Dieci dischi degni di nota del 2021 – Prima parte

Il 2021 s’è chiuso da pochi giorni. Un anno in musica che, dal mio piccolo osservatorio, ha rivelato molti lavori di buona qualità. In tutti i generi, dal rock al jazz all’alternativa, classificazione usata per dire tutto e niente. Mi sono esercitato in una mia personale classifica dei dieci album che che mi sono piaciuti di più. L’ho stilata in base ai miei gusti, alle mie aspettative, alle mie sensazioni ed emozioni. Di dischi ne ho ascoltati centinaia, molti mi hanno annoiato a morte ma altri mi hanno catturato. Questi dieci sono quelli che ascolto con rinnovato piacere quando lavoro, leggo, mi rilasso. Praticamente tutti li ho già pubblicati nel corso dell’anno, con un paio di artisti ho chiacchierato anche a lungo… Ve li propongo tutti e dieci in rigoroso ordine di pubblicazione, divisi in due post…Qui i primi cinque.

Per Aspera Ad Astra – Daniela Spalletta – 5 febbraio 2021

Daniela Spalletta, siciliana, 39 anni, è una delle voci più interessanti e complete del panorama jazzistico italiano e internazionale. Ha all’attivo tre album solisti D Birth (2015 – Alfa Music), Sikania (2017 – Jazzy Records) e Per Aspera Ad Astra (TRP Music) uscito a febbraio. Troppo poco conosciuta dal grande pubblico, e questo è una grande sfortuna per chi non l’ha mai ascoltata, visto che, con la voce che si ritrova, la Spalletta potrebbe cantare di tutto. Usa la voce come strumento, ma è una musicista che compone e arrangia e la riprova è proprio quest’ultimo lavoro, frutto della sua creatività e studio. C’è jazz, certo!, ma c’è anche world music, c’è classica e un brano che mi ha stregato, un ricordo di musica barocca rivisitata in Rosa, dove tecnica e passione si fondono “angelicamente”. Un lavoro dalla costruzione complessa, grazie anche ai musicisti che la accompagnano, persone che si conoscono da anni e che da anni suonano insieme. Dagli Urban Fabula (Seby Burgio al pianoforte, Alberto Fidone – che ha suonato nell’album ma ha anche curato la direzione della TRP Studio Orchestra, l’orchestra d’archi, e ha prodotto il progetto con la Spalletta – al contrabbasso e Peppe Tringali alla batteria) al chitarrista sloveno Jani Moder, formatosi in quella straordinaria fucina che è il Berklee College of Music di Boston, a Riccardo Samperi, ingegnere del suono, che Daniela ha definito «il quinto uomo del quartetto». Approvato a pieni voti!

Carnage – Nick Cave & Warren Ellis – 25 febbraio 2021

Nick Cave & Warren Ellis. Con questi due artisti non poteva che uscire un lavoro di altissimo livello. Carnage, carneficina, è un disco che impatta, fa male, ti rigira senza troppa gentilezza. Scritto durante il lockdown, è un lavoro di pesante riflessione sulla solitudine arrivata con la pandemia, sul credere in qualcuno o qualcosa, su quello che siamo oggi, con l’inconfondibile voce baritonale di Nick e praterie di sintetizzatori made in Warren, piccoli interventi di chitarre elettriche secche come la solitudine, il pianoforte suonato da Nick che tesse melodie, in realtà, note di speranza. In Balcony Man, ultimo degli otto brani che compongono questo mosaico baritonale, profondo, essenziale, Nick canta: This morning is amazing and so are you/This morning is amazing and so are you/ This morning is amazing and so are you/ You are languid and lovely and lazy/ And what doesn’t kill you just makes you crazier. Quest’ultima frase è epica: «Ciò che non ti uccide ti rende solo più pazzo», una sintesi perfetta per due anni di pandemia. In Hand of God, «Hand of God /Coming from the Sky», primo brano, dopo un inizio “classico”, scarica sull’ascoltatore un ritmo ossessivo, profondo. Nella splendida Old Time, dove, per inciso, alla batteria c’è un altro storico “Bad Seeds”, Thomas Wydler, Nick canta: «I sogni di tutti sono morti, ovunque tu sia andata, tesoro, non sono così indietro». Tasselli che raccontano la solitudine ma anche la speranza di ritornare un giorno a una normalità. Pregno ed epico White Elephant, un chiaro riferimento all’estrema destra americana. Parte con un’elettronica alla Peter Gabriel anni Ottanta per finire in una sorta di gospel. Qui è il primatista bianco che minaccia di uccidere tutti, si sente dio, «Una Venere di Botticelli con il pene», ma anche «Una scultura di ghiaccio che si scioglie con il sole»…

