Pasquetta, alla ricerca del nostro personale paesaggio sonoro

Pasquetta, le previsioni danno più o meno bello in tutta Italia. Il giorno della tradizionale gita fuoriporta, dei pranzi al sacco o nelle trattorie caratteristiche, delle compagnie in movimento. E vabbè, lo sappiamo, non si può fare. Per fortuna, non dimentichiamolo, siamo dotati di una mente che ci permette di fare praticamente tutto quello che vogliamo. Quindi, oggi, impegniamoci a usare la testa in modo creativo. D’altronde c’è gente che lo fa per lavoro, vivendo mille mondi diversi, sognando alchimie che poi diventeranno opere d’arte, un libro, un quadro, una musica. E poiché di questo scrivo, voglio invitarvi a fare un gioco, seduti comodamente nelle  poltrone delle vostre case, o sul divano in terrazzo o, semplicemente, affacciati alla finestra. Guardare, pensare, giocare con ciò che vediamo, immaginando la giusta colonna sonora. Ok, prima di lasciarci andare con la fantasia, vi indirizzo verso dei professionisti dei “Paesaggi Sonori”. Già, “Paesaggi Sonori”. Esistono, c’è una corrente musicale che li sta percorrendo da anni, e che ci sta mettendo tutto l’impegno e la creatività necessarie. Oggi, lunedì di Pasquetta, ci inventeremo anche noi il nostro “paesaggio sonoro” e ce lo porteremo nel cuore come una delle gita più belle che abbiamo fatto nella nostra vita.

Prima, dunque, qualche spunto. Tra i maestri di questo genere, possiamo annoverare Christophe Chassol, nato in Martinica, Caraibi, a Fort-de-France, nel 1976. È il fondatore di una corrente musicale che ha chiamato Ultra-Scores, una sorta di composizioni estreme dove Chassol, guardando una scena, anche banale, come delle bimbe che giocano a battimani in un parco, “costruisce” una melodia che si integra perfettamente con quello che sta vedendo. Faccio prima a mostrarvelo. Dall’ultimo album, Ludi, evidentemente riferito ai giochi, uscito il 6 marzo scorso, ascoltate Savana, Céline, Aya. Il titolo porta il nome delle tre ragazzine che, chiamandosi a ruota, giocano a battimani, creando già di per sé, un ritmo. Attorno a questo, Christophe ha costruito una melodia. Sempre dal suo ultimo lavoro, un lungo album particolarmente entusiasta, brillante la sua esperienza sulle montagne russe, che ha trasformato in una sarabanda musicale perfetta dal titolo Rollercoaster. Il brano è diviso, come il precedente, in due parti: Chistophe riesce a far diventare un giro sulle montagne russe una incredibile esperienza. Ti sembra di essere seduto accanto a lui, di condividere l’ansia e la gioia, il divertimento e la paura…

Oltre al compositore caraibico, stando sempre sul “battimani” ho scovato questo brano di Steve Reich, uno dei maggiori compositori contemporanei, 83 anni, newyorkese, assieme a Colin Currie, 43 anni, percussionista scozzese che ha fondato addirittura un gruppo, The Colin Currie Group, per eseguire le musiche composte da Reich. In questo brano, chiamato Clapping Music, tratto da un concerto registrato alla Fondation Louis Vuitton di Parigi, divenuto un disco pubblicato il 12 aprile 2019, Steve, Colin, il suo gruppo e le Sinergy Vocals tengono un concerto dove la musica è una solida e possibile colonna sonora di nostri pensieri e immagini. Qui, il loro Clapping Music, accennato in una breve presentazione.

