Tosca, che emozionante viaggio nella musica!

Assistere a un concerto di Tosca è una garanzia, sai che vai a colpo sicuro. Hai bisogno di bellezza, emozioni, sogni? Ebbene, seduto in una delle poltroncine di un teatro, ovunque ti trovi, da Milano a Rio de Janeiro, sai che avrai tutto ciò in dono. Tosca, con i suoi 24 anni di carriera, è un’artista completa come pochi in Italia. Studio, interesse, passione, ne fanno un libro di bravura e arte da cui attingere a piene mani.

Ieri sera ero al Teatro Parenti di Milano, sold out, pazientemente in fila per mostrare il Green Pass e il mio biglietto. Con me, Sonia, la mia insostituibile compagna di vita che, essendo brasiliana e amante della MPB, non vedeva l’ora di ascoltarla, conoscendo la predilezione della mitica Tiziana Tosca Donati ad attingere versi e note da quel Brasile che ha ispirato artisti di tutto il mondo.

E così è stato. Un gran bel viaggio nella musica, dove c’è stato spazio per i brani contenuti nel disco Morabeza uscito il 14 febbraio 2020, più altri sempre scelti con cura in una sorta di colpi di scena, dove allegria, tristezza, riflessioni danno ritmo allo spettacolo diretto da Massimo Venturiello con l’accattivante scenografia di Alessandro Chiti, sotto la direzione artistica di Joe Barbieri, uno dei miei artisti italiani preferiti.

Il viaggio di Tosca ha i suoi compagni, musicisti di prim’ordine – e non potrebbe essere altrimenti – che oltre a suonare divinamente bene, cantano, duettano, in un percorso dove l’orizzonte è sempre la buona musica. C’è la triestina Giovanna Famulari al violoncello, pianoforte e voce, vero portento, il chitarrista romano Massimo De Lorenzi che ha dato vita a samba e bossa nova magici, la pugliese Elisabetta Pasquale al contrabbasso, cavaquinho e voce, il calabrese Luca Scorziello eclettico, esplosivo e “soffice” alla batteria e Fabia Salvucci alle percussioni e voce, ex allieva di Tosca, nel corso di alta formazione professionale di canto dell’Officina delle Arti Pier Paolo Pasolini. Intervento anche di Pietro Cantarelli, docente di Arrangiamento alle Officine, che con Tosca ha eseguito Ho amato tutto, brano da lui composto e arrangiato.

Così tra atmosfere tunisine e nordafricane, batucadas brasileiras e chitarre portoghesi, con escursioni in Francia, nel folklore rumeno e nella musica gitana, lo spettatore è partito per un viaggio onirico, di grandi emozioni, condotto da Tosca – e da quella voce ricca di sensazioni – che, nel corso dello spettacolo, cede ai sui colleghi di palco assoli da brividi.

Dai canti festosi zaghroutah delle donne mediorientali, al nuovo fado portoghese di Luísa Sobral (artista che in Morabeza disco canta con Tosca Un Giorno in Più), fino a una splendida versione di Alfonsina y el Mar, brano conosciutissimo in Argentina, scritto da Ariel Ramirez e Felix Luna, reso famoso da Mercedes Sosa nel 1969, eseguito solo con voce, battito di mani e un tavolino attorno al quale erano seduti tutti i musicisti, usato come percussione, il viaggio continua nelle atmosfere care a Joe Barbieri. Ho apprezzato molto Cosmonauta d’appartamento – brano del compositore napoletano che dà il titolo all’album omonimo del 2015, nel disco suonato con un mito del bandolim, Hamilton de Hollanda – un samba-choro che invitava al ballo…

Un paio d’ore di bella musica come non si ascoltava da tempo. Da vedere assolutamente!

Tra poche ore il Morabeza a Teatro si esibirà a Pavia al Teatro Fraschini, per spostarsi poi a Fasano (BR) il 13, a Bari il 14 e il 15, a Strasburgo il 25, a Sassari il 29 e a Messina il 3 dicembre. Info sul sito internet di Tosca.

“Tango Macondo”, una storia fantastica a suon di folklore

 

Sono stato al Teatro Carcano di Milano a vedere Tango Macondo, favola ricca di fantasia, cuore e musica di Giorgio Gallione, prodotto dal Teatro Stabile di Bolzano, con le musiche (e la presenza sul palco) di Paolo Fresu (flicorno e tromba), Daniele di Bonaventura (bandoneon)  e un incredibile Pierpaolo Vacca (organetto).