Smiling With No Teeth – Genesis Owusu – 5 marzo 2021

Smiling With No Teeth è il primo album di questo ventitreenne nato in Ghana e cresciuto a Canberra (Australia), dove i suoi genitori lo portarono all’età di due anni. La famiglia è ritornata in Ghana, lui divide la sua vita tra i due Paesi. Il fratello maggiore è un rapper noto in Australia, Citizen Kay. Premessa necessaria: Genesis adora i manga giapponesi, i videogiochi e in genere le arti visive. E ancor di più ama alla follia le musiche dei videogiochi, oltre al funk, al punk, al rap e al pop. Queste sue passioni si riversano tutte nel disco che riassume un caos di generi dove Owusu si muove a suo agio, alimentandolo a dovere. Si sente la stessa fluidità di Prince nel fare musica… A partire dal primo brano, On The Move che introduce The Other Black Dog, è un crescendo di melodie e generi che stimolano e incuriosiscono. Ti invogliano ad andare avanti per questa strada apparentemente sconnessa – vedi Waitin’ on Ya – e divorare il disco fino all’ultimo brano, By By.

We Are – Jon Batiste – 19 marzo 2021

Jon Batiste, è un artista di New Orleans, famoso negli States per essere il direttore musicale del The Late Show condotto da Stephen Colbert. Il suo lavoro, We Are, è un album che trasmette energia allo stato puro, emozione, disperazione, commozione, pur conservando un grande rigore musicale nel mix stilistico. Un album “impegnato”, sull’onda del Black Lives Matter. C’è soul, pop, hip-hop, rap, R&B, con un pizzico di maestria jazz, ingredienti di un’insalata condita alla perfezione. Ascoltate We Are, il brano che apre il disco, cantata assieme alla St. Augustine High School Marching 100 e il Gospel Soul Children’s Choir di New Orleans, dove la parola “freedom” è una costante. Freedom è anche il titolo di un altro brano… In un crescendo la creativa sequenza di Batiste si sussegue a ritmo serrato, passando per Tell The Truth, un’intemerata alla Otis Redding e agli anni Sessanta, all’incontenibile I Need You, e così per tutti e 13 i brani, belli spessi.

Vulture Prince – Arroj Aftab – 23 aprile 2021

La voce di Arroj Aftab ti inchioda, la sua musica, contaminata da jazz, ritmi afrocubani, dal samba e, ovviamente dalle melodie tradizionali del suo Paese d’origine, il Pakistan, è la dimostrazione di come le culture si possano fondere armoniosamente e far nascere qualcosa di nuovo e importante. Dopo Bird Under Water, primo disco uscito nel 2014 – ascoltate la ninnananna Lullaby – Sirene Islands, del 2018, quattro brani per 48 minuti e 15 secondi di ascolto, pura elettronica, musica meditativa – qui Ovid’s Metamorphoses – ecco Vulture Prince, un disco che doveva essere la naturale continuazione del precedente Sirene Islands, con un ritorno, però, all’uso di strumenti quali la chitarra, l’arpa, i violini, nella quasi totale assenza di percussioni, un forte richiamo alla musica urdu, un neo-sufi con influenze jazz, folk, persino reggae. Il tutto suona non come una semplice contaminazione di generi, ma con uno studio attento e rispettoso della musica da cui Arooj ha attinto. Doveva essere anche un disco più “sostenuto”, come lei stessa ha avuto modo di spiegare in un’intervista a NPR, emittente radiofonica americana, con iniezioni di Afrobeat, poi, una tragedia familiare, la morte di Maher, il fratello più giovane a cui era molto unita, l’ha portata a fare scelte più rispettose del lutto che si era imposta. Ne è nato un lavoro di grandi emozioni. Da Diya Hay, brano per lei significativo, perché è l’ultima canzone che ha cantato al fratello, registrato con la brasiliana Badi Assan, alla sua personale versione del Mohabbat, un ghazal, poema tradizionale (famosissimo), che parla d’amore, ma anche di dolore per la perdita della persona amata, fino a Last Night, il testo è un poema di Rumi, il grande poeta persiano vissuto nel Duecento, che lei ha messo in musica (reggae) nel 2010 e che ha deciso di incidere in questo disco.

