L’arte Solenne di Carlo Maver

Carlo Maver – Foto Daniele Franchi

Talento poetico, emozioni che vibrano grazie al soffio primordiale di un flauto basso o al mantice di quello strumento geniale e complesso che è il bandoneon. Musica del mondo, frutto di viaggi ed esperienze vitali. Musica sacra, perché inviolabile. E poi silenzi profondi che ti scavano dentro l’anima rendendo unico ogni ascolto. 

Carlo Maver, 50 anni appena compiuti, flautista e bandoneonista bolognese ha fatto un piccolo e prezioso miracolo pubblicando Solenne, il suo nuovo lavoro dopo cinque anni di silenzio. Giorni in cui ha ragionato sul proprio destino, sulla perdita dei genitori e di amici, sulla separazione. Un album uscito il 10 marzo in vinile e cd, il digitale arriverà poi. Un punto fermo anche questo: il voler fissare su qualcosa di tattile il frutto del suo lungo e non facile lavoro, presentato a Bologna, domenica scorsa, appunto.  Continua a leggere

Pierpaolo Vacca, il disco di un Bastian contrario

Pierpaolo Vacca – Foto Alessia Zedde

Il 19 gennaio scorso è uscito per per Tǔk Music Travessu, il primo lavoro solista di Pierpaolo Vacca, 32enne organettista sardo di Ovodda (Nuoro). L’avevo visto suonare dal vivo un paio di anni fa al Teatro Carcano di Milano sul palco con Paolo Fresu e Daniele Di Bonaventura per Tango Macondo, di cui vi avevo parlato qui. Nipote di Beppe Cuga, famoso – e unico – suonatore di launeddas della Barbagia, ha iniziato a suonare l’organetto a sei anni, andando a lezione dal maestro Peppino Deiana, Tziu Peppinu. 

Come definire la musica di Pierpaolo? Bella domanda: «Non mi pongo il problema di che tipo di genere suono, la musica viene da dentro, è libera, perché incasellarla?», mi dice candido durante l’intervista. Un po’ complicato farci l’abitudine: l’artista viene da un altro mondo, antichissimo, con solide regole a cui non rinuncia. La musica è la sua vita, il resto è un di più. Stupisce la sua sincerità, la sua umiltà ma anche la consapevolezza di essere uno dei pochi eletti che siedono di diritto al desco della Musa Euterpe.

Musica e danza sono inscindibili in Travessu. L’organetto, filtrato da una pedaliera da chitarra che con enorme pazienza s’è settato, assume tante voci, un’onda sonora che si propaga e che avvolge, contraltare alle incursioni di altri artisti, dal pianista Dino RubinoCappotto è autentica World Music made in Ovodda, l’organetto viene “ricamato” dal tocco gentile di Rubino che improvvisa pulito – al percussionista senegalese Pape Ndiaye in Campid Afro, a Dj Cris, al secolo Cristian Orsini, in Danzas Sardstep, fino a Nanni Gaias e al chitarrista Fabio Calzia in Tziu Soddu. Continua a leggere

Al festival di Castelfidardo la magia di Daniele Di Bonaventura

Inizia oggi, 13 settembre, la 48esima edizione del Premio Internazionale Fisarmonica (PIF) a Castelfidardo (Ancona). Evento molto sentito nella cittadina che, grazie all’azienda fondata da Paolo Soprani nella seconda metà dell’Ottocento, è diventata la capitale italiana di questo strumento musicale. Saranno cinque giorni di contese e concerti, tra questi si potranno ascoltare Danilo Di Paolonicola con il suo No Gender (ve ne avevo parlato in aprile, all’uscita del suo lavoro omonimo), Sergio Cammariere, Rita Marcotulli con un progetto a metà tra il cinema di Truffaut e il jazz, Richard Bona in quartetto con il fisarmonicista Luciano Biondini (di lui ho scritto in questo post), Andrea Piccioni ai tamburi a cornice e Ciro Manna alla chitarra.