Ispirato al libro di Salvatore Niffoi Il Venditore di Metafore (Giunti, 2017), più che una classica piece teatrale è una epica, fantastica, spettacolare narrazione, grazie alle scenografie di Marcello Chiarenza, alla bravura degli interpreti, personaggi che si “rubano” la parola senza interagire tra di loro, diventando narratori di un vorticoso e audace racconto che cattura, stimolando la parte fanciullesca del pubblico. Ugo Dighero, Rosanna Naddeo e Paolo Li Volsi sono i felici interpreti mentre Luca Alberti, Alice Pan, Valentina Squarzoni e Francesca Zaccaria, del DEOS, il Danse Ensemble Opera Studio di Genova, i danzatori.

Tutti sul palco, attori, musicisti, ballerini a ricreare una storia che parte da Mamoiada in Sardegna (il paese del Carnevale e dei Mamutones) e finisce in Argentina in un villaggio che Mataforu, assieme all’amore della sua vita, Anzelina Bisocciu, costruiscono e chiamano Macondo (il riferimento al paese inventato di Gabriel García Márquez in Cent’anni di Solitudine, aumenta nello spettatore i desideri di miti, terre lontane, avventure…). In questo mondo parallelo dove si alternano risate e tragedia, ci sono i tre musicisti, pilastri immobili a costituire un triangolo narrativo ed evocativo. Il flicorno e la tromba di Paolo Fresu fanno da collante all’organetto di Pierpaolo Vacca e al bandoneon di Daniele di Bonaventura.

Ora che vi ho raccontato il mio spettacolo (vivendo un’ora e mezza nel fantasy ogni singolo spettatore ne esce con una sua versione di quanto visto e sentito), faccio un breve approfondimento su una terra a me più familiare, la musica, parlando del disco che è uscito parallelamente alla piece teatrale e che porta lo stesso titolo, Tango Macondo, uscito per la Tŭk Music. L’occasione per i tre musicisti di eseguire i temi dello spettacolo, con ampi spazi per il folklore sardo, e includere anche brani ampiamente codificati del tango argentino. L’intelligenza di Fresu, artefice dell’operazione, è quella di aver inserito tre perle rare in questa collana di note, sia per la loro bellezza sia per le interpreti scelte, tutte italiane.

La prima in ordine di ascolto è Alguien Le Dice Al Tango, brano di Astor Piazzolla su testo di Jorge Luis Borges, interpretata da Malika Ayane; la seconda El Día Que Me Quieras, scritta da Carlos Gardel nel 1934 su un testo del giornalista e drammaturgo Alfredo Le Pera del 1919, cantata da Tosca (a proposito: se siete a Milano l’8 novembre, andate ad ascoltarla al Teatro Parenti, dove porterà in scena il suo ultimo album, Morabeza, con la direzione artistica di Joe Barbieri, uscito nel 2020 e per il quale ha vinto due targhe Tenco,). La terza è una incredibile versione di Volver, brano composto sempre da Gardel e sempre nel 1934 con le parole di Le Pera, eseguita da una cristallina Elisa. Da ascoltare e riascoltare. Buon weekend a tutti…

25 aprile: alla Scala suite di Enrico Gabrielli su “Bella Ciao”

Enrico Gabrielli

Anche quest’anno il 25 aprile si festeggerà senza manifestazioni e incontri. Ritorna in modo virtuale però, con numerose iniziative. Una di queste – ed è il motivo per cui la segnalo su Musicabile – è un concerto in streaming proposto dal Teatro Alla Scala di Milano.

Una suite per orchestra da camera, dieci variazioni sul tema di una canzone simbolo della resistenza e di quell’anelito di libertà che ha contraddistinto la nostra storia repubblicana, Bella Ciao, opera di Enrico Gabrielli. E qui apro una parentesi: Gabrielli è uno di quei musicisti di grande talento che il nostro Paese può vantare nel mondo. Ha suonato con gli Afterhours, i Calibro 35, i The Winstons, gruppo prog di bravura eccelsa (ve ne avevo parlato giusto un mese fa), si occupa di un progetto molto interessante 19’40”, una collana discografica su abbonamento, idea nata da Gabrielli, Sebastiano De Gennaro, Francesco Fusaro, in collaborazione con Tina Lamorgese.

Ok, torniamo a Bella Ciao. Senza andare a ritroso sull’origine del brano, sicuramente popolare e poi riadattato oltre settant’anni fa nel testo, Bella Ciao è una canzone famosa tanto quanto Nel Blu dipinto di Blu di Domenico Modugno. In questi anni l’hanno suonata e rielaborata un po’ tutti. Penso a Manu Chao, la grande Mercedes Soza, i Modena City Ramblers (una delle più belle e famose), Goran Bregović e la sua Wedding and Funeral Band, il dj Steve Aoki con i Marnik, Manu Pilas (la colonna sonora de La casa de Papel, fortunata serie spagnola), Mike Singer, Tosca, Yves Montand, tanto per citarne alcuni.

Alla Scala, sotto la direzione del maestro Francesco Muraca, potremo, dunque, ascoltare una formazione composta da componenti dell’Orchestra del Teatro, affiancati da giovani dell’Accademia, che suonano la suite in dieci variazioni scritta da Gabrielli.