Da “Carnage” a QAnon il passo è breve (e dannoso)

Piccoli esperimenti sociali in corso. Il 26 febbraio ho pubblicato una recensione su Carnage, gran bel disco di Nick Cave e Warren Ellis, uscito il giorno prima per la Goliath Enterprises Limited.

Ho lanciato un post sulla pagina Facebook di Musicabile intitolandolo: “Carnage, il lato oscuro della pandemia”, motivando l’interesse per la pubblicazione come “Un lavoro che mette a nudo l’uomo, l’esperienza estrema, il senso della vita. L’ultima frase del disco, in Balcony Manœ, è la sintesi di tutto: «Ciò che non ti uccide ti rende solo più pazzo». Atmosfere cupe, pressanti, alternate a momenti di leggerezza e speranza. Da ascoltare e riascoltare…”.

Mi sarei aspettato un giudizio sull’album, certo di non facile ascolto, soprattutto per chi non segue Cave. In realtà i tanti commenti che si sono aggiunti poco per volta, hanno per lo più ignorato il lavoro degli artisti australiani e scolpito nella mente di chi li ha scritti un solo pensiero: concentrarsi su chi fosse il colpevole della pandemia.

La conseguenza, una rabbia incontrollata. E poiché quest’ultima dev’essere scaricata, sono stati additati i colpevoli del virus, del lockdown, del clima di tensione che si è creato. Ovviamente al primo posto c’è “la sinistra”, fatto che mi lascia perplesso ogni volta che mi imbatto in simili dichiarazioni tombali sui social. La sinistra? Dov’è, qualcuno me lo dica, perché di sinistra nel nostro Paese da decenni vedo solo annebbiate forme protozoiche, altro che frange criminali organizzate…

Ce n’è anche per i soliti colpevoli di tutto (QAnon e il complottismo insegnano), gli immancabili George Soros, Bill Gates e Klaus Schwab, a cui si aggiunge, visto il virus, l’immunologo Anthony Fauci, tutti colpevoli della diffusione del Covid19 per non meglio e sottintese operazioni di guadagno sulla pelle dei poveri cittadini indifesi.

Abbiamo imboccato da tempo una deriva pericolosa. Informarsi, conoscere, capire, ragionare costa fatica. E sempre meno persone vi si dedicano: la conoscenza è un duro lavoro, che va coltivato passo dopo passo. E la musica, quella mainstream, rispecchia la tendenza: il più piatta e simile possibile a se stessa, di presa facile, così si fanno soldi, si costruiscono successi che durano giusto quelle tre ore e poi via un altro, sempre uguale al precedente ma da vendere come nuovo prodotto dell’inconsistenza sociale…

Frame da “Ritchie Sacramento” dei Mogwai

L’indigesto (perché reale) contenuto di Carnage (a proposito il settimanale britannico NME, New Musical Express, alcuni giorni fa lo ha eletto il miglior album pubblicato durante il lockdown, prima di Folklore di Taylor Swift – qui Exile, con Bon Iver, e di As The Love Continues dei Mogwai, uscito il 19 febbraio – qui Ritchie Sacramento), avrebbe potuto stimolare una discussione su ciò che è davvero importante e necessario in questo momento, una riflessione sui morti, un pensiero concreto su rabbia, pietà, solitudine, sui vaccini e sulla speranza di uscirne.

