Interviste: Luca Barbato e l’importanza di essere… “Smoothly”

I BF Project: a sinistra, Luca Barbato, a destra, Alberto Fichera – Foto Marcello Torresi

Vi segnalo un disco uscito a marzo per la TRP Music ma passato per lo più sotto silenzio. È il primo lavoro di due amici trentacinquenni nati alle falde dell’Etna, cresciuti insieme e diventati entrambi musicisti. Un progetto che porta le iniziali del loro nome BF. Uno è un batterista, l’altro un sassofonista e clarinettista, il primo ha svoltato sul jazz e il latin, il secondo viene dal classico e suona tutt’ora in orchestre classiche senza ignorare pop e jazz. Il primo continua a vivere nel suo paese, Pedare, il secondo s’è trasferito a Roma. Ok, tranquilli! Ora vi dico i nomi: Luca Barbato e Alberto Fichera, i BF Project.

Il loro primo disco l’hanno chiamato Smoothly e racchiude, in una sorta di ensemble, la vita musicale di Luca e Alberto. C’è fusion, Brasile, Cuba, jazz un viaggio onirico di passioni personali e ricordi. Atmosfere smooth, appunto!, ma anche visioni di feste a La Habana o brillanti samba jazz alla Sergio Mendes in una Rio rutilante di calore e suoni. Gli arrangiamenti sono tutti di una nostra vecchia conoscenza, Seby Burgio, uno dei pianisti jazz più quotati attualmente, che ha reso narrativamente unito, capitolo dopo capitolo, questo Grand Tour armonico e ritmico.

Mendes ritorna nell’uso del Fender Rhodes, formidabile piano elettrico, e dell’organo Hammond, di grandi trascorsi, suonati da Burgio ad esempio, in Ellis Island, ottimi i bassisti, c’è anche Salvo Barbato, padre di Luca, bassista di lungo corso, in tre brani Lat-in-soul, Smoothly e Summer Funky… I giri di basso ricordano la fusion anni Ottanta, ad esempio quella degli Yellow Jackets (tra l’altro, dal 2012, s’è unito alla band Felix Pastorius, figlio del sublime Jaco, che militò negli Weather Report) o dei mitici Brand X, dove suonava Percy Jones, altro santograal del basso con il suo strumento fretless dove le dita volavano con la grazia di una danza.

Non si fanno paragoni, ovvio. Ma questi sono i ricordi che Smoothly ha risvegliato in me. La qualità del lavoro è alta, l’album è stilisticamente curato, senza manierismi che avrebbero potuto renderlo più freddo. Un prodotto vero, senza scorciatoie né sensazionalismi. Che sarà presentato per la prima volta dal vivo a Catania il 13 dicembre alle 21 alla Sala Harpago – Il Gatto Blu.

Così ho deciso di chiamare Luca Barbato, la sezione ritmica dei BF Project. Niente di meglio farsi raccontare la nascita di un progetto dagli stessi autori…

Tu e Alberto siete amici da sempre…
«Sì da quando avevamo una decina d’anni. Io sono di Pedara, lui di Trecastagni, paesi confinanti della cintura Etnea. Abbiamo la stessa età, io sono di marzo, lui di aprile…».

Destinati a lavorare insieme!
«Abbiamo sempre frequentato ambienti musicali. Io sono addirittura nato in una famiglia musicale, mio padre, Salvo, è un bassista di grande esperienza. Insomma, cresciuti a pane e musica. Smoothly è il nostro primissimo progetto, l’avevamo in mente da tempo. Alberto, per lavoro, vive a Roma, mentre io, che adoro insegnare, ho aperto una scuola di musica a Pedara. Alberto è nato come musicista classico, poi con il tempo s’è spostato sul pop e sul jazz».

Parlami di Smoothly, tutta farina del vostro sacco…
«I brani del disco sono nostri, abbiamo avuto il desiderio di comunicare qualcosa di noi, della nostra musica che è un jazz contaminato, raccontarci con semplicità, senza sovraccaricare con virtuosismi».