La storia della composizione la racconta a Musicabile lo stesso artista: «Tutto è partito l’anno scorso. Dovevo scrivere una sigla per una trasmissione di Gad Lerner. La linea guida doveva essere un tema riconoscibile, che contenesse gli argomenti del format, partigiani ultra novantenni, momenti di commozione, la guerra e la fiducia. Il Covid ha fatto saltare tutto. Quindi sono stato ricontattato per ampliare quella versione e ho dovuto cambiare approccio, optando per quello sinfonico. Dentro ci sono le mie esperienze e passioni per i sinfonisti russi ed Ennio Morricone».

Alla domanda su come si svolge il tema musicale, Enrico risponde: «Comincia in maniera nascosta, un po’ segreta e, mano a mano, si svolge chiaramente. Sono dieci variazioni eseguite senza soluzione di continuità». Quanto alle ispirazioni: «Se devo trovare relazioni c’è la mia parte “arrangiativa” che si rifà a quegli arrangiamenti nobili degli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, alla Jaques Brel (e lui su questo era un maestro!)».

«La ritengo un’iniziativa importante», mi spiega Roberto Cenati, Presidente ANPI Provinciale di Milano che interverrà all’evento streaming. «La sezione Scala dell’Anpi, nata nel 2015, è un piccolo, prezioso gioiello», mi dice orgoglioso. Quanto a Bella Ciao, sempre Cenati racconta: «È una canzone che racchiude quel concetto di libertà che viene da lontano, dalla Resistenza, che appartiene a tutti. L’essenza di libertà non ha limiti politici né confini, viene piuttosto da un alto concetto politico legato a un bene comune, insieme alla solidarietà, parole che, proprio in questo periodo acquistano un forte significato e che si oppongono ai sovranismi». Con lui c’è anche lo storico Ivano Granata che tiene una lezione sulla Liberazione e sul periodo storico che ha portato alla nascita della nostra repubblica.

Appuntamento dunque alle 18, domenica, collegandosi sul sito del Teatro Alla Scala o sui canali social del teatro.

La musica che mi fa sentire bene

È da un po’ che volevo condividere con voi una mia riflessione. Sarà l’età, sarà la tanta musica che ho ascoltato e continuo ad ascoltare, ma mi sono reso conto di essere diventato sempre più selettivo nelle mie preferenze.

Continuo, certo, a mettere in cuffia tutti i generi, soprattutto quelli che non sono nelle mie corde, per comprendere nuove forme d’espressione e trarne spunti, spesso in una banalità imperante e dai facili consumi.

Quando la melodia è ripetitiva e scontata mi sento dire: «Ma devi ascoltare i testi, sono quelli che contano». Grazie, ma preferisco leggere quei versi senza il contorno di elaborazioni digitali fatte in catena di montaggio, tutte uguali, tutte senz’anima. Alcuni testi sono davvero interessanti, e mi riferisco soprattutto all’Urban. Il mainstream non è affatto garanzia di qualità.

Guardo all’Italia: apparentemente c’è solo una cultura dominante, quella del rap-trap, diventato il nuovo Pop, una contraddizione in termini se si pensa alla matrice culturale dell’hip-hop e alla controcultura in cui si è formato. Il genere è mercificato, buono per le case discografiche e per i trapper e rapper che hanno a disposizione il loro quarto d’ora di celebrità. Non parliamo poi dei prestampati sanremesi. Le eccezioni sono rare…

Ascoltare musica che dica qualche cosa (incluso l’Urban) risulta molto difficile, bisogna andarsela a cercare. In Italia, comunque, abbiamo fior di musicisti raffinati, preparati, virtuosi, polistrumentisti, affamati di contaminazioni, senza preclusioni. Jazz, latin jazz, rock, bossa nova, classica, hip-hop, funk, pop, linguaggi spesso distanti tra loro, diventano magicamente compatibili, un melting pot riuscito.

L’antropologo brasiliano Darcy Ribeiro in un suo libro dirimente, O Povo Brasileiro (impiegò 30 anni a scriverlo), annotava come la miscigenação, la combinazione di tre popoli, il portoghese, l’africano e l’indigeno, avesse portato a quello che è diventato un solo popolo brasiliano oggi. Non solo razza, ma anche cultura e, quindi, musica. Musica del mondo, dunque, influenze che trovano in artisti come Joe Barbieri, Stefano Bollani, Paolo Fresu, Daniele di Bonaventura (ascoltate l’ultimo suo lavoro uscito il giorno di Pasqua, Canzoni da Casa, o lo splendido Reminescenze con il pianista Giovanni Guidiqui uno dei concerti dei due artistiTosca, Gegè Telesforo (che ho intervistato lo scorso anno), Luca Aquino, Gabriele Mirabassi, Mauro Ottolini, di cui vi parlerò tra alcuni giorni, esempi significativi e importanti.