C’è un altro incontro musicale che si terrà il 16 settembre, alle 22, nel Parco delle Rimembranze, ed è quello con Paolo Fresu e Daniele Di Bonaventura che porteranno, in duo, Mistico Mediterraneo, lavoro da cui nacque un gran bel disco pubblicato nel 2011 con il coro corso A Filetta. Tecnicamente Daniele è un outsider del PIF, visto che la fisarmonica l’ha suonata pochissimo da giovane e che lo strumento con cui si esprime è un lontano parente della stessa, il bandoneon. Continua a leggere

Naviganti e Sognatori, un disco per fantasticare…

In questa giornata milanese un po’ così, grigia, con una pioggerella gelata pronta a ricordare che, nonostante il sole intraprendente delle scorse settimane, siamo ancora in pieno inverno, mi sono deciso di riorganizzare gli ascolti degli ultimi mesi. Da buon meteoropatico, una scusa per togliermi dalla testa quel senso di stanca tristezza che non approda a nulla… encefalogramma piatto. Tralasciando la mia cupa condizione, mi è capitato tra le mani un disco uscito il 14 ottobre scorso per Abeat Records.

Si tratta di Naviganti e Sognatori, una cover bellissima, una vecchia nave che scorre in un mare giallo, in una notte di mezza luna. È il lavoro strumentale di tre musicisti di rango, il chitarrista Luca Falomi, il contrabbassista Alessandro Turchet e il batterista Max Trabucco. Assieme a loro, in tre brani suona anche il bandeonista Daniele Di Bonaventura, uno dei musicisti che venero nel mio personale pantheon dei “geniali artisti italiani”.

Un disco di forte potenza espressiva, un lavoro dotto e delicato che unisce alcune canzoni della tradizione – napoletana, genovese, veneziana e friulana – a brani composti dal trio in una lunga e atemporale traversata fatta di suoni e ritmi del nostro mondo mediterraneo, ma non solo. Il mare è il tema del disco, è avventura, speranza, coscienza, ricerca. E nel mare c’è anche il sogno, perché, senza la libertà di fantasticare, immaginare, non si va mai lontano.

Qui si sogna, e molto, mentre ci si lascia trasportare dai tre timonieri su questo veliero armonico che dispiega le vele al vento e scivola verso l’ignoto. Falomi è genovese, Trabucco mestrino, Turchet friulano. Genova, Venezia e Trieste, ma anche “altro” Adriatico, quello dei lidi marchigiani, da dove proviene Daniele Di Bonaventura.

Da sinistra, Max Trabucco, Alessandro Turchet, Luca Falomi – Foto di Fabio Marcoleoni

Un lavoro prezioso per l’alta qualità della musica e dei musicisti, dove il jazz c’è ma viaggia nella stessa classe della musica popolare, delle melodie mediterranee e di quelle d’oltreoceano, grazie alla sapiente presenza ritmica di Trabucco, sempre attento a pennellare con batteria e percussioni il ricamo di armonie di Turchet, gran maestro nell’uso del contrabbasso: il ritmo è ricordo, e qui c’è tutta l’essenza del viaggiar per mare e di un’Italia contaminata da secoli di domini e scoperte. Le chitarre di Falomi arrivano pulite e affascinanti, splendide in dialogo con il bandoneon di Daniele Di Bonaventura. Basta ascoltare la seconda traccia, Rotte Mediterranee per avvertirlo…

La barcarola napoletana La nova gelosia, ripresa anche da Fabrizio De Andrè nell’album Le Nuvole del 1990, è un esempio di questa personalissima World Music: tamburi maghrebini, chitarra che traccia la melodia prima di lanciarsi in una sostanziosa improvvisazione, con il contrabbasso che diventa strumento multiforme, suonato magistralmente ad archetto o percosso al punto da sembrare un berimbau, passaggi di collegamento dove echeggiano accordi e melodie di bossanova…

Anche Naviganti e sognatori richiama al Sudamerica, ancora bossa, ancora ricordi di rotte di migranti, passaggi di moltitudini e note, accenni di classici argentini, una solida imbarcazione che ti spinge a conoscere le nostre radici trasferite dall’altra parte del mondo in cerca di una nuova vita, nei tanti viaggi della speranza di oltre un secolo fa.

