Dieci dischi degni di nota del 2021 – Prima parte

Il 2021 s’è chiuso da pochi giorni. Un anno in musica che, dal mio piccolo osservatorio, ha rivelato molti lavori di buona qualità. In tutti i generi, dal rock al jazz all’alternativa, classificazione usata per dire tutto e niente. Mi sono esercitato in una mia personale classifica dei dieci album che che mi sono piaciuti di più. L’ho stilata in base ai miei gusti, alle mie aspettative, alle mie sensazioni ed emozioni. Di dischi ne ho ascoltati centinaia, molti mi hanno annoiato a morte ma altri mi hanno catturato. Questi dieci sono quelli che ascolto con rinnovato piacere quando lavoro, leggo, mi rilasso. Praticamente tutti li ho già pubblicati nel corso dell’anno, con un paio di artisti ho chiacchierato anche a lungo… Ve li propongo tutti e dieci in rigoroso ordine di pubblicazione, divisi in due post…Qui i primi cinque.

Per Aspera Ad Astra – Daniela Spalletta – 5 febbraio 2021

Daniela Spalletta, siciliana, 39 anni, è una delle voci più interessanti e complete del panorama jazzistico italiano e internazionale. Ha all’attivo tre album solisti D Birth (2015 – Alfa Music), Sikania (2017 – Jazzy Records) e Per Aspera Ad Astra (TRP Music) uscito a febbraio. Troppo poco conosciuta dal grande pubblico, e questo è una grande sfortuna per chi non l’ha mai ascoltata, visto che, con la voce che si ritrova, la Spalletta potrebbe cantare di tutto. Usa la voce come strumento, ma è una musicista che compone e arrangia e la riprova è proprio quest’ultimo lavoro, frutto della sua creatività e studio. C’è jazz, certo!, ma c’è anche world music, c’è classica e un brano che mi ha stregato, un ricordo di musica barocca rivisitata in Rosa, dove tecnica e passione si fondono “angelicamente”. Un lavoro dalla costruzione complessa, grazie anche ai musicisti che la accompagnano, persone che si conoscono da anni e che da anni suonano insieme. Dagli Urban Fabula (Seby Burgio al pianoforte, Alberto Fidone – che ha suonato nell’album ma ha anche curato la direzione della TRP Studio Orchestra, l’orchestra d’archi, e ha prodotto il progetto con la Spalletta – al contrabbasso e Peppe Tringali alla batteria) al chitarrista sloveno Jani Moder, formatosi in quella straordinaria fucina che è il Berklee College of Music di Boston, a Riccardo Samperi, ingegnere del suono, che Daniela ha definito «il quinto uomo del quartetto». Approvato a pieni voti!

Carnage – Nick Cave & Warren Ellis – 25 febbraio 2021

Nick Cave & Warren Ellis. Con questi due artisti non poteva che uscire un lavoro di altissimo livello. Carnage, carneficina, è un disco che impatta, fa male, ti rigira senza troppa gentilezza. Scritto durante il lockdown, è un lavoro di pesante riflessione sulla solitudine arrivata con la pandemia, sul credere in qualcuno o qualcosa, su quello che siamo oggi, con l’inconfondibile voce baritonale di Nick e praterie di sintetizzatori made in Warren, piccoli interventi di chitarre elettriche secche come la solitudine, il pianoforte suonato da Nick che tesse melodie, in realtà, note di speranza. In Balcony Man, ultimo degli otto brani che compongono questo mosaico baritonale, profondo, essenziale, Nick canta: This morning is amazing and so are you/This morning is amazing and so are you/ This morning is amazing and so are you/ You are languid and lovely and lazy/ And what doesn’t kill you just makes you crazier. Quest’ultima frase è epica: «Ciò che non ti uccide ti rende solo più pazzo», una sintesi perfetta per due anni di pandemia. In Hand of God, «Hand of God /Coming from the Sky», primo brano, dopo un inizio “classico”, scarica sull’ascoltatore un ritmo ossessivo, profondo. Nella splendida Old Time, dove, per inciso, alla batteria c’è un altro storico “Bad Seeds”, Thomas Wydler, Nick canta: «I sogni di tutti sono morti, ovunque tu sia andata, tesoro, non sono così indietro». Tasselli che raccontano la solitudine ma anche la speranza di ritornare un giorno a una normalità. Pregno ed epico White Elephant, un chiaro riferimento all’estrema destra americana. Parte con un’elettronica alla Peter Gabriel anni Ottanta per finire in una sorta di gospel. Qui è il primatista bianco che minaccia di uccidere tutti, si sente dio, «Una Venere di Botticelli con il pene», ma anche «Una scultura di ghiaccio che si scioglie con il sole»…