Da parte mia continuerò a proporre musicisti che hanno qualche cosa di interessante da dire attraverso le loro note e parole, ignorando prese di posizione qualunquiste, per sentito dire. La vita è già complicata così. Perdonatemi lo sfogo…

Nick Cave e Warren Ellis: Carnage, il lato oscuro della pandemia

Il Covid non molla, si trasforma, diventa altro. Fa paura. E la reazione, dopo un anno di lockdown, morti, zone gialle, arancioni, arancione rinforzato, arancione scuro, rosso, è cercare di pensare alla normalità di cui godevamo solo un paio d’anni fa. Molte volte abbiamo tentato di ritornare alla quotidianità abbandonata, pensando che forse era quella buona. Pensiero e azione sono cani che si mordono la coda. E in questo roteare il virus razzola e occupa. Oltre alle solite congetture da social, da cui fuggo incazzato e perplesso, rimane il fatto che siamo ben lontani dal ritorno alla normalità.

Gli Stati Uniti hanno raggiunto e superato il mezzo milione di morti, il Brasile i 250mila, noi… secondo uno studio della Fondazione di Bill Gates, se non acceleriamo sulle vaccinazioni, potremmo trovarci a marzo e aprile con oltre trentamila morti. L’Unione europea lancia l’allarme, in un terzo dei Paesi membri si stanno di nuovo riempiendo le corsie degli ospedali e le terapie intensive…

La tragedia dello scorso anno che si ripete… In Italia, con Sanremo alle porte, dove tutti sorridono per cercare di rivivere patine di normalità, ieri qualcuno è venuto a ricordarci, con il suo consueto schiaffone in faccia, che la situazione è un’altra. Quel qualcuno ha un nome pesante nella musica: si chiama Nick Cave. Il 25 febbraio ha pubblicato, assieme a Warren Ellis, suo sodale, polistrumentista e membro dei Bad Seeds, la storica band di Cave, un album dal titolo significativo: Carnage, carneficina. Per inciso, dei due artisti ne avevo parlato il 19 gennaio scorso, quando ho ricordato la loro collaborazione con Marianne Faithfull (il 30 aprile uscirà She Walks in Beauty).

Scritto durante il lockdown, è un lavoro di pesante riflessione sulla solitudine arrivata con la pandemia, sul credere in qualcuno o qualcosa, su quello che siamo oggi, con la voce baritonale e praterie di sintetizzatori, piccoli interventi di chitarre elettriche secche come la solitudine, il pianoforte suonato da Nick che tesse melodie che suonano come note di speranza. In Balcony Man, ultimo degli otto brani che compongono questo mosaico baritonale, profondo, essenziale, Nick canta:

This morning is amazing and so are you
This morning is amazing and so are you
This morning is amazing and so are you
You are languid and lovely and lazy
And what doesn’t kill you just makes you crazier

L’ultima frase è epica: «Ciò che non ti uccide ti rende solo più pazzo». Una sintesi perfetta per il momento. In Hand of God, «Hand of God /Coming from the Sky», primo brano, dopo un inizio “classico”, scarica sull’ascoltatore un ritmo ossessivo, profondo. Nella splendida Old Time, dove, per inciso, alla batteria c’è un altro storico “Bad Seeds”, Thomas Wydler, Nick canta:

The trees are black and history
Has dragged us down to our knees
Into a cold time
Everyone’s dreams have died
Wherever you’ve gone, darling
I’m not that far behind

«I sogni di tutti sono morti, ovunque tu sia andata, tesoro, non sono così indietro». Sono tutti tasselli che raccontano la solitudine ma anche la speranza di ritornare un giorno a una normalità. C’è un brano che continuo ad ascoltare, ed è White Elephant, chiaro riferimento all’estrema destra americana. Parte con un’elettronica alla Peter Gabriel anni Ottanta per finire in una sorta di gospel. Qui è il primatista bianco che minaccia di uccidere tutti, si sente dio, «Una Venere di Botticelli con il pene» ma anche «Una scultura di ghiaccio che si scioglie con il sole» e annuncia che «è vicino il tempo per il regno nel cielo».

Ve lo suggerisco, è una bella scossa per questi tempi, una visione del reale lucida e cruda nella sua apparente follia. Ma questo è Cave. E per fortuna che esiste!