C’è un che di ipnotico nel lavoro del trio, quella ineluttabile sensazione di lasciarsi imbrigliare in una flessuosa rete armonica. Va così in questo freddo e grigio martedì di febbraio…

Interviste: Paolo Fresu, la musica? Non ha etichette

Paolo Fresu – Foto Tommaso Le Pera

Se c’è un artista che, nonostante tutte le difficoltà dettate da due anni di pandemia, ha sempre guardato alla musica come un rimedio salvifico per l’anima e per il cuore, questo è Paolo Fresu. In quel terribile 2020 è stato uno dei pochi a continuare a proporre il suono della sua tromba, squillante o sussurrato, allegro o malinconico.

Artista prolifico, mai banale, creativo, pignolo, anche nella scelta delle copertine degli album pubblicati dalla sua Tǔk Music, label che ha fondato nel 2010 e che l’anno scorso a festeggiato i suoi primi dieci anni, con cui continua a promuovere giovani musicisti talentuosi o affermati jazzisti internazionali.

È uno che cento ne pensa e cento ne fa, tuffandosi nei continui progetti come se fosse Indiana Jones alla ricerca del suono perduto. Fresu ama la musica e fare musica. Non importa etichettarla, in fin dei conti per lui non è così essenziale. La musica ha tante facce, tante strade, tanti linguaggi, tutti hanno uno scopo e un valore.

Guardando al suo percorso artistico al numero di dischi che ha pubblicato, alle “enne” collaborazioni con jazzisti di tutto il mondo, si vede un musicista onnivoro, uno che non ha mai avuto paura di cambiare, che guarda sempre oltre, in preda a una curiosità infinita. Da Ostinato, il suo primo disco del 1985 con il Paolo Fresu Quintet, in attività dal 1984 (a proposito i cinque, oltre a Fesu Tino Tracanna al sax, Roberto Cipelli al pianoforte, Attilio Zanchi al contrabbasso ed Ettore Fioravanti alla batteria si esibiranno il 20 dicembre prossimo al Blue Note di Milano), passando per Inner Voices (1986) con il flautista Dave Liebman e sempre il Paolo Fresu Quintet, allo sperimentale e bellissimo Anaglifo (1997) con Nello Toscano e Rosanna Bentivoglio, A Mare Nostrum (2007), lavoro altrettanto interessante con Jan lundgren e Richard Galliano, ad Alma (2012) dove dialoga con un grande Jaques Morelenbaum e il cubano Omar Sosa, fino agli ultimi lavori, come la rivisitazione in chiave jazz della Norma di Vincenzo Bellini (2019) con l’Orchestra Jazz del Mediterraneo e Paolo Silvestri, In Origine: The Field of Repetance (2020) con SaffronKeira, un mito della musica elettronica, al secolo Eugenio Caria, sardo pure lui, al disco celebrativo dei suoi 60 anni, è tutto un cambiare, modificare, capire, reinterpretare.

L’ho incontrato a Milano a teatro dopo il suo Tango Macondo. Gli ho chiesto se aveva voglia di fare quattro chiacchiere con me per Musicabile. Ha acconsentito e dopo alcuni giorni ho ricevuto un appuntamento telefonico, da Monfalcone, dove si trovava per la tournée, spettacolo che, per inciso, ha appena aggiunto due date a Foggia, il 26 e 27 novembre, al Teatro Giordano. Il 4 dicembre sarà a Rovereto (Teatro Zandonai) per terminare a Roma dal 7 al 12 dicembre (Teatro Quirino).