Assieme a questi artisti non posso non citarvi anche un altro grande sognatore, un paesaggista della musica. Viene dal Brasile come il grande architetto paesaggista Roberto Burle Marx, quello che ha contribuito a disegnare il verde di Brasília per esaltare le architetture di Oscar Niemeyer. Lui, Hermeto Pascoal, 83 anni, alagoano, è invece l’architetto delle note e dei sogni. Nato in mezzo alla natura, l’ha osservata fin da piccolo, inventandosi musica con tutto quello che trovava. Dal piccolo villaggio del Nordeste brasiliano dove ha passato l’infanzia, a oggi, Hermeto è diventato uno dei musicisti di maggior spessore sia nel suo Paese che all’estero (negli Stati Uniti è considerato un mito). Polistrumentista, gioca con le note e il ritmo per creare immagini, percorsi sonori, strade d’avventura senza una destinazione, spunti, piccole storie immaginifiche, come Musica Das Nuvens e do Chão, un suo cavallo di battaglia (musica delle nuvole e della terra), qui dal disco The Monash Session del 2013, registrata con il percussionista Jordan Murray e il chitarrista Dan Mamrot. Oppure Arrasta Pé Alagoano, brano tratto dall’album Cérebro Magnético del 1980.

E veniamo a noi. Siete pronti? Oggi, lunedì di Pasquetta, giornata delle gite fuoriporta, viaggeremo attraverso la musica. Scegliamo il nostro “panorama”, la nostra “ambientazione”, e poi, con calma, andiamo sulle nostre app di streaming musicale, curiosiamo tra i nostri cd e i vecchi vinili quale melodia, album, artista, potrebbe essere la giusta colonna sonora per noi. Divertitevi e lasciate che la musica vi illumini queste ore…

Breaknotes/ Boris Johnson in ospedale con il virus

L’aveva sottovalutato, come del resto tanti tra di noi, increduli che potesse arrivare una tegola così forte in testa a tutti, senza distinzioni di ceto, censo, razza, religione. E così, dopo aver stretto le mani a persone contagiate dal virus, a dimostrazione che si è più forti di quella maledetta bestiolina (pure bellina a vedersi al microscopio), aver annunciato che gli inglesi dovevano prepararsi a una selezione della specie, dichiarazione darwiniana un po’ eccessiva – i più forti resistono, gli altri se ne andranno nel mondo dei più, il che produrrà per il popolo britannico l’immunità del gregge – Boris Jonhson, rinchiuso al 10 di Downing Street in quarantena da una decina di giorni, con una febbre alta che non lo lasciava e una fastidiosa tosse, la scorsa notte è finito all’ospedale. A BoJo, prime minister con una carriera giornalistica e politica trastullante, o se preferite, shambolic (casinista), come l’ha definita il quotidiano The Guardian, insomma uno che se si fosse applicato nella musica sarebbe stato, grazie alla capigliatura e alla faccia tosta, molto rock con escursioni persino nel punk più dissennato, deve fare i conti con la pandemia e soprattutto con se stesso.

Quello che Joe Jackson cantava in I’m The Man:

I’m the man
I’m the man that gave you the hula hoop
I’m the man
I’m the man that gave you the yo-yo

Sono l’uomo
Sono l’uomo che ti ha dato l’hula-hoop
Sono l’uomo
Sono l’uomo che ti ha dato lo yo-yo

E qui arriva la possibile risposta punk a BoJo dai Sex Pistols, dal loro primo e ufficiale album di studio Never Mind the Bollocks, Here’s the Sex Pistols, in Problems

To people like me there is no order
Bet you thought you had it all worked out
Bet you thought you knew what I was about
Bet you thought you solved all your problems
But you are the problem

Per le persone come me non c’è ordine
Scommetto che pensavi di aver risolto tutto
Scommetto che pensavi di sapere di cosa stessi parlando
Scommetto che pensavi di aver risolto i tuoi problemi
Ma tu sei il problema… (possibili riferimenti al covid19?)

Nel momento in cui l’eterna Queen Elisabeth II faceva il suo discorso perfetto con i tempi e le reazioni regali di una donna ultragenerazionale, quattro limpidi minuti alla nazione, cercando di rasserenare e incoraggiare i suoi sudditi, BoJo è costretto a mostrare sempre alla nazione che comportarsi da cocky, impertinente, non paga. Il virus non guarda in faccia nessuno, dicevamo prima. Insomma, il tempo di Sex & Drugs & Rock’n’Roll per cantarla alla Ian Dury, per il primo ministro è davvero finito.