Smiling With No Teeth – Genesis Owusu – 5 marzo 2021

Smiling With No Teeth è il primo album di questo ventitreenne nato in Ghana e cresciuto a Canberra (Australia), dove i suoi genitori lo portarono all’età di due anni. La famiglia è ritornata in Ghana, lui divide la sua vita tra i due Paesi. Il fratello maggiore è un rapper noto in Australia, Citizen Kay. Premessa necessaria: Genesis adora i manga giapponesi, i videogiochi e in genere le arti visive. E ancor di più ama alla follia le musiche dei videogiochi, oltre al funk, al punk, al rap e al pop. Queste sue passioni si riversano tutte nel disco che riassume un caos di generi dove Owusu si muove a suo agio, alimentandolo a dovere. Si sente la stessa fluidità di Prince nel fare musica… A partire dal primo brano, On The Move che introduce The Other Black Dog, è un crescendo di melodie e generi che stimolano e incuriosiscono. Ti invogliano ad andare avanti per questa strada apparentemente sconnessa – vedi Waitin’ on Ya – e divorare il disco fino all’ultimo brano, By By.

We Are – Jon Batiste – 19 marzo 2021

Jon Batiste, è un artista di New Orleans, famoso negli States per essere il direttore musicale del The Late Show condotto da Stephen Colbert. Il suo lavoro, We Are, è un album che trasmette energia allo stato puro, emozione, disperazione, commozione, pur conservando un grande rigore musicale nel mix stilistico. Un album “impegnato”, sull’onda del Black Lives Matter. C’è soul, pop, hip-hop, rap, R&B, con un pizzico di maestria jazz, ingredienti di un’insalata condita alla perfezione. Ascoltate We Are, il brano che apre il disco, cantata assieme alla St. Augustine High School Marching 100 e il Gospel Soul Children’s Choir di New Orleans, dove la parola “freedom” è una costante. Freedom è anche il titolo di un altro brano… In un crescendo la creativa sequenza di Batiste si sussegue a ritmo serrato, passando per Tell The Truth, un’intemerata alla Otis Redding e agli anni Sessanta, all’incontenibile I Need You, e così per tutti e 13 i brani, belli spessi.