Mentre scrivo mi sto ascoltando Bollani e il suo Carioca, album uscito nel 2008. Ma anche il live uscito a marzo di quest’anno, in versione classica/world music, El Chakracanta (Live in Buenos Aires) con l’Orquesta Sin Fin diretta da Exequiel Mantega. Il disco è composto da due tanghi, Don Agustín Bardi di Horacio Salgán e Libertango di Ástor Piazzolla (l’11 marzo s’è celebrato il centenario della nascita) e da due composizioni per orchestra di Bollani, il Concerto Azzurro e il Concerto Verde, registrati, sempre nella capitale argentina, in tempi diversi.

Ieri sera, invece, l’ho dedicata a Barbieri, riandando ad ascoltare quel bellissimo disco del 2015, Cosmonauta da appartamento, qui L’Arte di Meravigliarmi con il prezioso intervento crossover della spagnola La Shica (a proposito di rap…) e Tu sai Io So con la voce inconfondibile di Peppe Servillo. Rimane un capolavoro per me Maison Maravilha, album del 2009 dove c’è Malégria cantata con Omara Portuondo, la grande artista cubana del Buena Vista Social Club.

Paolo Fresu (del suo ultimo disco, P60LO FR3SU ho parlato qualche giorno fa) da anni porta in musica quella miscigenação descritta da Ribeiro. Un esempio, per nulla banale, ma che solo un vero musicista può concepire, lo ha regalato il venerdì di Pasqua, suonando dalla sua casa il Miserere insieme al Cuncordu ‘e Su Rosariu di Santulussurgiu.

Il 30 marzo è uscito l’ultimo lavoro di Gabriele Mirabassi, Tabacco e Caffè, di nuovo assieme dopo quasi cinque anni da Amori Sospesi, al bassista Pierluigi Balducci e al chitarrista Nando di Modugno. Ascoltate Party in Olinda, il brano che apre il disco, del compositore e chitarrista brasiliano Toninho Horta. Il disco è un viaggio nella musica tradizionale brasiliana e quello che ha rappresentato negli anni per molti artisti, soprattutto jazzisti. E mentre il clarinetto di Mirabassi ti proietta in mondi rassicuranti e sognanti, Luca Aquino fa suonare la sua tromba in rivisitazioni della musica che ha più amato attraverso quella grande casa che è il jazz. Mi diverte ascoltare le elaborazioni di Rock 4.0 brani rock, dai Radiohead, a Neil Young a Bob Dylan (album del 2014) o overDOORS (del 2015), un omaggio alla mitica band di Jim Morrison, ma anche quel giusto riconoscimento a certa musica italiana d’autore in Italian Songbook del 2019 (con l’orchestra sinfonica di Benevento e la partecipazione del pianista Danilo Rea): molto intensa la sua versione di Almeno tu nell’Universo.

Potrei andare avanti ancora e ancora. La musica ha un grande potere terapeutico, e questi artisti per me sono passione, lavoro, fantasia, sogno, emozione. Questa è la musica che mi incuriosisce, che mi manca – nel senso della saudade brasileira (ne avevo parlato sul blog giusto un anno fa) che ho bisogno di ascoltare per essere in pace con me stesso e il mondo. Contaminazione, fantasia, un esperanto in note che acquista sempre più senso in questo assurdo momento storico.

Venti dischi (più uno) per raccontare un anno particolare/1

 

Frame da “Il Mondo In Testa” di Gegè Telesforo, opera dell’artista newyorkese Dominique Bloink

Il 2020 ha imboccato il suo declino. È passato in un lampo quest’anno, dove nulla o poco sarà come prima, atroce per molti versi, pensieroso per altri, comunque vacillante. Non credo di scrivere cose nuove, ma mi sono sentito come una barca in balia delle onde. Adoro il mare ma lo soffro, e tanto.

Il coronavirus mi ha attaccato. Ne sono uscito bene, ma con una fatica immensa. In mezzo alla malattia, alla paura che mi è rimasta a distanza di mesi, oltre alla perdita del gusto e dell’olfatto (cosa che per un veneto, amante del buon vino, considero un inconveniente davvero disastroso!), al lavoro sempre più precario che richiede doti impensabili di equilibrismo, una delle poche cose che mi ha aiutato a trovare delle ragioni di piacere è stata la musica.

In quest’anno ho intervistato artisti incredibili, ho cercato di tenermi lontano dal mainstream perché lì fuori c’è un mondo di note eleganti, creative, sincere, ho parlato con professionisti e docenti che mi hanno spiegato il valore di quest’arte antica quanto l’uomo, ma soprattutto ho ascoltato, ascoltato e ascoltato.