Metterà la testa a posto “The number one”? Sarà meno “rebel” nel suo conformismo British, e deciderà, magari, di sperare per i suoi connazionali un What a Wonderful World, per dirla alla Louis Armstrong, magari nella insolita e “personale” versione che proprio stamattina il mio amico Fabio mi regalava su whatapp, dell’australiano post punk Nick Cave con il frontman sdentato e pure un po’ alticcio dei The Pogues, Shane McGowan (video caricato dall’immenso Cave).

Johnson ha toccato, introiettato nel profondo, primo leader nel mondo, il virus malefico. D’altronde, anche Morrissey, altro artista inglese, ex frontman dei The Smiths, amato e odiato dai suoi stessi fan, uomo che non ha mai preso una posizione decisa, nella sua musicale scontrosità, canta nell’album che ha appena pubblicato (I am not a dog on a chain, disco niente affatto male…), scandendo chiaramente le parole I am not a dog on a chain:

 

I am not a dog on a chain, I use my own brain
I do not read newspapers, they are troublemakers
Listen out for what’s not shown to you and there you find the truth
For in a civilized and careful way they’ll sculpture all your views
So open up your nervous mouth and feel the words come streaming out

Non sono un cane legato a una catena, uso il mio cervello
Non leggo i giornali, sono i piantagrane
Ascolta ciò che non ti viene mostrato e lì trovi la verità
Perché in modo civile e attento scolpiranno tutte le tue opinioni
Quindi apri la bocca nervosa e senti che le parole escono fluenti

Per chiudere questo commento canoro alla malattia di Boris Johnson, non posso tralasciare un altro poeta del punk, Joe Strummer dei Clash, con una delle sue massime riportate da Stefano Gilardino nella sua interessante e completa La Storia del Punk (Hoepli editore, 2017): «Non scrivete slogan, scrivete la verità…».

Breaknotes/ E arriva Bob Dylan e la sua Murder Most Foul…

L’ultima novità che davvero si può definire tale del fine settimana appena trascorso proviene da un signore di 78 anni (il prossimo 24 maggio vedrà 79 primavere). Lui si chiama Bob Dylan, la canzone, Murder Most Foul. Nell’epoca dello speed reading, dello speed listening, dove meno parole e concetti sono più efficaci all’attenzione disattenta del nostro mordi e fuggi quotidiano, l’eterno menestrello del Minnesota ha deciso di far uscire – dopo un lungo periodo di raccolte e ripubblicazioni, l’ultimo disco in studio risale al 2012, ed è Tempest – un brano nuovo, original 100%, della durata di quasi 17 minuti. Una canzone che prende spunto da una frase shakespeariana, citata dal fantasma del re, padre, che appare ad Amleto per convincerlo del suo assassinio: «The Murder Most Foul, as in the best it is. But this most foul, strange and unnatural» – una morte disgustosa nel migliore dei casi, ma non solo, anche strana e innaturale.

E, come successo ad Amleto, anche Dylan inizia a dipanare una lunga matassa di fatti, citazioni divagazioni, litanie per la sua Murder Most Foul, (iniziate ad ascoltarla mentre leggete queste righe) quella del presidente americano John Fitzgerald Kennedy, ucciso a Dallas il 22 novembre del 1963. Non ho capito perché proprio ora, in piena pandemia da coronavirus, non ho capito perché il saggio ed epico artista abbia sentito la necessità di fare questa lunga, appassionata digressione alla sua maniera su una pagina tremenda per gli Stati Uniti. Sembra un regalo ai suoi milioni di fan, ma anche un avvertimento. Sul suo sito ufficiale scrive poche righe di “presentazione” al suo nuovo brano: 

«Greetings to my fans and followers with gratitude for all you support and loyalty across the years. This in an unreleased song we recorded awhile back that you might find interesting. Stay safe, stay observant and may God be with you»