Vulture Prince – Arroj Aftab – 23 aprile 2021

La voce di Arroj Aftab ti inchioda, la sua musica, contaminata da jazz, ritmi afrocubani, dal samba e, ovviamente dalle melodie tradizionali del suo Paese d’origine, il Pakistan, è la dimostrazione di come le culture si possano fondere armoniosamente e far nascere qualcosa di nuovo e importante. Dopo Bird Under Water, primo disco uscito nel 2014 – ascoltate la ninnananna Lullaby – Sirene Islands, del 2018, quattro brani per 48 minuti e 15 secondi di ascolto, pura elettronica, musica meditativa – qui Ovid’s Metamorphoses – ecco Vulture Prince, un disco che doveva essere la naturale continuazione del precedente Sirene Islands, con un ritorno, però, all’uso di strumenti quali la chitarra, l’arpa, i violini, nella quasi totale assenza di percussioni, un forte richiamo alla musica urdu, un neo-sufi con influenze jazz, folk, persino reggae. Il tutto suona non come una semplice contaminazione di generi, ma con uno studio attento e rispettoso della musica da cui Arooj ha attinto. Doveva essere anche un disco più “sostenuto”, come lei stessa ha avuto modo di spiegare in un’intervista a NPR, emittente radiofonica americana, con iniezioni di Afrobeat, poi, una tragedia familiare, la morte di Maher, il fratello più giovane a cui era molto unita, l’ha portata a fare scelte più rispettose del lutto che si era imposta. Ne è nato un lavoro di grandi emozioni. Da Diya Hay, brano per lei significativo, perché è l’ultima canzone che ha cantato al fratello, registrato con la brasiliana Badi Assan, alla sua personale versione del Mohabbat, un ghazal, poema tradizionale (famosissimo), che parla d’amore, ma anche di dolore per la perdita della persona amata, fino a Last Night, il testo è un poema di Rumi, il grande poeta persiano vissuto nel Duecento, che lei ha messo in musica (reggae) nel 2010 e che ha deciso di incidere in questo disco.

Un disco per il weekend: Daniela Spalletta e il suo “Per Aspera Ad Astra”

Daniela Spalletta – Le foto del post sono di Paolo Galletta

Per questo fine settimana vi invito ad ascoltare un disco meditativo, originale, che non dà il minimo spazio alle banalità, anche se certi fraseggi possono suonare rassicuranti. Un lavoro che mi ha catturato al primo ascolto e che ora, sento la necessità, sì proprio così – e non mi capita spesso, e ringrazio chi me l’ha segnalato – di ascoltarlo in loop. No, tranquilli! Non ho usato alcuna sostanza psicotropa, ma sono stato drogato da una voce incredibile, bella, cristallina, angelica, versatile. E me ne sono innamorato.

Il disco in questione è Per Aspera Ad Astra (TRP Music), uscito a febbraio e, faccio mea culpa, l’ho scoperto solo ora. L’artista si chiama Daniela Spalletta, 39 anni, siciliana. Di lei Gegè Telesforo, alla domanda sull’uso dello scat, di cui è uno dei re indiscussi, lo scorso anno mi raccontava: «…E poi c’è una siciliana, una musicista completa, Daniela Spalletta, che ha cantato nel mio disco, un’artista devota allo studio, completa, canta lirica e jazz contemporaneo. È bravissima. Questi sono i musicisti che mi piacciono, onnivori, versatili…».

Daniela ha all’attivo due album solisti D Birth (2015 – Alfa Music) e Sikania (2017 – Jazzy Records ) e numerose collaborazioni con artisti nazionali e internazionali. E anche altrettanti premi, tra questi, il secondo posto nel 2019 al Sarah Vaughan International Jazz Vocal Competition, dove ha cantato al New Jesey Performing Art Center di Newark (NJ) di fronte a una giuria composta da Christian McBride, Dee Dee Bridgwater, Jane Monheit, Monifa Brown e Matt Pierson.

Ma veniamo al disco: con un simile pedigree, viene da chiedersi (ed è uno dei temi che ho toccato nell’intervista dell’altro giorno con Paolo Fresu) perché artisti come Daniela non abbiano la giusta collocazione nel mondo artistico italiano e rimangano “di nicchia”. Cosa che può far sentire speciali chi li ascolta, ma la musica è comunicazione, è apertura, è gioia, vita, cultura. Gli artisti che hanno quel dono benedetto in più dovrebbero avere la possibilità di arrivare a tutti, a prescindere dal genere in cui vengono etichettati.

