colonna sonora del film di animazione Shrek della DreamWorks Animation ed è un omaggio a Jeff Buckley. C’è anche la versione blues (la canzone originale è in 6/8, quindi adatta anche a riscritture gospel-blues), ed è quella di Popa Chubby, con un bell’assolo di chitarra del mastodontico sessantenne bluesman del Bronx. La trovate in varie edizioni. Per chi non conoscesse Popa Chubby, al secolo Ted Horowitz, consiglio The Essential Popa Chubby del 2010. Tornando alla nostra canzone, un’altra buona versione è quella di K.D. Lang contenuta nell’album Hymns of the 49th Parallel del 2004, un omaggio ai grandi artisti canadesi del 49esimo parallelo, il confine tra Usa e Canada (Neil Young, Joni Mitchell, la stessa cantautrice, Ron Sexsmith, Cohen per citarne alcuni). Abbiamo anche delle versioni italiane, la più bella è quella di Elisa, prima traccia dell’album Lotus del 2006. Questo è tutto. A voi la voglia di ascoltare Hallelujah e scoprire altre riletture. Accidenti! Non dimenticate quella riadattata da don Ray Kelly, parroco della parrocchia irlandese di Oldcastle, County Meath, nel 2014: ha fatto il giro del mondo – oltre due milioni e mezzo di visualizzazioni sui social solo nei primi giorni -, regalo di nozze ai due giovani che aveva appena sposato…