Ci si può ricamare quello che si vuole, un inizio di addio, un inizio di qualcos’altro, magari un disco, o un passo necessario, arrivato alla sua età, per tentare di rimettere a posto il suo mondo secondo il suo credo. Comunque la si pensi, una volta messe le cuffie e sentito il profondo vibrato di un violoncello al quale si unisce il pianoforte e una sessione ritmica ridotta all’osso ma magicamente potente in un crescendo inesorabile, si rimane come ipnotizzati, come una delle sacre canzoni di Leonard Cohen o una di quelle cavalcate psichedeliche dei Genesis in grande spolvero.

Mano a mano che la trama si srotola partendo da quella morte “orribile”, ecco che si ape la sua America, quella che lui ha cantato e continua a cantare, acque apparentemente tranquille che improvvisamente si agitano, vorticano, creando dei mulinelli, archi che solcano le corde, tasti che pizzicano corde e corde le più profonde, che vibrano roche ed emozionali, sapienti chiaroscuri ammalianti che avvolgono il menestrello nella sua voce graffiante come il metallo del Minnesota, e negli intricati percorsi, epici viste anche le citazioni omeriche, di questi quasi 60 anni di storia americana. La voce assume quei toni gravi frutto degli anni, l’età glielo chiede e lui se lo impone. In questa lunga digressione di riferimenti (i suoi o quelli universalmente americani) inizia una lunga litania di autori, musicisti, poeti. Dylan ci indica così una colonna sonora di quasi un’ottantina di brani, e noi lì, col rosario in mano a sgranare e a ripetere a voce bassa i nomi, John Lee Hooker, Thelonius Monk, Charlie Parker, Nat King Cole…

Andrea Cossu, professore associato di Sociologia all’Università di Trento, e grande esperto dylaniano, nella sua bellissima e lunghissima recensione al brano pubblicata su gdm scrive: «Poche righe e Dylan ci porta in un viaggio (come Omero, come l’Odissea) in un terreno via via caratterizzato solo da note sparse, da versi che possono stare in un blues di Charlie Patton, in un falsetto di Clarence Ashley, in cui il mistero si fa via via più fitto e per questi motivi illuminante. Poche righe e “oggi è un buon giorno per morire”, nativi americani e Piccolo grande uomo. Poche righe e arrivano momenti cruenti che si possono cantare con la stessa musica di “Pay in Blood”, sempre da Tempest. Una serie di immagini che starebbero bene in “Narrow Way” dello stesso Dylan, o in “Killing Floor” di Howling Wolf. Perché “Murder Most Foul” è una broadside ballad ma anche un blues bastardo, e forse è anche un gospel, l’unica cosa possibile dopo il giorno del giudizio, quelle “36 hours past judgement day” che operano una cesura nella canzone…».

Ed eccoci dunque alla fine di questa inaspettata ventata firmata Bob Dylan. Una musica da quarantena? Può darsi. Una musica che fa riflettere, a prescindere, che ti aiuta, chiuso nel tuo studiolo di casa, o seduto sul divano a guardare il mondo là fuori che sembra passi tutto uguale, tutti seduti nelle nostre personali panchine solitarie. Un’opportunità per guardarci dentro, per essere schietti con noi stessi, su cosa siamo oggi e sui nostri piccoli Murder Most Foul che riponiamo dentro di noi senza avere il coraggio di gridarli al vento… Passerà, passerà, grazie anche a lui e alla musica.

Breaknotes/ Coronavirus, non ci resta che… il Jailhouse rock!

Come recita il primo comma dell’art. 3 del Decreto della Presidenza del Consiglio sulle nuove Misure di contenimento del contagio per la Regione Lombardia e per le 14 province di Veneto, Emilia Romagna e Piemonte, firmato nella notte tra sabato e domenica dal premier Conte e dal ministro della Sanità Speranza, «Le disposizioni del presente decreto producono effetto dalla data dell’8 marzo 2020, e sono efficaci, salvo diverse previsioni contenute nelle singole misure, sino al 3 aprile 2020».