Già, perché etichettare Daniela Spalletta non è facile. Usa la voce come strumento, ma è una musicista che compone e arrangia e la riprova è quest’ultimo lavoro frutto della sua creatività e studio. C’è jazz, certo!, ma c’è anche world music, c’è classica e un brano che mi ha stregato, un ricordo di musica barocca rivisitata in Rosa, dove tecnica e passione si fondono “angelicamente”. Se, invece del pianoforte di Seby Burgio, ci fosse un clavicembalo vi sentireste catapultati in qualche corte settecentesca con una parrucca in testa, seduti ad ascoltare le vellutate evoluzioni canore…

Una costruzione complessa, grazie ai musicisti che accompagnano Daniela, persone che si conoscono da anni e che da anni suonano insieme. Dagli Urban Fabula (Seby Burgio al pianoforte, Alberto Fidone al contrabbasso e Peppe Tringali alla batteria) al chitarrista sloveno Jani Moder, formatosi in quella straordinaria fucina che è il Berklee College of Music di Boston, al contrabbassista Alberto Fidone che ha suonato nell’album ma ha anche curato la direzione della TRP Studio Orchestra, l’orchestra d’archi, e ha prodotto il progetto con la Spalletta e Riccardo Samperi, ingegnere del suono, che Daniela ha definito «il quinto uomo del quartetto».

Il brano di chiusura che dà il titolo all’album, Per Aspera Ad Astra, un motto latino che significa “attraverso le difficoltà, fino alle stelle”, è un esempio di quanto appena detto. Un pezzo dove gli archi hanno un ruolo determinante nell’esecuzione e nella fusione ritmica con un passaggio a contrabbasso, piano e batteria amalgamato da una voce che riempie, per poi arrivare nuovamente agli archi in un ritorno dal sapore “orientale”. Così si va nell’ascolto, dove non manca un pezzo cantato in turco, Yaşam, che significa “vita”, tratto, come spiega la stessa autrice, «da un passo della poesia Yasamaya Dair, di Nâzım Hikmet: Prendila sul serio (la vita), ma sul serio a tal punto che a settant’anni pianterai un olivo, non perché resti ai tuoi figli, ma perché non crederai alla morte e la vita peserà di più sulla bilancia».

Così, mentre Jani Moder va in modalità jazz con un tocco delicato in Coiled in a Bondage, Daniela Spalletta va di scat in Power Flow-er – ma quanto avevi ragione Gegè! – lasciando spazio a un bel disegno jazz di Seby Burgio, decisamente uno dei pianisti italiani più “in spolvero” in questo momento.

Dunque, che dire d’altro? Un gran bel viaggio questo disco. Per questo ve lo raccomando. Chiudo con una azzeccata descrizione del lavoro fatta sul suo sito dalla stessa Daniela Spalletta. Buona lettura e… buon ascolto!

Per Aspera ad Astra è un viaggio spirituale in una bolla spazio-temporale. Un peregrinare inquieto (Heal me, Coiled in a bondage). Una caduta rovinosa dalla superficie dell’esitenza verso le oscure profondità dell’anima (Samsara). Poi, la Luce dolce della Vita inesorabilmente mi conquista (The Gift), e lentamente riemergo, con la preghiera e la meditazione, riscoprendo l’energia vitale (Power Flow-er), il suo Sacro Respiro (Flamen), che mi riconcilia col mio Diamante interiore (Rosa), pronta a lasciare andare ogni angoscia (Flow): comprendo che sono pura vita e non ho bisogno di temere la morte (yaşam). Allora, una gioia irresistibile mi travolge e voglio aprire il cuore all’universo, in un canto di energia e luce (Rainbow Runners), prima di abbandonarmi di nuovo, con gratitudine, al mistero della Vita (Per Aspera ad Astra). Tutto questo “viaggio” è compiuto con lo sguardo rivolto perennemente al cielo (Up), nell’incrollabile fiducia che, anche nei momenti più difficili, esiste sempre un gancio fra il cuore e l’Amore Infinito che lo sovrasta.