Marianne Faithfull: il 30 aprile un nuovo album…

Marianne Faithfull e Nick Cave – Frame dal docufilm del regista Naïché Caudron, registrato al “La Frette Studio” di Parigi nel 2018

L’annuncio dell’uscita, il prossimo 30 aprile, di She Walks In Beauty, il nuovo lavoro di Marianne Faithfull per BMG, non passa certo inosservato. E sarà per molti – incluso il sottoscritto – un’attesa curiosa, piena di aspettative. Per numerosi motivi.

Innanzitutto per la squadra di musicisti con cui la signora, che ha marcato con la sua voce profonda gli anni della musica brit dalla swinging London in poi, si circonda. A partire da Warren Ellis che firma l’album, violinista, polistrumentista e componente dei Bad Seeds la band di Nick Cave. Per continuare con lo stesso Cave, ma anche con Brian Eno e il violoncellista&bassista Vincent Ségal e, ovviamente, con l’amico di lunga data e suo manager, Francois Ravard.

Ellis e Cave avevano partecipato anche al precedente lavoro di Marianne, del 2018, dal titolo Negative Capability. Nick l’aveva accompagnata al pianoforte in un brano intenso, bello, The Gipsy Faerie Queen, e non solo. Un breve docufilm del regista Naïché Caudron, registrato al La Frette Studio di Parigi, dove Nick intervista/chiacchiera con Marianne, la dice lunga sull’intesa che si è creata tra gli “australiani” e la settantaquattrenne lady British.

Un altro motivo, non certo secondario, è il concept del lavoro: la passione dell’artista per i poeti romantici inglesi, come John Keats, Percy Shelley, Lord George Byron, William Wordsworth, il barone Alfred Tennyson, Thomas Hood… Un difficile e certosino intreccio letterario “composto” da Marianne nel periodo della prima ondata di Covid 19 (lei stessa è stata ricoverata a causa del virus e, per fortuna, ne è uscita bene), mentre da Parigi Ellis lavorava alle melodie che hanno dato vita a questo originale lavoro.

Non ci resta che aspettare il 30 aprile. Nella versione fisica, CD e Vinile, ci sarà un libro di 28 pagine con i testi di tutte le poesie. Ultima nota. Il dipinto della cover è di Colin Self, artista della pop art inglese e amico della Faithfull.

Venti dischi (più uno) per raccontare un anno particolare/4

Siamo arrivati alla fine. Altri cinque dischi, più un sesto, la mia colonna sonora di questo 2020, anno che resterà impresso nella memoria di ognuno di noi. Ancora una volta c’è di tutto, dal jazz al desert blues, dall’eclettismo al rock – con il monolitico Boss -, passando per un altro grande, Nick Cave, in versione solitaria e unplugged, come si diceva una volta. Divertitevi!

16 – HH Lionel Loueke (uscito il 16 ottobre)
Il signore in questione è nato in Benin, Africa Occidentale, ha 47 anni e una naturale predisposizione alla chitarra. Anzi, è un autentico virtuoso dello strumento, che domina con tecnica ferrea, insuperabile. Il segreto di questo disco sta tutto nel titolo, in quelle due misteriose acca maiuscole che, sulla cover del disco, hanno un bell’impatto grafico. HH sta per Herbie Hancock. L’ottantenne pianista e compositore è stato il suo maestro, mentore, guida. Probabilmente non è un caso che a HH segua LL: Hancock ha selezionato Loueke per l’ingresso al Thelonious Monk Institute of Jazz – organizzazione senza scopo di lucro che viaggia tra insegnamento della cultura musicale e lavoro sociale e che, dopo oltre trent’anni d’attività, nel 2018, ha cambiato nome in Herbie Hancock Institute of Jazz, omaggio al lavoro svolto dal pianista nell’istituto – lo ha, quindi, voluto in sue produzioni, come Possibilities, River: The Joni LettersThe Imagine Project, ed è parte integrante del gruppo che lo segue quando si esibisce dal vivo. HH, dunque, vuole essere un omaggio alla persona che più ha creduto nelle sue qualità artistiche e musicali. Un disco in cui Lionel e la sua chitarra, rivedono e ripropongono brani scritti da Hancock tra il 1962 e il 1983, il periodo d’oro del compositore (vedi Watermelon Man (1962), Cantaloupe Island (1964), Butterfly (1974)… Un disco che mi sta accompagnando fra le tante facce del jazz e la gioia dell’essenza della musica.