Dunque, siamo agli “arresti regionali”, almeno noi in Lombardia. Per il nostro bene s’intenda! E nessuno osi dire il contrario. Il coronavirus, nel terribile gioco a scacchi che si sta disputando da alcuni giorni  – che sembrano secoli – ha ipotecato seriamente il Re avversario. Dobbiamo farcela, si sente ripetere da tutte le parti. Mancano strutture e mezzi, fanno notare dal personale sanitario… Non so se si è capito, ma siamo in un momento estremamente difficile, delicato per la salute fisica e mentale di tutti noi e per l’economia del nostro Paese. C’è di che non stare tranquilli, nonostante le assicurazioni ripetute a mantra…

A questo punto che fare? A casa, col telelavoro i più fortunati, in ferie forzate gli altri, a letto i disoccupati che non possono nemmeno cercar lavoro, scuole chiuse, musei chiusi, biblioteche chiuse, stadi chiusi, cinema chiusi, centri commerciali chiusi (nel fine settimana), bar chiusi dalle 18…ahi, i milanesi senza happy hour! Dunque, oggi, lunedì 9 marzo, non ci resta che far azionare l’ironia. Vivere nel terrore non è producente. Vivere come talpe nemmeno. M’è venuto in mente il vecchio film con protagonista un giovane  e danzerino Elvis Presley, Jailhouse Rock. La pellicola, che all’inizio doveva intitolarsi Ghost of a Chance porta il nome di uno dei brani rock’n’roll più fortunati del mitico Elvis The Pelvis, il quale si esibisce in uno dei primi esempi di lap dance al maschile della storia. Canzone ripresa e interpretata da molti artisti negli anni, dai Queen ai ZZ Top, dai Mötley Crüe alla stravagante band dei The Blues Brothers (altro film cult), fino al nostro Adriano Celentano, con sassofono ben inciso, più morbido per palati italici, a stemperare una scatenata saga rock’n’roll. Insomma, Jailhouse Rock, dopo 63 anni è ancora la colonna sonora per un altro evento (questa volta drammatico e reale).

Cari residenti delle zone arancioni, o rosse, comunque chiuse, non ci resta che scatenarci sulle note del rutilante brano. Potete scegliere qui quattro versioni, quella originale di Elvis, quella dei Queen (era uno dei cavalli di battaglia della band in live, in questo caso a Montreal nel 1981), l’altra dei ZZ Top, più hard/blues e l’ultima, quella più iconica, scatenata, straordinaria dal film The Blues Brothers con John Belushi e Dan Aykroyd per la regia di John Landis, del 1980. Una pellicola che ha fatto la storia di certo cinema da vedere e rivedere per tirarsi su il morale (dai su, tanto di tempo ne abbiamo…). Qui sotto, il testo originale per cantare a squarciagola… Buona reclusione a tutti.

The warden threw a party in the county jail.
The prison band was there and they began to wail.
The band was jumpin’ and the joint began to swing.
You should’ve heard those knocked out jailbirds sing.
Let’s rock, everybody, let’s rock.
Everybody in the whole cell block
was dancin’ to the Jailhouse Rock.
Spider Murphy played the tenor saxophone,
Little Joe was blowin’ on the slide trombone.
The drummer boy from Illinois went crash, boom, bang,
the whole rhythm section was the Purple Gang.
Let’s rock, everybody, let’s rock.
Everybody in the whole cell block
was dancin’ to the Jailhouse Rock.
Number forty-seven said to number three
“You’re the cutest jailbird I ever did see.
I sure would be delighted with your company,
come on and do the Jailhouse Rock with me.”
Let’s rock, everybody, let’s rock.
Everybody in the whole cell block
was dancin’ to the Jailhouse Rock.
The sad sack was a sittin’ on a block of stone
way over in the corner weepin’ all alone.
The warden said, “Hey, buddy, don’t you be no square.
If you can’t find a partner use a wooden chair.”
Let’s rock, everybody, let’s rock.
Everybody in the whole cell block
was dancin’ to the Jailhouse Rock.
Shifty Henry said to Bugs, “For Heaven’s sake,
no one’s lookin’, now’s our chance to make a break.”
Bugsy turned to Shifty and he said, “Nix nix,
I wanna stick around a while and get my kicks.”
Let’s rock, everybody, let’s rock.
Everybody in the whole cell block
was dancin’ to the Jailhouse Rock.