Paolo, partiamo subito con Tango Macondo, oltre allo spettacolo, anche un disco, dove ci sono tre perle, Alguien Le Dice Al Tango, cantato da Malika Ayane, El Día Que Me Quieras, da Tosca e Volver, da Elisa…
«Tango Macondo è un esperimento, sinceramente non so cosa sia, se jazz o world music o qualcosa d’altro, non mi interessa. Con Malika, Tosca ed Elisa, artiste che provengono da mondi musicali diversi abbiamo dimostrato che ci sono tanti modi per unire la musica»

In fin dei conti, Tango Macondo è un viaggio nella fantasia e nella creatività…
«Anche se il libro da cui è stato ricavato  è quello di Salvatore Niffoi, peraltro grande appassionato di musica, l’idea di un collegamento tra la Sardegna e l’America Latina mi era venuto leggendo un libro di Giovanni Maria Bellu, L’uomo che voleva chiamarsi Perón, dove si narrava che a Mamoiada vivesse un ragazzo di nome Giovanni Piras, partito per l’Argentina e che lì fosse diventato Juan Domingo Perón. Storia bellissima che provocò per un periodo la leggenda metropolitana di un sardo diventato il padrone politico del paese sudamericano. Alcuni finirono per credere davvero che Perón provenisse da Mamoiada. Ricordo che lessi il libro in un viaggio dalla Sardegna a Buenos Aires. Però il romanzo non aveva quel tipo di racconto tale da trasformarlo nella pièce teatrale che avevo in mente».

Con te sul palco ci sono Daniele Di Bonaventura, bandeonista, altro musicista che ascolto sempre con piacere, e Pierpaolo Vacca, un prodigio nell’organetto…
«Daniele è un grande bandeonista, ma non suona il tango. Il bandoneon è uno strumento che può fare di tutto: nasce in Germania, nelle chiese dove non potevano permettersi l’acquisto di un organo, come strumento sostitutivo. In Argentina con il bandoneon s’è suonato il tango. Pierpaolo è un grande esperto di musica tradizionale sarda: potrebbe suonare per ore senza mai fermarsi….».

Il rapporto tra l’Italia e l’America Latina è stretto…
«C’è un filo diretto tra il Sud Italia e il Sud America, un filo che unisce la musica brasiliana, il tango argentino e la musica italiana. La versione di Tosca di El día Que Me Queiras potrebbe essere benissimo una canzone napoletana di fine Ottocento! Non a caso anche Caetano Veloso è molto attratto dall’Italia e dalla sua cultura. Sono due mondi che si toccano di continuo, anche nell’idea melodica della musica. La migrazione è sempre a doppio senso, è normale che ciò avvenga».

Andiamo in Sardegna: sbaglio o l’isola ha molti bravi musicisti, una media altissima?
«È vero, la Sardegna ha una predisposizione per la musica, ma anche per il jazz! È un’isola musicale. Ha una storia ricca: tutti sono passati di qua per portarci via qualcosa, anche in tempi molto recenti, ma hanno pure lasciato qualche cosa. I sardi hanno imparato: abbiamo le launeddas (strumento a fiato tradizionale ad ancia semplice costituito da tre canne, ndr), il canto  a cuncordu (simile a quello a tenore, tradizionale soprattutto nelle rappresentazioni della Settimana Santa, ndr), la musica monodica, la poesia orale dei poeti improvvisatori. Questa tradizione è stata reinventata dagli anni Ottanta in poi, e qui si arriva al jazz e ai numerosi appuntamenti sull’isola, dal festival di Cagliari (Festival Internazionale Jazz in Sardegna, ndr) al Calagonone Jazz Festival al Time in Jazz di Berchidda (creato dallo stesso Fresu nel 1988, ndr). Il jazz è musica di origine popolare e non a caso ha attecchito in Sardegna, dove ci sono musicisti, poeti, scrittori… Adesso questa musica e queste forme di poesia si muovono in direzioni nuove come Nanni Gaias, Salmo, i Menhir o Pierpaolo Vacca».