Gegè Telesforo: la musica in testa e l’arte nel cuore

Gegè Telesforo, classe 1961, foggiano. Musicista, polistrumentista, ma anche conduttore, ricercatore affamato di nuovi talenti, professore, cantante, jazzista con il funk nel cuore, onnivoro ascoltatore di note dal mondo… Inquadrarlo non è facile. Si è esibito e ha collaborato con i grandi nomi del jazz internazionale e non solo. Comunque la giri, lui è un esperto. Sarà il carattere, una naturale predisposizione al pentagramma, un genio eternamente curioso e vorace, sta di fatto che Gegè sta alla musica come la batteria al ritmo, l’improvvisazione al jazz… Insomma, due atomi inscindibili. Con lui, che del suo divertimento ne ha fatto una professione ad altissimi livelli, ho voluto scambiare quattro chiacchiere (forse qualcuna in più, concedetemela!), sul suo nuovo lavoro uscito in pieno lockdown, Il Mondo in Testa, su cosa significhi musica di qualità oggi e sugli artisti che preferisce.  Importante: il prossimo 29 ottobre, in occasione del JazzMi, sarà al Blue Note di Milano, con un quintetto fantastico: oltre a lui, Domenico Sanna al pianoforte, Ameen Saleem al contrabbasso, Michele Santoleri alla batteria e Alfonso Deidda al sassofono, voce e tastiere. Torniamo all’intervista e mettetevi comodi…

Gegè, iniziamo con Il Mondo in Testa, il tuo lavoro uscito il 27 marzo scorso…
«Ho deciso di esprimere in un nuovo album tutto quello che ho imparato e assimilato negli anni, libero di fondere vari linguaggi e basi ritmiche che ho adattato alle mie composizioni. Un impegno notevole, abbiamo impiegato un anno e mezzo per confezionarlo. È stata una produzione vera e propria che mi ha occupato tantissimo. I tempi di realizzazione si sono dilatati perché ho voluto che suonassero con me musicisti che conosco e apprezzo, sia affermati sia emergenti, rispettando i loro impegni di lavoro. Inevitabilmente i tempi si sono allungati… È una produzione indipendente, artigianale, che ha richiesto una cura notevole».

A sei mesi dall’uscita com’è stato accolto il disco?
«Mi sta dando molte soddisfazioni. Ho deciso, vista la situazione, di presentare dal vivo i brani del disco il prossimo anno. È un lavoro che richiede la presenza di più musicisti sul palco. Quest’anno ho deciso di proporre solo alcuni brani del disco dal vivo e portare un repertorio adatto al mio quintetto…».

Perché questo titolo?
«Il Mondo in Testa si presta a una doppia lettura. Perché ho viaggiato tanto, e in tutti questi miei viaggi ho scoperto e imparato a usare le tante spezie che esaltano il sapore della musica. E poi perché il mondo in questo momento è una priorità, visto tutto quello che sta succedendo. Questo mio lavoro vuole essere una riflessione sulla vita, sulla natura».

Gegè Telesforo a Rovigo il 20 settembre scorso nel suo primo concerto dopo il lockdown – Foto Claudio Cecchetti

Hai deciso di cantare in Italiano…
«Sì, ci sono tre brani cantati (Il Mondo in Testa, Genetica dell’Amore e Mille Petali, n.d.r.), nei restanti uso la vocalità. Non sono un cantautore che parte dalle parole e le mette poi in musica. Faccio il processo inverso: scrivo la melodia e poi cerco di dare un senso letterario al brano. Ho utilizzato l’italiano come si fa con l’inglese, assegnando a ogni nota una sillaba. La scelta delle parole è stata un lavoro molto complicato, per agevolare il canto di chi ha collaborato al disco».