Avete lasciato poco spazio all’improvvisazione.
«In ambito jazzistico, quando si compone si lascia spesso molta libertà ai singoli musicisti. Noi abbiamo deciso di tenere le parti di improvvisazione ma senza strafare, volevamo un racconto alla portata di tutti, cercando di essere il più ordinati possibile, tanti tasselli di un puzzle che si andava a comporre. Volevamo fosse sentito come un buon lavoro di gruppo».

Ci sono tanti generi nel disco. Fusion va bene, ma, oserei, contaminazioni consapevoli e cercate con ostinazione…
«Su questo abbiamo le idee molto chiare. La diversità di cultura, anche musicale, e di educazione può creare solo ricchezza. Viviamo standardizzando molto, anche la musica. È una conseguenza della globalizzazione, il rischio, però, è che ci appiattiamo… Poi, è un altro discorso, bisognerà vedere come verrà considerata la musica attuale a distanza di anni: quello che chiamiamo classica è un genere che in realtà è fatto di più generi che quando vennero creati e suonati avevano altro valore, e che noi, dopo secoli, abbiamo codificato in classici. Tra un secolo quello che si ascolta oggi diventerà di sicuro “un classico”. La musica si adatta ai popoli e alle culture. I musicisti fanno parte del tessuto sociale e certe sonorità ne sono la conseguenza».

Nel vostro caso è la “mediterraneità”…
«Sì, ma questa non è solo patrimonio del Sud. Mi spiego: il concetto di mediterraneità si identifica geograficamente con il Sud ma appartiene all’Italia intera. Basti pensare a Pino Daniele, patrimonio artistico non solo napoletano ma di tutto il Paese. Se dovessi fare un paragone, la mediterraneità è come la cucina italiana, varia, ma rappresenta tutto il Paese».

Ci sono brani nel disco che vi personalizzano più di altri?
«La mia anima funk e latina è evidente in Lat-in-Soul, quella di Alberto, più profonda e meditativa, in Ramble, dove suona il sax soprano».

Luca, domanda scema: perché la batteria?
«Non c’è un perché. La mia vita ha sempre avuto musica intorno. Da bambino andavo con mio papà in sala prove. Tra i tanti strumenti, quello che mi attirava di più era la batteria. Mi ricordo che mi sedevo vicino al batterista e lo guardavo ammirato. A 5 anni ero già lì che battevo tamburi, tra alti e bassi, tipici dei bimbi di quell’età. Ho iniziato a studiarla seriamente, con dedizione, a 12 anni».

Foto Marcello Torresi

E perché la musica latina? Te lo chiede uno che fin da ragazzo ne è rimasto colpito. Più genericamente, è un genere che antropologicamente arriva dal basso…
«Anche qui, non so dare una spiegazione logica. Però se ci fai caso, il jazz come la musica latina sono nati in situazioni di estrema povertà. Come se la musica fosse un lenitivo per le sofferenze. Da batterista ti rispondo che la musica latina è apparentemente semplice, in realtà esprime concetti ritmici totalmente diversi dai nostri, e quindi complicati, che però hanno la capacità di arrivarti dritti al cuore. Anche l’armonia è complessa, il tutto è incarnato in una sostanziale bellezza. Pensa alla musica brasiliana o ai ritmi cubani, melodie complesse che colpiscono subito l’ascoltatore, il jazz non riesce in questo, non è  spontaneamente accessibile, bisogna ascoltarlo tanto per capirlo. Una cosa è sicura: se quando suoni dal palco vedi la gente che inizia a battere il tempo con il piede o con le mani, stai sicuro che quella musica ha preso. Dal palco mi piace molto guardare le reazioni del pubblico».

Il jazz ha attinto a piene mani dalla musica latina, basti pensare alla bossa nova, a Tom Jobim…
«C’è un disco fantastico che ascolto spesso, ed è il Live at The Royal Festival registrato da Dizzy Gillespie con la United Nation Orchestra nel 1989. È bellissimo ci sono miti del latin jazz come Arturo Sandoval, Paquito D’Rivera, Danilo Pérez che suonano assiema Dizzy. Lì si sente persino la mediterraneità…».