Paolo fresu – Foto Michele Stallo

Time in Jazz esiste da 34 anni, è un appuntamento irrinunciabile per chi ama jazz e contaminazioni…
«È un festival creato sostanzialmente per promuovere nuovi talenti. Attorno all’idea forte del festival continuano a nascere iniziative, tutte volte a diffondere la cultura musicale. L’ultima è Sa banda sa musica sa festa (qui su Facebook, ndr), progetto partito ai primi di ottobre che culminerà a dicembre. La banda di Berchidda ha incontrato la Funky Jazz Orchestra. Con l’aiuto di Corrado Guarino che segue la banda ogni 15 giorni, e di Dario Cecchini stanno preparando un grande concerto per il 28 dicembre a Sassari».

Berchidda è diventata, grazie a te, un centro culturale dove si fa musica e non solo.
«Senza la banda di Berchidda io non sarei qui. Ho iniziato a suonare la tromba da bambino nella banda. È lì che mi sono appassionato alla musica e sono diventato un musicista».

Time in Jazz e tutta l’attività che svolgi per il jazz e la cultura sono, dunque, il ringraziamento al tuo paese e alla tua terra…
«Pur vivendo a Bologna da anni, ho un grosso legame con Berchidda. Sul terreno dove mio padre allevava le bestie e coltivava la terra ho costruito il mio buen retiro. Mio padre era un pastore, della mia infanzia ricordo le pecore e la vigna. Il podere si chiama Tucconi. La mia etichetta discografica l’ho battezzata Tǔk, il toponimo di questo luogo rivisitato. Tutto torna, sempre: la banda, la casa discografica, il festival, la ricerca di nuovi talenti… Quest’anno il tema del festival non era Dante ma le stelle, care al poeta. Pietro Casu, poeta berchiddese, tradusse la Divina Commedia in sardo, molti passi li declamavano a memoria i pastori. Erano tradizioni orali. I poeti ottocenteschi, parole per la musica, vedi i Tenores di Bitti, il sottoscritto, Nanni Gaias, tutto si deve tenere…».

A proposito di Gaias: a gennaio l’ho presentato su Musicabile come uno dei giovani più promettenti, in occasione dell’uscita per la Tǔk Music del suo Ep T.O.T.B., Think Outside The Box assieme a un altro giovane chitarrista, Giuseppe Spanu…
«Nanni è di Berchidda ed è un bravo e promettente artista, anche lui si è formato nella banda del paese. Vedi, con lui tutto torna, è il motivo per cui in questi anni ho lavorato per la musica e per formare nuovi artisti. La Tǔk Music è stata creata perché tanti giovani musicisti mi inviavano i loro master da ascoltare o chiedevano consigli su come muoversi. Così mi son detto: “Perché non creare una label dedicata soprattutto a loro?”».

PAolo Fresu – Foto @seda

La Tǔk conta circa 170 artisti, un bel numero per una casa discografica…
«Siamo una grande famiglia, sono tutti artisti che hanno un pensiero simile al mio, oltre a essere bravi musicisti. Credo che un artista non sia solo lo strumento che suona ma il pensiero che ha dietro».

Di giovani musicisti portati al talento ce ne sono tanti in Italia, ma difficilmente emergono…
«Ce ne sono anche di importantissimi che non hanno la fama che meriterebbero. Forse siamo in tanti per un palco come l’Italia. In questo mondo complesso non c’è spazio, ma a volte manca quel coraggio per programmare altro. Se si investe bene i risultati si vedono, vedi il nostro Festival di Berchidda. La gente viene a vederci a prescindere dall’artista famoso, perché ci siamo conquistati la credibilità di proporre sempre musica interessante. Viene perché di noi si fida ed è curiosa di scoprire nuovi talenti. E poi il festival non è solo musica ma anche cinema, scoperta del territorio, letteratura. Alla Tǔk pubblichiamo i dischi che ci piacciono per una direzione comune, che, giuro, non so quale sia. Ritorno sulla tua osservazione: in Italia c’è poco coraggio nel fare scelte diverse dalle solite, finendo così per avere più o meno gli stessi artisti che girano, me incluso».