Tra le centinaia di album che sono passati in cuffia ne ho scelti venti (più uno – poi vi spiegherò il perché). Li dividerò in quattro post, cinque per ognuno. E per ciascun album vi racconterò perché quelle canzoni/brani hanno catturato la mia attenzione, quali sensazioni mi hanno dato. Noterete che in questi dischi c’è un inconsapevole filo comune, il viaggio inteso come integrazione, conoscenza, scoperta, intreccio.

C’è di tutto, rock, pop, soul, jazz, blues, indie, world, americana, classica contemporanea. Brani e canzoni che mi hanno accompagnato nel corso di questo 2020 con dolcezza, rabbia, amore, pace, euforia, voglia di viaggiare e ansia di conoscere.

Ultima annotazione: li presento in rigorosa sequenza di uscita.

1Caetano VelosoCaetano Veloso & Ivan Sacerdote (uscito il 16 gennaio)
Caetano, dall’alto dei suoi 78 anni portati con l’allegra saggezza di un artista completo, si diverte, come in una serata tra amici musicisti, a suonare alcune delle sue canzoni più belle e interessanti affidandosi all’improvvisazione di Ivan Sacerdote, un clarinettista poco più che trentenne, carioca di nascita ma cresciuto a Salvador da Bahia, terra di Veloso. C’è jazz, choro, paz e alegria nei suoi interventi, mai prevaricanti ma sempre necessari. Si dice che Caetano sia rimasto colpito del suo talento. E noi con lui. Da Peter Gast a Onde o Rio é mais Baiano, da Trilhos Urbanos a Desde que o Samba é Samba è un percorso carico di ricordi, un altro cameo della MPB (la Música Popular Brasileira). Per me, mezzo brasileiro acqusito, ogni ascolto equivale a obbligarmi a scavare nei ricordi, un modo sincero e aperto di fare i conti con gli anni che passano…

 

2MorabezaTosca (uscito il 14 febbraio)
Se c’è un’artista italiana che stimo incondizionatamente è proprio lei, Tosca, al secolo Tiziana Donati, romana, 53 anni. Oltre ad avere la fortuna di avere una voce semplicemente bellissima, si sente – e qui sta il valore di un vero artista – il lungo e faticoso studio per perfezionare un talento naturale. Una formazione continua, si potrebbe dire, che l’ha portata a curiosare nella musica del mondo. Incontro fortunato con Joe Barbieri, musicista e produttore saggio, che ha saputo far emergere le doti di Tosca. Non manca il Brasile con Lenine, La Bocca sul Cuore, Mio Canarino, canzone tradotta dal portoghese in italiano di Marisa Monte o Naturalmente, brano di Barbieri in duetto con un altro geniaccio della musica colta brasiliana, Ivan Lins. C’è anche un brano in francese Sérénade de Paradis, tradotto da una canzone in romanesco da Enrico Greppi della Bandabardò e uno cantato in arabo tunisino, Ahwak, con Lofti Bouchnak, e una splendida Giuramento, con un grande Gabriele Mirabassi al clarinetto. Non manca un duetto con Arnaldo Antunes, un tempo nei Titãs, band rock di São Paulo, e poi nel progetto Tribalistas con Marisa Monte e Carlinhos Brown (João). Ascoltarlo mi ha fatto viaggiare proprio quando il primo lockdown ci ha chiuso a doppia mandata. Grazie!

3 – ForeignerJordan MacKampa (uscito il 13 marzo)
È stato una bella scoperta questo ragazzo di 25 anni, nato in Congo e trasferito con la famiglia da piccolo a Coventry, Inghilterra. Due EP all’attivo, più qualche singolo, ha pubblicato finalmente il suo primo vero lavoro. Ed è un piacevole percorso di 42 minuti per undici brani dove senti tutta l’energia che si è impegnato a trasmettere. Parte forte con Magic, come lui stesso lo definisce, un brano di bossa nova, infuso di samba, una di quelle canzoni che non ti escono più dalla testa. A MacKampa piace contaminare, le radici ritmiche d’origine ci sono tutte, come la leggerezza di un mix di generi che costruiscono un genere tutto suo. La voce aiuta certo, e si capisce che tra i suoi punti di riferimento c’è quel gran istrione di Michael Kiwanuca, oserei definirlo uno dei suoi padri putativi. Me lo sono goduto questo disco, più e più volte, coinciso nel mio “periodo Covid”. Se dovessi etichettarlo, direi, un album pieno di speranza…