Sei famoso per usare la vocalità nella tua musica. Insomma, sei il re dello scat!
«Servirsi della vocalità è come suonare uno strumento, bisogna allenarsi tanto, impararla. Nei conservatori che hanno aperto al jazz si studia la voce e lo scat. In sostanza, si creano frasi musicali sillabando parole senza senso. Non sono il solo in Italia a praticare questa disciplina. Ti cito, ad esempio, Maria Pia De Vito, Roberta Gambarini, Walter Ricci. E poi c’è una siciliana, una musicista completa, Daniela Spalletta, che ha cantato nel mio disco, un’artista devota allo studio, completa, canta lirica e jazz contemporaneo. È bravissima. Questi sono i musicisti che mi piacciono, onnivori, versatili».

Tu come hai scoperto lo scat?
«Una mania che avevo da bambino, senza ovviamente sapere cosa fosse. Papà, che di professione è architetto, ama il jazz, in particolare quello del periodo bebop. E io da piccolo ascoltavo quei dischi, memorizzavo tutto e li “suonavo” con la voce. Era una vera fissazione, passavo le ore, tanto che i miei a un certo punto si erano anche preoccupati. Per me era soltanto il mio gioco preferito e su questo gioco ho costruito una carriera».

Gegè Telesforo a Rovigo il 20 settembre scorso nel suo primo concerto dopo il lockdown – Foto Claudio Cecchetti

Passiamo alle mille altre cose che fai. Uno degli appuntamenti fissi (che io ascolto con interesse perché non finisco mai di imparare) è SoundCheck il programma che da anni tieni su Radio24…
«La radio di Confindustria mi dà la possibilità di lavorare in assoluta libertà e trattare, dunque, la musica in maniera assolutamente naturale per me. Vedi (sorride, n.d.r.), tu e io, coetanei, siamo arrivati a un’età che ci permette di dire quello che pensiamo. E questa libertà me la prendo anche nel presentare la musica che mi piace. Faccio un programma da musicista e racconto di musica. Quando presento gli artisti mi informo, voglio sapere tutto, il loro background, da dove arrivano, come si sono formati. Non ho nessuna casa discografica che mi impone questo o quell’altro».

SoundCheck va alla grande…
«Sì, sono contento. Sebastiano Barisoni, il vicedirettore di Radio24, ogni volta mi dice che supero me stesso. Il programma va bene, ci sono ascoltatori, c’è pubblicità, c’è interesse per una musica diversa dal mainstream. SoundCheck lo posso fare perché viviamo nell’era digitale. Ai tempi in cui ho iniziato avevamo contatti diretti con le case discografiche. Era la musica che ci raggiungeva e si parlava di quegli artisti che le case discografiche volevano spingere. Oggi questo non succede più. Per fortuna possiamo bypassare le discografie ufficiali e cercare su siti che propongono artisti straordinari, molto interessanti, come SoundCloud o Bandcamp. Basta saper cercare».

Ti impegna molto?
«Dedico due giorni alla settimana alla ricerca, all’acquisto, all’ascolto. Poi catalogo e quindi inizio a formare i vari airplay…».

Gegè Telesforo a Rovigo il 20 settembre scorso nel suo primo concerto dopo il lockdown – Foto Claudio Cecchetti

Ultimamente mi sono appassionato al trombettista Christian Scott aTunde Adjuah. Non smetto di ascoltarlo… ha una sezione ritmica incredibile…
«L’ho conosciuto e intervistato. È un ragazzone atletico, simpatico e aperto, non si droga né beve, il classico bravo ragazzo. Vive per la musica, fa tutto in funzione della musica. È questa dedizione, come ti dicevo prima, che mi fa apprezzare il lavoro di artisti come lui. Hai notato, parte con una tromba dal sapore messicano per buttarsi poi in altri territori d’improvvisazione…».