Dove sta andando al musica?
«Sono positivo. La musica si muove, punto. Ci sono cose molto belle in giro. Ciò che è importante è che la musica ci sia, avere una certa curiosità per gli altri linguaggi. Coloro che sostengono che il jazz sia morto con Coltrane sono morti dentro. Il jazz per sua definizione è apertura. Il nostro compito, quello che dovremmo fare ora, è cercare di aiutare il jazz e gli altri mercati musicali. Mi sforzo di aprire un po’ la mente. Ognuno di noi artisti deve farsi strada nel mercato musicale usando anche nuove tecniche e linguaggi. Lo spettacolo teatrale Tempo di Chet, a teatri chiusi per il Covid, ha avuto sul digitale una risposta incredibile, quasi 12 milioni di visualizzazioni. Occorre dare risposte creative e concrete rispetto al mercato. Bisognerebbe che anche la politica se ne rendesse conto, ad esempio per aiutare i jazz club».

Cosa ti spinge nel tuo lavoro, di musicista e discografico?
«Una grande creatività. Attingo da tutto, mi piace ascoltare tutto, rispondo sempre a tutti. Quando un giovane ti manda un master devi rispondere, perché le persone attendono sempre una tua risposta. Sono stato educato così. Poi, vicino a me ho persone come Luca Devito, grandissimo appassionato di musica, che mi propone di tutto. A tal proposito, mi appassiona moltissimo, per esempio, Venerus. Poi ho mio figlio che, da adolescente, mi fa scoprire cose straordinarie. La mia non è bulimia, ma attenzione. Mi piace provare, sperimentare anche se poi, come in cucina, non tutte le ciambelle escono col buco! Nonostante i miei 60 anni l’idea dell’ascolto la reputo fondamentale, altrimenti si finisce col paraocchi. Come a tavola, se non assaggi un cibo non sai se sia cattivo o buono, così nella musica, se mi arriva un disco lo ascolto, se non mi va non mi faccio del male e lo lascio perdere, se mi colpisce, beh, allora, l’ascolto ne è valso davvero la pena!».

“Tango Macondo”, una storia fantastica a suon di folklore

 

Sono stato al Teatro Carcano di Milano a vedere Tango Macondo, favola ricca di fantasia, cuore e musica di Giorgio Gallione, prodotto dal Teatro Stabile di Bolzano, con le musiche (e la presenza sul palco) di Paolo Fresu (flicorno e tromba), Daniele di Bonaventura (bandoneon)  e un incredibile Pierpaolo Vacca (organetto).

Ispirato al libro di Salvatore Niffoi Il Venditore di Metafore (Giunti, 2017), più che una classica piece teatrale è una epica, fantastica, spettacolare narrazione, grazie alle scenografie di Marcello Chiarenza, alla bravura degli interpreti, personaggi che si “rubano” la parola senza interagire tra di loro, diventando narratori di un vorticoso e audace racconto che cattura, stimolando la parte fanciullesca del pubblico. Ugo Dighero, Rosanna Naddeo e Paolo Li Volsi sono i felici interpreti mentre Luca Alberti, Alice Pan, Valentina Squarzoni e Francesca Zaccaria, del DEOS, il Danse Ensemble Opera Studio di Genova, i danzatori.

Tutti sul palco, attori, musicisti, ballerini a ricreare una storia che parte da Mamoiada in Sardegna (il paese del Carnevale e dei Mamutones) e finisce in Argentina in un villaggio che Mataforu, assieme all’amore della sua vita, Anzelina Bisocciu, costruiscono e chiamano Macondo (il riferimento al paese inventato di Gabriel García Márquez in Cent’anni di Solitudine, aumenta nello spettatore i desideri di miti, terre lontane, avventure…). In questo mondo parallelo dove si alternano risate e tragedia, ci sono i tre musicisti, pilastri immobili a costituire un triangolo narrativo ed evocativo. Il flicorno e la tromba di Paolo Fresu fanno da collante all’organetto di Pierpaolo Vacca e al bandoneon di Daniele di Bonaventura.