17 – OptimismeSonghoy Blues (uscito il 23 ottobre)
Optimisme! Ne abbiamo bisogno. E non è un titolo nato a caso quello dei Songhoy Blues, band del Mali al suo terzo disco. Un gran bel lavoro, a dirla tutta, un desert blues di prim’ordine, che sprizza gioia, potenza, pur trattando argomenti delicati dalla politica, al riscatto  femminile, alla pandemia…. L’ottimismo è il profumo della vita diceva Tonino Guerra, parafrasando Gianfranco Giannini, suo amico di Pennabilli, in uno spot di qualche anno fa. E per questi quattro musicisti maliani è proprio questo il senso del nuovo lavoro curato dal chitarrista e producer Matt Sweeney per la Fat Possum. La loro storia è esemplare: tre, Aliou Touré, Garba Touré e Oumar Touré, provengono dal Nord del Paese. A causa della guerra civile e del regime islamico che si era instaurato, sono stati costretti all’esilio, a Bamako, Sud del Mali, dove hanno conosciuto il batterista Nathanael Dembele. Sono stati notati da Damon Albarn (frontman dei Blur, e nei Gorillaz), Julian Casablancas dei The Strokes e da Nick Zinner degli Yeah Yeah Yeahs, che ha prodotto il loro primo album, Music In Exile (2015), al quale è seguito Résistance (2016), che ha avuto la partecipazione di Iggy Pop nel brano Sahara. Ascoltate Badala, il brano che apre il disco e poi ne parliamo!

18 – Letter To YouBruce Springsteen (uscito il 23 ottobre)
Camminare e perdersi tra i ricordi è stata una delle prerogative di questo 2020. Lo ha fatto, con un album ben costruito, toccante e coinvolgente al punto giusto, quel gran cantastorie rock che è Bruce Springsteen con Letter To You. Di lui, dell’album e del docufilm che porta lo stesso titolo ne ho parlato a lungo in questo post. Cosa resta da dire di un uomo che a 71 anni decide di guardarsi indietro, con nostalgia, certo, ma con tutta la saggezza e il senso di ringraziamento per una vita che gli ha fatto incontrare veri amici, colleghi, musicisti, persone straordinarie con cui ha condiviso praticamente tutta la sua esistenza? Un album istruttivo, malinconico nel ricordo di chi non c’è più, ma consapevole che il tempo non passa mai invano e che alla fine ciò che ti resta, il tuo lascito, è cosa sei stato e come hai visto il mondo intorno a te. ‘Neath a crown of mongrel trees /I pulled that bothersome thread/Got down on my knees/Grabbed my pen and bowed my head/Tried to summon all that my heart finds true/And send it in my letter to you (da Letter To You).

19 – Hey ClockfaceElvis Costello (uscito il 30 ottobre)
E siamo arrivati al cambiamento. Nel lungo tour di questi 20 album (più uno) sembra fatto apposta per il momento attuale che stiamo vivendo. Costello, gran musicista e vecchia volpe della musica, pubblica un album che eclettico è dir poco. È nel suo stile, questa volta però ha osato in modo provocante ed eccentrico saltare da un genere all’altro, a dimostrazione che può farlo solo chi la musica la conosce (e la suona) per davvero. Registrato una parte in solitaria in piena pandemia nello studio Suomenlinnan di Helsinki e, quindi, a Parigi con un quintetto jazz costituito per l’occasione, ha partorito 14 canzoni, ognuna un mondo a sé, che parlano di tutto quello che siamo e siamo stati. A partire da Revolution #49, primo brano (parlato) con un attacco “magico” alla Dhafer Youssef: «Love is the one thing we can save», dice con voce scura e ben scandita. Da qui in poi è un crescendo. In No flag sembra un punk che tira le somme del suo credo: «I’ve got no religion, I’ve got no philosophy, I’ve got a head full of ideas and words that don’t seem to belong to me». E così andando. C’è anche del swing, omaggio a Fats Waller, pianista famoso (e corposo) in attività negli anni Trenta, noto per le sue espressioni facciali e per quegli occhi che roteava come un posseduto (Hey Clockface/How Can You Face Me). Cambiare non solo si può, ma si deve…