Oltre a tuo padre, Salvo, e a Seby Burgio chi sono gli altri compagni di strada in Smoothly?
«Seby è la terza colonna portante del progetto. Ha arrangiato tutto il disco trattando il progetto come se fosse suo, e di questo gliene siamo grati. Poi ci sono Nicola Tariello (tromba in Cumbao, Lat-In-Soul e Summer Funky ), Salvo Finocchiaro (Fender Rhodes in Pareo, China Blues e Lat-In-Soul e assolo di synth in Summer Funky) Giacomo Patti (basso in Eyes of Joy e Ramble), Mario Guarini (basso in Pareo e in Ellis Island), Carmelo Venuto (contrabbasso in 4 U, China Blues e Cumbao) e Daniele Leucci (percussioni in Pareo, Cumbao e Summer Funky).

E la cover così “latina”?
«L’ha concepita il fumettista Mario Sciuto. Ha avuto la capacità di tradurre in colore il nostro essere, ascoltando solo qualche brano. S’è inventato una umanizzazione dei nostri strumenti, interpretando quello che siamo, dei ragazzi scherzosi e solari. Un lavoro magistrale fatto in modo inconscio».

Un disco per il weekend: Daniela Spalletta e il suo “Per Aspera Ad Astra”

Daniela Spalletta – Le foto del post sono di Paolo Galletta

Per questo fine settimana vi invito ad ascoltare un disco meditativo, originale, che non dà il minimo spazio alle banalità, anche se certi fraseggi possono suonare rassicuranti. Un lavoro che mi ha catturato al primo ascolto e che ora, sento la necessità, sì proprio così – e non mi capita spesso, e ringrazio chi me l’ha segnalato – di ascoltarlo in loop. No, tranquilli! Non ho usato alcuna sostanza psicotropa, ma sono stato drogato da una voce incredibile, bella, cristallina, angelica, versatile. E me ne sono innamorato.

Il disco in questione è Per Aspera Ad Astra (TRP Music), uscito a febbraio e, faccio mea culpa, l’ho scoperto solo ora. L’artista si chiama Daniela Spalletta, 39 anni, siciliana. Di lei Gegè Telesforo, alla domanda sull’uso dello scat, di cui è uno dei re indiscussi, lo scorso anno mi raccontava: «…E poi c’è una siciliana, una musicista completa, Daniela Spalletta, che ha cantato nel mio disco, un’artista devota allo studio, completa, canta lirica e jazz contemporaneo. È bravissima. Questi sono i musicisti che mi piacciono, onnivori, versatili…».

Daniela ha all’attivo due album solisti D Birth (2015 – Alfa Music) e Sikania (2017 – Jazzy Records ) e numerose collaborazioni con artisti nazionali e internazionali. E anche altrettanti premi, tra questi, il secondo posto nel 2019 al Sarah Vaughan International Jazz Vocal Competition, dove ha cantato al New Jesey Performing Art Center di Newark (NJ) di fronte a una giuria composta da Christian McBride, Dee Dee Bridgwater, Jane Monheit, Monifa Brown e Matt Pierson.

Ma veniamo al disco: con un simile pedigree, viene da chiedersi (ed è uno dei temi che ho toccato nell’intervista dell’altro giorno con Paolo Fresu) perché artisti come Daniela non abbiano la giusta collocazione nel mondo artistico italiano e rimangano “di nicchia”. Cosa che può far sentire speciali chi li ascolta, ma la musica è comunicazione, è apertura, è gioia, vita, cultura. Gli artisti che hanno quel dono benedetto in più dovrebbero avere la possibilità di arrivare a tutti, a prescindere dal genere in cui vengono etichettati.