Pensieri in musica/ Virus, panico e futuro: rivoglio indietro Milano!

«Posso sentire il battito del tuo cuore, sei spaventato, sì, sì». Quando il rapper 50 Cent, al secolo Curtis James Jackson III, scrisse Psycho, brano tratto dall’album Before I self destruct (2009), cantandolo con Eminem, raccontava in modo crudo e trucido una storia di violenza («mi vedi, sono uno psicopatico, un fuori di testa, un pazzo»). Ripensavo a quei versi in metropolitana, ieri. Milano praticamente deserta, in trincea, incellofanata. Metropolitana da “crime”, poca gente, molti con le mascherine (servissero a qualcosa…), evitare contatto fisico ma anche visivo sembrava la preoccupazione maggiore. Solo che a rappare su quei beat oggi c’è MC CoronaV, al secolo Covid19, un “vairus” per dirla con il nostro Ministro degli Esteri, cattivo, pericoloso, subdolo. Uno psicopatico, un fuori di testa, un pazzo, appunto. Ok. Ma non più psico, pazzo e fuori di testa di qualsiasi altro virus “serio” … Seduto alla fermata di Moscova in attesa del mio treno riflettevo sulla carica di ansia e terrore montata nel nostro Paese in pochi giorni. Il Coronavirus, o meglio, la paura del Coronavirus, sta paralizzando anche Milano, città dagli anticorpi robusti, di gente abituata a essere realista, con i piedi per terra, a pensare prima di agire. Salvo sparute eccezioni, siamo andati in cortocircuito. Tutti siamo concentrati sul virus, accendi la tivù e c’è lui, apri un giornale, ed eccolo lì, bellino che sembra un fiore tropicale, sullo smartphone ti arrivano in tempo reale i bollettini: contagiati, morti, guariti. Quanto potremo durare così? Björk nella sua Virus (dall’album Biophilia del 2011) canta: «Busso alla tua pelle e sono dentro. Il match perfetto, io e te. Mi adatto, contagioso. Tu ti apri, mi dai il benvenuto, come una fiamma che cerca l’esplosivo, come la polvere da sparo ha bisogno di una guerra. Ti banchetto dentro, il mio ospite sei tu…».

La paura d’essere “banchettati” c’è ovviamente. Ma la voglia di vita normale, ancora di più. “Virus”, per chi ha vissuto gli anni Ottanta a Milano, era un animato e frequentato centro sociale, tempio del mondo punk nazionale e internazionale. Tempi che cambiano: ieri lo si cercava, oggi è lui a cercarti! Sempre rimanendo “in musica”, personalmente non ho nessuna intenzione di «Mangiare semi per ingannare il tempo» e assistere «alla tossicità della nostra città», per citare Serj Tankian e soci, dei System of a Down, in Toxicity. E nemmeno ridurmi a un prigioniero del Covid19: «La tua mente è solo un programma e io sono il virus. Cambierò il tuo status, aumenterò i tuoi limiti, ti trasformerò in un superdrone e tu ucciderai al mio comando e io non sarò il responsabile», gridano i Muse in Psycho, da Drones (2015). Appunto, non voglio diventare uno schiavo del piccolo, bastardo virus. Rivoglio la mia quotidianità, le quattrochiacchiere al bar, i volti di chi mi siede accanto sui mezzi pubblici, i concerti e le reunion… Altrimenti mi tocca dar ragione ad Anastasio, Rosso di Rabbia… «Panico panico, sto dando di matto. Qualcuno mi fermi. Fate presto per favore, per pietà».