4 – Il Mondo in TestaGegè Telesforo (uscito il 27 marzo)
Che dire di Gegè, una delle voci jazz (trasversali) più belle che possiamo vantare in Italia, oltre che polistrumentista. 
Conosciuto molto più all’estero che in Patria, ma questo è un canone rispettato… Gegè ha la musica nel cuore, insegna a viaggiare tra le note del mondo dal suo programma radiofonico Sound Check, e questo disco ne è la prova più evidente. Un po’ la “summa” di quello che significa essere un artista come lui. Ha anche un particolare fiuto nella ricerca di giovani talenti, che coopta nei suoi lavori per far emergere quel sound inconfondibile che gli permette di usare la voce nelle sue improvvisazioni virtuose (scat). Se volete rileggervi l’intervista che ho fatto a Gegè, qui il link. Se Jordan MacKampa rappresentava la speranza, Gegè Telesforo è stato per me l’allegria, la bellezza delle contaminazioni, di un mondo a disposizione incredibilmente aperto e ricettivo, nonostante ne potessi guardare solo un piccolo quadrato dal mio terrazzo (qui Il Mondo in Testa).

5 – INFERNVUMClaver Gold & Murubutu (uscito il 31 marzo)
L’Inferno di Dante Alighieri trasposto in rap. Niente di più azzeccato per il momento che il mondo stava (e sta ancora) vivendo. I due musicisti romani, novelli Dante e Virgilio, hanno messo in rap con grande bravura e un’attenta ricerca dei testi, una trasposizione della prima delle tre cantiche del divino poeta. Ascoltatevi Caronte.

Ed eravamo nudi come appena nati

Soli dove il mondo ci ha dimenticati

Sporchi, raffreddati, tesi e spaventati

Nell’attesa d’esser traghettati, presi e giudicati

Conati, bile, sangue e lacrime si fan vapore

La dura voga del traghettatore peccatore

Un’eco d’onda sopra l’Acheronte fa rumore

Ora è il momento di pregare forte il tuo Signore

Stringevo forte due monete per pagare il pegno

Per pagare il legno, soprattutto per sentirmi degno

Di traversare il fiume nero e poi scordare l’eros

Sono solo un passeggero in fuga verso il nuovo regno

Ed ora vieni, occhi di fuoco, vieni al tuo lavoro

Vieni ancora per fermare il gioco, poi torna per loro

Torna per l’oro sopra gli occhi con i remi rotti

Torna per chi in certe notti si è sentito sempre solo

Un gran bel lavoro, non facile. Soprattutto nel mondo del rap italico. Di grande sensibilità, giusta rabbia, destini inevitabili. La colonna sonora perfetta di questi mesi. Tutto, dalla superbia all’avarizia, dalla lussuria all’invidia, dalla gola all’ira, all’accidia viene cantato e riportato con cristallina lucidità a oggi, un’attualità sconcertante. Per me il più bel lavoro hip-hop (italiano) dell’anno.

Gegè Telesforo: la musica in testa e l’arte nel cuore

Gegè Telesforo, classe 1961, foggiano. Musicista, polistrumentista, ma anche conduttore, ricercatore affamato di nuovi talenti, professore, cantante, jazzista con il funk nel cuore, onnivoro ascoltatore di note dal mondo… Inquadrarlo non è facile. Si è esibito e ha collaborato con i grandi nomi del jazz internazionale e non solo. Comunque la giri, lui è un esperto. Sarà il carattere, una naturale predisposizione al pentagramma, un genio eternamente curioso e vorace, sta di fatto che Gegè sta alla musica come la batteria al ritmo, l’improvvisazione al jazz… Insomma, due atomi inscindibili. Con lui, che del suo divertimento ne ha fatto una professione ad altissimi livelli, ho voluto scambiare quattro chiacchiere (forse qualcuna in più, concedetemela!), sul suo nuovo lavoro uscito in pieno lockdown, Il Mondo in Testa, su cosa significhi musica di qualità oggi e sugli artisti che preferisce.  Importante: il prossimo 29 ottobre, in occasione del JazzMi, sarà al Blue Note di Milano, con un quintetto fantastico: oltre a lui, Domenico Sanna al pianoforte, Ameen Saleem al contrabbasso, Michele Santoleri alla batteria e Alfonso Deidda al sassofono, voce e tastiere. Torniamo all’intervista e mettetevi comodi…

Gegè, iniziamo con Il Mondo in Testa, il tuo lavoro uscito il 27 marzo scorso…
«Ho deciso di esprimere in un nuovo album tutto quello che ho imparato e assimilato negli anni, libero di fondere vari linguaggi e basi ritmiche che ho adattato alle mie composizioni. Un impegno notevole, abbiamo impiegato un anno e mezzo per confezionarlo. È stata una produzione vera e propria che mi ha occupato tantissimo. I tempi di realizzazione si sono dilatati perché ho voluto che suonassero con me musicisti che conosco e apprezzo, sia affermati sia emergenti, rispettando i loro impegni di lavoro. Inevitabilmente i tempi si sono allungati… È una produzione indipendente, artigianale, che ha richiesto una cura notevole».