Ora che vi ho raccontato il mio spettacolo (vivendo un’ora e mezza nel fantasy ogni singolo spettatore ne esce con una sua versione di quanto visto e sentito), faccio un breve approfondimento su una terra a me più familiare, la musica, parlando del disco che è uscito parallelamente alla piece teatrale e che porta lo stesso titolo, Tango Macondo, uscito per la Tŭk Music. L’occasione per i tre musicisti di eseguire i temi dello spettacolo, con ampi spazi per il folklore sardo, e includere anche brani ampiamente codificati del tango argentino. L’intelligenza di Fresu, artefice dell’operazione, è quella di aver inserito tre perle rare in questa collana di note, sia per la loro bellezza sia per le interpreti scelte, tutte italiane.

La prima in ordine di ascolto è Alguien Le Dice Al Tango, brano di Astor Piazzolla su testo di Jorge Luis Borges, interpretata da Malika Ayane; la seconda El Día Que Me Quieras, scritta da Carlos Gardel nel 1934 su un testo del giornalista e drammaturgo Alfredo Le Pera del 1919, cantata da Tosca (a proposito: se siete a Milano l’8 novembre, andate ad ascoltarla al Teatro Parenti, dove porterà in scena il suo ultimo album, Morabeza, con la direzione artistica di Joe Barbieri, uscito nel 2020 e per il quale ha vinto due targhe Tenco,). La terza è una incredibile versione di Volver, brano composto sempre da Gardel e sempre nel 1934 con le parole di Le Pera, eseguita da una cristallina Elisa. Da ascoltare e riascoltare. Buon weekend a tutti…

La musica che mi fa sentire bene

È da un po’ che volevo condividere con voi una mia riflessione. Sarà l’età, sarà la tanta musica che ho ascoltato e continuo ad ascoltare, ma mi sono reso conto di essere diventato sempre più selettivo nelle mie preferenze.

Continuo, certo, a mettere in cuffia tutti i generi, soprattutto quelli che non sono nelle mie corde, per comprendere nuove forme d’espressione e trarne spunti, spesso in una banalità imperante e dai facili consumi.

Quando la melodia è ripetitiva e scontata mi sento dire: «Ma devi ascoltare i testi, sono quelli che contano». Grazie, ma preferisco leggere quei versi senza il contorno di elaborazioni digitali fatte in catena di montaggio, tutte uguali, tutte senz’anima. Alcuni testi sono davvero interessanti, e mi riferisco soprattutto all’Urban. Il mainstream non è affatto garanzia di qualità.

Guardo all’Italia: apparentemente c’è solo una cultura dominante, quella del rap-trap, diventato il nuovo Pop, una contraddizione in termini se si pensa alla matrice culturale dell’hip-hop e alla controcultura in cui si è formato. Il genere è mercificato, buono per le case discografiche e per i trapper e rapper che hanno a disposizione il loro quarto d’ora di celebrità. Non parliamo poi dei prestampati sanremesi. Le eccezioni sono rare…

Ascoltare musica che dica qualche cosa (incluso l’Urban) risulta molto difficile, bisogna andarsela a cercare. In Italia, comunque, abbiamo fior di musicisti raffinati, preparati, virtuosi, polistrumentisti, affamati di contaminazioni, senza preclusioni. Jazz, latin jazz, rock, bossa nova, classica, hip-hop, funk, pop, linguaggi spesso distanti tra loro, diventano magicamente compatibili, un melting pot riuscito.