20 – Idiot PrayerNick Cave – Alone at Alexandra Palace (uscito il 20 novembre)
È un docufilm trasmesso in steaming a pagamento in luglio (doveva essere nelle sale in Italia dal 16 al 18 novembre, ma il lockdown che ha messo il lucchetto anche ai cinema i e ai teatri ha fatto saltare il tutto) e un disco uscito in Italia a novembre. In questo mese sembrava d’essere ripiombati a marzo: la seconda ondata di contagi era un fiume in piena. Come lo sono le canzoni registrate dal magico musicista australiano nel vittoriano Alexandra Palace di Londra a giugno, nelle fasi finali del lockdown inglese. Radio 3 della Rai ha trasmesso l’intero concerto nella notte tra domenica 8 novembre e lunedì 9 in collaborazione con EBU (European Broadcasting Union). All’Ally Pally, da solo senza i sui Bad Seeds, Cave ha voluto dar vita a quello che è un suo progetto, al di là del momento storico, cercare l’intima essenza del suo lungo percorso artistico e personale, soprattutto dopo la morte del figlio Arthur nel 2015, destrutturando 22 suoi brani, riducendoli all’osso: la sua voce baritonale e un pianoforte. La magia di questo lavoro sta propio in questo momento di estrema intimità dell’artista che cerca di tessere un filo, sottile ma solido, della sua vita, in modo da non perdere l’essenziale, che poi è quello che conta, senza sovrastrutture né make up. Ed ecco, dunque, Papa Won’t Leave You, Henry (1992) qui nella versione originale con i Bad Seeds e qui in quella “alone”. Lo stesso dicasi per Galleon Ship, qui e qui: solo due esempi del lavoro di questo straordinario artista. Arie novembrine che mi hanno fatto riflettere…

E siamo arrivati al “più uno”. Si tratta di un disco uscito il 4 dicembre per la prestigiosa etichetta Deutsche Grammophon. Un disco piuttosto particolare, di musica classica contemporanea, di non facile ascolto, ma in qualche modo catartico. Sto parlando di L.I.T.A.N.I.E.S del belga Nicholas Lens. Una piccola opera da camera il cui libretto è stato scritto da Nick Cave, sì ancora lui! Opera minimalista, essenziale, frutto, anche questa, del lockdown. Lens l’ha eseguita con 11 musicisti che, a turno, sono andati a casa sua per registrare i singoli “interventi”. Nel comporla ha voluto rappresentare la pace – che ha anche un senso di cupa bellezza e dolcezza – che lui stesso ha avvertito nei templi Zen giapponesi, durante un viaggio nel Sol Levante. Suono minimal, testi altrettanto “ossuti”. Vere e proprie litanie «Where are you? Become yourself so I can see you» sussurra Clara-Lane, moglie di Lens, coinvolta nel lavoro perché in quarantena, nella prima litania, Litany of Divine Absence. E così, una per una, come in un rosario, scivolano le 12 litanie, tra archi, accenni di pianoforte, qualche fiato, e qualche intervento canoro dello stesso Cave come in Litany of Gathering Up. Disco per me preparatorio alla fine di questo 2020. Una sorta di cammino meditativo e di purificazione.