Già, perché etichettare Daniela Spalletta non è facile. Usa la voce come strumento, ma è una musicista che compone e arrangia e la riprova è quest’ultimo lavoro frutto della sua creatività e studio. C’è jazz, certo!, ma c’è anche world music, c’è classica e un brano che mi ha stregato, un ricordo di musica barocca rivisitata in Rosa, dove tecnica e passione si fondono “angelicamente”. Se, invece del pianoforte di Seby Burgio, ci fosse un clavicembalo vi sentireste catapultati in qualche corte settecentesca con una parrucca in testa, seduti ad ascoltare le vellutate evoluzioni canore…

Una costruzione complessa, grazie ai musicisti che accompagnano Daniela, persone che si conoscono da anni e che da anni suonano insieme. Dagli Urban Fabula (Seby Burgio al pianoforte, Alberto Fidone al contrabbasso e Peppe Tringali alla batteria) al chitarrista sloveno Jani Moder, formatosi in quella straordinaria fucina che è il Berklee College of Music di Boston, al contrabbassista Alberto Fidone che ha suonato nell’album ma ha anche curato la direzione della TRP Studio Orchestra, l’orchestra d’archi, e ha prodotto il progetto con la Spalletta e Riccardo Samperi, ingegnere del suono, che Daniela ha definito «il quinto uomo del quartetto».

Il brano di chiusura che dà il titolo all’album, Per Aspera Ad Astra, un motto latino che significa “attraverso le difficoltà, fino alle stelle”, è un esempio di quanto appena detto. Un pezzo dove gli archi hanno un ruolo determinante nell’esecuzione e nella fusione ritmica con un passaggio a contrabbasso, piano e batteria amalgamato da una voce che riempie, per poi arrivare nuovamente agli archi in un ritorno dal sapore “orientale”. Così si va nell’ascolto, dove non manca un pezzo cantato in turco, Yaşam, che significa “vita”, tratto, come spiega la stessa autrice, «da un passo della poesia Yasamaya Dair, di Nâzım Hikmet: Prendila sul serio (la vita), ma sul serio a tal punto che a settant’anni pianterai un olivo, non perché resti ai tuoi figli, ma perché non crederai alla morte e la vita peserà di più sulla bilancia».

Così, mentre Jani Moder va in modalità jazz con un tocco delicato in Coiled in a Bondage, Daniela Spalletta va di scat in Power Flow-er – ma quanto avevi ragione Gegè! – lasciando spazio a un bel disegno jazz di Seby Burgio, decisamente uno dei pianisti italiani più “in spolvero” in questo momento.

Dunque, che dire d’altro? Un gran bel viaggio questo disco. Per questo ve lo raccomando. Chiudo con una azzeccata descrizione del lavoro fatta sul suo sito dalla stessa Daniela Spalletta. Buona lettura e… buon ascolto!

Per Aspera ad Astra è un viaggio spirituale in una bolla spazio-temporale. Un peregrinare inquieto (Heal me, Coiled in a bondage). Una caduta rovinosa dalla superficie dell’esitenza verso le oscure profondità dell’anima (Samsara). Poi, la Luce dolce della Vita inesorabilmente mi conquista (The Gift), e lentamente riemergo, con la preghiera e la meditazione, riscoprendo l’energia vitale (Power Flow-er), il suo Sacro Respiro (Flamen), che mi riconcilia col mio Diamante interiore (Rosa), pronta a lasciare andare ogni angoscia (Flow): comprendo che sono pura vita e non ho bisogno di temere la morte (yaşam). Allora, una gioia irresistibile mi travolge e voglio aprire il cuore all’universo, in un canto di energia e luce (Rainbow Runners), prima di abbandonarmi di nuovo, con gratitudine, al mistero della Vita (Per Aspera ad Astra). Tutto questo “viaggio” è compiuto con lo sguardo rivolto perennemente al cielo (Up), nell’incrollabile fiducia che, anche nei momenti più difficili, esiste sempre un gancio fra il cuore e l’Amore Infinito che lo sovrasta.