A sei mesi dall’uscita com’è stato accolto il disco?
«Mi sta dando molte soddisfazioni. Ho deciso, vista la situazione, di presentare dal vivo i brani del disco il prossimo anno. È un lavoro che richiede la presenza di più musicisti sul palco. Quest’anno ho deciso di proporre solo alcuni brani del disco dal vivo e portare un repertorio adatto al mio quintetto…».

Perché questo titolo?
«Il Mondo in Testa si presta a una doppia lettura. Perché ho viaggiato tanto, e in tutti questi miei viaggi ho scoperto e imparato a usare le tante spezie che esaltano il sapore della musica. E poi perché il mondo in questo momento è una priorità, visto tutto quello che sta succedendo. Questo mio lavoro vuole essere una riflessione sulla vita, sulla natura».

Gegè Telesforo a Rovigo il 20 settembre scorso nel suo primo concerto dopo il lockdown – Foto Claudio Cecchetti

Hai deciso di cantare in Italiano…
«Sì, ci sono tre brani cantati (Il Mondo in Testa, Genetica dell’Amore e Mille Petali, n.d.r.), nei restanti uso la vocalità. Non sono un cantautore che parte dalle parole e le mette poi in musica. Faccio il processo inverso: scrivo la melodia e poi cerco di dare un senso letterario al brano. Ho utilizzato l’italiano come si fa con l’inglese, assegnando a ogni nota una sillaba. La scelta delle parole è stata un lavoro molto complicato, per agevolare il canto di chi ha collaborato al disco».

Sei famoso per usare la vocalità nella tua musica. Insomma, sei il re dello scat!
«Servirsi della vocalità è come suonare uno strumento, bisogna allenarsi tanto, impararla. Nei conservatori che hanno aperto al jazz si studia la voce e lo scat. In sostanza, si creano frasi musicali sillabando parole senza senso. Non sono il solo in Italia a praticare questa disciplina. Ti cito, ad esempio, Maria Pia De Vito, Roberta Gambarini, Walter Ricci. E poi c’è una siciliana, una musicista completa, Daniela Spalletta, che ha cantato nel mio disco, un’artista devota allo studio, completa, canta lirica e jazz contemporaneo. È bravissima. Questi sono i musicisti che mi piacciono, onnivori, versatili».

Tu come hai scoperto lo scat?
«Una mania che avevo da bambino, senza ovviamente sapere cosa fosse. Papà, che di professione è architetto, ama il jazz, in particolare quello del periodo bebop. E io da piccolo ascoltavo quei dischi, memorizzavo tutto e li “suonavo” con la voce. Era una vera fissazione, passavo le ore, tanto che i miei a un certo punto si erano anche preoccupati. Per me era soltanto il mio gioco preferito e su questo gioco ho costruito una carriera».

Gegè Telesforo a Rovigo il 20 settembre scorso nel suo primo concerto dopo il lockdown – Foto Claudio Cecchetti

Passiamo alle mille altre cose che fai. Uno degli appuntamenti fissi (che io ascolto con interesse perché non finisco mai di imparare) è SoundCheck il programma che da anni tieni su Radio24…
«La radio di Confindustria mi dà la possibilità di lavorare in assoluta libertà e trattare, dunque, la musica in maniera assolutamente naturale per me. Vedi (sorride, n.d.r.), tu e io, coetanei, siamo arrivati a un’età che ci permette di dire quello che pensiamo. E questa libertà me la prendo anche nel presentare la musica che mi piace. Faccio un programma da musicista e racconto di musica. Quando presento gli artisti mi informo, voglio sapere tutto, il loro background, da dove arrivano, come si sono formati. Non ho nessuna casa discografica che mi impone questo o quell’altro».

SoundCheck va alla grande…
«Sì, sono contento. Sebastiano Barisoni, il vicedirettore di Radio24, ogni volta mi dice che supero me stesso. Il programma va bene, ci sono ascoltatori, c’è pubblicità, c’è interesse per una musica diversa dal mainstream. SoundCheck lo posso fare perché viviamo nell’era digitale. Ai tempi in cui ho iniziato avevamo contatti diretti con le case discografiche. Era la musica che ci raggiungeva e si parlava di quegli artisti che le case discografiche volevano spingere. Oggi questo non succede più. Per fortuna possiamo bypassare le discografie ufficiali e cercare su siti che propongono artisti straordinari, molto interessanti, come SoundCloud o Bandcamp. Basta saper cercare».

Ti impegna molto?
«Dedico due giorni alla settimana alla ricerca, all’acquisto, all’ascolto. Poi catalogo e quindi inizio a formare i vari airplay…».