L’antropologo brasiliano Darcy Ribeiro in un suo libro dirimente, O Povo Brasileiro (impiegò 30 anni a scriverlo), annotava come la miscigenação, la combinazione di tre popoli, il portoghese, l’africano e l’indigeno, avesse portato a quello che è diventato un solo popolo brasiliano oggi. Non solo razza, ma anche cultura e, quindi, musica. Musica del mondo, dunque, influenze che trovano in artisti come Joe Barbieri, Stefano Bollani, Paolo Fresu, Daniele di Bonaventura (ascoltate l’ultimo suo lavoro uscito il giorno di Pasqua, Canzoni da Casa, o lo splendido Reminescenze con il pianista Giovanni Guidiqui uno dei concerti dei due artistiTosca, Gegè Telesforo (che ho intervistato lo scorso anno), Luca Aquino, Gabriele Mirabassi, Mauro Ottolini, di cui vi parlerò tra alcuni giorni, esempi significativi e importanti.

Mentre scrivo mi sto ascoltando Bollani e il suo Carioca, album uscito nel 2008. Ma anche il live uscito a marzo di quest’anno, in versione classica/world music, El Chakracanta (Live in Buenos Aires) con l’Orquesta Sin Fin diretta da Exequiel Mantega. Il disco è composto da due tanghi, Don Agustín Bardi di Horacio Salgán e Libertango di Ástor Piazzolla (l’11 marzo s’è celebrato il centenario della nascita) e da due composizioni per orchestra di Bollani, il Concerto Azzurro e il Concerto Verde, registrati, sempre nella capitale argentina, in tempi diversi.

Ieri sera, invece, l’ho dedicata a Barbieri, riandando ad ascoltare quel bellissimo disco del 2015, Cosmonauta da appartamento, qui L’Arte di Meravigliarmi con il prezioso intervento crossover della spagnola La Shica (a proposito di rap…) e Tu sai Io So con la voce inconfondibile di Peppe Servillo. Rimane un capolavoro per me Maison Maravilha, album del 2009 dove c’è Malégria cantata con Omara Portuondo, la grande artista cubana del Buena Vista Social Club.

Paolo Fresu (del suo ultimo disco, P60LO FR3SU ho parlato qualche giorno fa) da anni porta in musica quella miscigenação descritta da Ribeiro. Un esempio, per nulla banale, ma che solo un vero musicista può concepire, lo ha regalato il venerdì di Pasqua, suonando dalla sua casa il Miserere insieme al Cuncordu ‘e Su Rosariu di Santulussurgiu.

Il 30 marzo è uscito l’ultimo lavoro di Gabriele Mirabassi, Tabacco e Caffè, di nuovo assieme dopo quasi cinque anni da Amori Sospesi, al bassista Pierluigi Balducci e al chitarrista Nando di Modugno. Ascoltate Party in Olinda, il brano che apre il disco, del compositore e chitarrista brasiliano Toninho Horta. Il disco è un viaggio nella musica tradizionale brasiliana e quello che ha rappresentato negli anni per molti artisti, soprattutto jazzisti. E mentre il clarinetto di Mirabassi ti proietta in mondi rassicuranti e sognanti, Luca Aquino fa suonare la sua tromba in rivisitazioni della musica che ha più amato attraverso quella grande casa che è il jazz. Mi diverte ascoltare le elaborazioni di Rock 4.0 brani rock, dai Radiohead, a Neil Young a Bob Dylan (album del 2014) o overDOORS (del 2015), un omaggio alla mitica band di Jim Morrison, ma anche quel giusto riconoscimento a certa musica italiana d’autore in Italian Songbook del 2019 (con l’orchestra sinfonica di Benevento e la partecipazione del pianista Danilo Rea): molto intensa la sua versione di Almeno tu nell’Universo.

Potrei andare avanti ancora e ancora. La musica ha un grande potere terapeutico, e questi artisti per me sono passione, lavoro, fantasia, sogno, emozione. Questa è la musica che mi incuriosisce, che mi manca – nel senso della saudade brasileira (ne avevo parlato sul blog giusto un anno fa) che ho bisogno di ascoltare per essere in pace con me stesso e il mondo. Contaminazione, fantasia, un esperanto in note che acquista sempre più senso in questo assurdo momento storico.