Tu hai un mentore e amico, il mitico Renzo Arbore. Possiamo definirlo musicista o è riduttivo?
«Lo conosco da quando ero piccolo, è amico di papà da sempre. Renzo secondo me è l’Artista, nel vero senso della parola. Una persona squisita, di grande cultura, un grande appassionato di jazz, un grande conoscitore della musica napoletana, uno che ha rivoluzionato la televisione. E poi conosce repertori messicani, portoghesi, spagnoli, segue concerti di jazz contemporaneo. Ha una memoria incredibile, ricorda nomi di musicisti, dischi, tutto! Penso che molti degli artisti di oggi debbano qualcosa a lui e a Gianni Boncompagni. Sì, poi Renzo è anche un musicista, uno che ha calcato palcoscenici importanti in tutto il mondo».

Hai lavorato molto con lui…
«Stavo negli Stati Uniti e collaboravo con Ben Sidran, il mitico Ben Sidran. Si era creato un’etichetta musicale sua, la Go Jazz e, oltre a pubblicare se stesso, cercava e spingeva giovani talenti. Ho inciso per la sua etichetta. Nel 1998 Renzo mi chiese di partecipare alla sua tournée sudamericana. Così sono rientrato in Italia per seguirlo. A fine tour, il suo manager, Adriano Aragozzini, mi fece la proposta di restare per 70 date. È finita che sono rimasto con Renzo per vent’anni, sempre in tour. Finché il tam tam primordiale, la mia passione, complice un esaurimento nervoso (stavamo fuori casa per 250 giorni all’anno), mi ha fatto dire basta e sono ritornato all’attività da solista, fondando una mia etichetta, la Groove Master Edition, assieme a Roberto Lamberti, che è anche il mio manager».

Gegè Telesforo a Rovigo il 20 settembre scorso nel suo primo concerto dopo il lockdown – Foto Claudio Cecchetti

Da Arbore hai imparato tanto?
«Nella musica c’è sempre da imparare. Il problema è fermarsi. Si apprende dai grandi maestri ma anche dai giovani talenti. Quelli nei quali ho visto e vedo una luce, come Stefano Di Basttista, Tosca, Giorgia, il pianista Domenico Sanna, i batteristi Michele Santoleri (che con Sanna suona nel mio quintetto) e Dario Panza.

Tosca, la adoro! La sua versione di Piazza Grande di Lucio Dalla a Sanremo con Silvia Pérez Cruz, per me, è stata l’unica nota di vera musica del festival…
«Tosca è la mia cantante preferita in Italia. Quando inizia a cantare senti il grande studio che c’è dietro, è un’artista che sa stare sul palco, lo avverti il fuoco della musica».

La musica mainstream è piuttosto piatta, non trovi?
«Perché mercato e comunicazione dettano legge. In televisione anni fa c’erano programmi che cercavano di raccontare storie, indagavano, informavano. Oggi si cercano popstar che possono durare solo una stagione… Quando appare il grande talento, questo è preso dalla casa discografica e spremuto perché c’è necessità di fare numeri. I ragazzi da parte loro hanno un unico obiettivo, quello di raggiungere il successo immediatamente. Il risultato è che quest’ultimo arriva su pattern noiosi. Hai notato che il nostro Paese d’estate diventa tropicale? Ascolti solo basi Reggaeton, si cerca di semplificare al massimo, tutto deve essere ridotto a prodotto facile, che non impegna, da consumare subito».

Una specie di fast food della musica. Ma per fortuna non è tutto così…
«Esistono i musicisti, cioè quelli che, usciti dal conservatorio, non si vedono destinati all’insegnamento, ma vogliono imparare l’arte del vivere di musica. Un’arte che si apprende scoprendola sulla propria pelle. Ci sono ragazzi che scrivono con una certa complessità, che non passano in radio perché il pop deve fare visualizzazioni, streaming, download. Nessuno li conosce. Io sì, li cerco e spesso incidono con la mia etichetta indipendente».

Secondo te questo decadente appiattimento culturale è una fase di passaggio?
«Ora è tutto indie-trap-hip hop, un miscuglio di vari stilemi. Ma chi è appassionato di musica va a cercare altro. C’è tanta musica di qualità, credimi! Perciò, no, non penso che stiamo vivendo un periodo decadente».