Breaknotes/ Boris Johnson in ospedale con il virus

L’aveva sottovalutato, come del resto tanti tra di noi, increduli che potesse arrivare una tegola così forte in testa a tutti, senza distinzioni di ceto, censo, razza, religione. E così, dopo aver stretto le mani a persone contagiate dal virus, a dimostrazione che si è più forti di quella maledetta bestiolina (pure bellina a vedersi al microscopio), aver annunciato che gli inglesi dovevano prepararsi a una selezione della specie, dichiarazione darwiniana un po’ eccessiva – i più forti resistono, gli altri se ne andranno nel mondo dei più, il che produrrà per il popolo britannico l’immunità del gregge – Boris Jonhson, rinchiuso al 10 di Downing Street in quarantena da una decina di giorni, con una febbre alta che non lo lasciava e una fastidiosa tosse, la scorsa notte è finito all’ospedale. A BoJo, prime minister con una carriera giornalistica e politica trastullante, o se preferite, shambolic (casinista), come l’ha definita il quotidiano The Guardian, insomma uno che se si fosse applicato nella musica sarebbe stato, grazie alla capigliatura e alla faccia tosta, molto rock con escursioni persino nel punk più dissennato, deve fare i conti con la pandemia e soprattutto con se stesso.

Quello che Joe Jackson cantava in I’m The Man:

I’m the man
I’m the man that gave you the hula hoop
I’m the man
I’m the man that gave you the yo-yo

Sono l’uomo
Sono l’uomo che ti ha dato l’hula-hoop
Sono l’uomo
Sono l’uomo che ti ha dato lo yo-yo

E qui arriva la possibile risposta punk a BoJo dai Sex Pistols, dal loro primo e ufficiale album di studio Never Mind the Bollocks, Here’s the Sex Pistols, in Problems

To people like me there is no order
Bet you thought you had it all worked out
Bet you thought you knew what I was about
Bet you thought you solved all your problems
But you are the problem

Per le persone come me non c’è ordine
Scommetto che pensavi di aver risolto tutto
Scommetto che pensavi di sapere di cosa stessi parlando
Scommetto che pensavi di aver risolto i tuoi problemi
Ma tu sei il problema… (possibili riferimenti al covid19?)

Nel momento in cui l’eterna Queen Elisabeth II faceva il suo discorso perfetto con i tempi e le reazioni regali di una donna ultragenerazionale, quattro limpidi minuti alla nazione, cercando di rasserenare e incoraggiare i suoi sudditi, BoJo è costretto a mostrare sempre alla nazione che comportarsi da cocky, impertinente, non paga. Il virus non guarda in faccia nessuno, dicevamo prima. Insomma, il tempo di Sex & Drugs & Rock’n’Roll per cantarla alla Ian Dury, per il primo ministro è davvero finito.

Metterà la testa a posto “The number one”? Sarà meno “rebel” nel suo conformismo British, e deciderà, magari, di sperare per i suoi connazionali un What a Wonderful World, per dirla alla Louis Armstrong, magari nella insolita e “personale” versione che proprio stamattina il mio amico Fabio mi regalava su whatapp, dell’australiano post punk Nick Cave con il frontman sdentato e pure un po’ alticcio dei The Pogues, Shane McGowan (video caricato dall’immenso Cave).

Johnson ha toccato, introiettato nel profondo, primo leader nel mondo, il virus malefico. D’altronde, anche Morrissey, altro artista inglese, ex frontman dei The Smiths, amato e odiato dai suoi stessi fan, uomo che non ha mai preso una posizione decisa, nella sua musicale scontrosità, canta nell’album che ha appena pubblicato (I am not a dog on a chain, disco niente affatto male…), scandendo chiaramente le parole I am not a dog on a chain:

 

I am not a dog on a chain, I use my own brain
I do not read newspapers, they are troublemakers
Listen out for what’s not shown to you and there you find the truth
For in a civilized and careful way they’ll sculpture all your views
So open up your nervous mouth and feel the words come streaming out

Non sono un cane legato a una catena, uso il mio cervello
Non leggo i giornali, sono i piantagrane
Ascolta ciò che non ti viene mostrato e lì trovi la verità
Perché in modo civile e attento scolpiranno tutte le tue opinioni
Quindi apri la bocca nervosa e senti che le parole escono fluenti

Per chiudere questo commento canoro alla malattia di Boris Johnson, non posso tralasciare un altro poeta del punk, Joe Strummer dei Clash, con una delle sue massime riportate da Stefano Gilardino nella sua interessante e completa La Storia del Punk (Hoepli editore, 2017): «Non scrivete slogan, scrivete la verità…».