Gegè Telesforo a Rovigo il 20 settembre scorso nel suo primo concerto dopo il lockdown – Foto Claudio Cecchetti

Ultimamente mi sono appassionato al trombettista Christian Scott aTunde Adjuah. Non smetto di ascoltarlo… ha una sezione ritmica incredibile…
«L’ho conosciuto e intervistato. È un ragazzone atletico, simpatico e aperto, non si droga né beve, il classico bravo ragazzo. Vive per la musica, fa tutto in funzione della musica. È questa dedizione, come ti dicevo prima, che mi fa apprezzare il lavoro di artisti come lui. Hai notato, parte con una tromba dal sapore messicano per buttarsi poi in altri territori d’improvvisazione…».

Tu hai un mentore e amico, il mitico Renzo Arbore. Possiamo definirlo musicista o è riduttivo?
«Lo conosco da quando ero piccolo, è amico di papà da sempre. Renzo secondo me è l’Artista, nel vero senso della parola. Una persona squisita, di grande cultura, un grande appassionato di jazz, un grande conoscitore della musica napoletana, uno che ha rivoluzionato la televisione. E poi conosce repertori messicani, portoghesi, spagnoli, segue concerti di jazz contemporaneo. Ha una memoria incredibile, ricorda nomi di musicisti, dischi, tutto! Penso che molti degli artisti di oggi debbano qualcosa a lui e a Gianni Boncompagni. Sì, poi Renzo è anche un musicista, uno che ha calcato palcoscenici importanti in tutto il mondo».

Hai lavorato molto con lui…
«Stavo negli Stati Uniti e collaboravo con Ben Sidran, il mitico Ben Sidran. Si era creato un’etichetta musicale sua, la Go Jazz e, oltre a pubblicare se stesso, cercava e spingeva giovani talenti. Ho inciso per la sua etichetta. Nel 1998 Renzo mi chiese di partecipare alla sua tournée sudamericana. Così sono rientrato in Italia per seguirlo. A fine tour, il suo manager, Adriano Aragozzini, mi fece la proposta di restare per 70 date. È finita che sono rimasto con Renzo per vent’anni, sempre in tour. Finché il tam tam primordiale, la mia passione, complice un esaurimento nervoso (stavamo fuori casa per 250 giorni all’anno), mi ha fatto dire basta e sono ritornato all’attività da solista, fondando una mia etichetta, la Groove Master Edition, assieme a Roberto Lamberti, che è anche il mio manager».

Gegè Telesforo a Rovigo il 20 settembre scorso nel suo primo concerto dopo il lockdown – Foto Claudio Cecchetti

Da Arbore hai imparato tanto?
«Nella musica c’è sempre da imparare. Il problema è fermarsi. Si apprende dai grandi maestri ma anche dai giovani talenti. Quelli nei quali ho visto e vedo una luce, come Stefano Di Basttista, Tosca, Giorgia, il pianista Domenico Sanna, i batteristi Michele Santoleri (che con Sanna suona nel mio quintetto) e Dario Panza.

Tosca, la adoro! La sua versione di Piazza Grande di Lucio Dalla a Sanremo con Silvia Pérez Cruz, per me, è stata l’unica nota di vera musica del festival…
«Tosca è la mia cantante preferita in Italia. Quando inizia a cantare senti il grande studio che c’è dietro, è un’artista che sa stare sul palco, lo avverti il fuoco della musica».

La musica mainstream è piuttosto piatta, non trovi?
«Perché mercato e comunicazione dettano legge. In televisione anni fa c’erano programmi che cercavano di raccontare storie, indagavano, informavano. Oggi si cercano popstar che possono durare solo una stagione… Quando appare il grande talento, questo è preso dalla casa discografica e spremuto perché c’è necessità di fare numeri. I ragazzi da parte loro hanno un unico obiettivo, quello di raggiungere il successo immediatamente. Il risultato è che quest’ultimo arriva su pattern noiosi. Hai notato che il nostro Paese d’estate diventa tropicale? Ascolti solo basi Reggaeton, si cerca di semplificare al massimo, tutto deve essere ridotto a prodotto facile, che non impegna, da consumare subito».

Una specie di fast food della musica. Ma per fortuna non è tutto così…
«Esistono i musicisti, cioè quelli che, usciti dal conservatorio, non si vedono destinati all’insegnamento, ma vogliono imparare l’arte del vivere di musica. Un’arte che si apprende scoprendola sulla propria pelle. Ci sono ragazzi che scrivono con una certa complessità, che non passano in radio perché il pop deve fare visualizzazioni, streaming, download. Nessuno li conosce. Io sì, li cerco e spesso incidono con la mia etichetta indipendente».

Secondo te questo decadente appiattimento culturale è una fase di passaggio?
«Ora è tutto indie-trap-hip hop, un miscuglio di vari stilemi. Ma chi è appassionato di musica va a cercare altro. C’è tanta musica di qualità, credimi! Perciò, no, non penso che stiamo vivendo un periodo decadente».