Ascolti d’agosto: Brian May e il suo Back To The Light

Brian May, 74 anni, ha pubblicato il 6 agosto un corposo box set contente la ristampa di Back To The Light, album che uscì nell’aprile del 1992, cinque mesi dopo la scomparsa dell’amico e frontman dei Queen, Freddie Mercury. Quest’anno, il 24 novembre, saranno i trent’anni dalla morte del mitico performer.

May è un grandissimo nell’arte della chitarra, un ottimo compositore, una mente geniale (è un astrofisico), ma anche una persona fragile, portatore di un romanticismo che traspare dalle sue partiture orchestrali, iniziate con le sovraincisioni di assoli fatti con la sua Red Special, chitarra costruita assieme al padre ingegnere, tuttora la sua preferita. Una replica dello strumento – dopo le molte tentate durante gli anni – la si può acquistare dal sito commerciale di May. Lui stesso ha supervisionato la fattura della nuova “Old Lady”, come la chiama, molto verosimile all’originale e a un prezzo accessibile a tutti, tiene a precisare.

Ma veniamo al disco. Riascoltare la splendida Too Much Love Will Kill You, probabilmente la composizione più famosa di May, è sempre un bell’impatto. Il brano fu inserito nel 15esimo album dei Queen, uscito quattro anni dopo la morte di Mercury, il 7 novembre del 1995 dal titolo Made in Heaven. La voce di Freddie venne presa da una vecchia demo del 1988. Per inciso, quello fu un album fortunato. La versione di May è più “catartica”, intima. La ristampa ne contiene un’altra, solo strumentale, guitar version

Resurrection è potente (la incise con Cozy Powell alla batteria nel 1992) multistrati di assoli, chitarra imperiosa, un rock spettacolare e galoppante che non ti stanchi di ascoltare. Non annoia nemmeno Nothin’ but Blue, brano scritto la notte prima della morte di Mercury insieme al batterista Cozy Powell, con cui Brian ha avuto un legame di amicizia e proficuo lavoro fino alla sua scomparsa, avvenuta nel 1998 a causa di un incidente stradale. O ancora Driven by You, brano che viene eseguito in quattro diverse versioni, inclusa quella che May elaborò per la pubblicità della Ford. Godibile Rollin’ Over, brano del 1968 degli Small Faces, che suona come un divertissement, in chiusura del primo disco.

SI tratta di un album doppio, dove nella prima parte c’è Back To The Light original, mentre, nella seconda, varie revisioni dei brani presenti, dal titolo Out Of The Light, oltre a una serie di composizioni suonate dal vivo in concerti tenuti da May nel 1993. Ad esempio Tie Your Mother Down, eseguito con Slash al Live on the Tonight Show with Jay Leno, il 5 aprile, o We Will Rock You presentata nel Live at the Brixton Academy, del 15 giugno.

Un album da avere nella propria raccolta. Per gli amanti del genere a disposizione un box set (come scrivevo all’inizio) contente un LP in vinile bianco (sofisticatezza!), due Cd, un libro di 32 pagine, una stampa artistica da 12″…

In ricordo di Franco Battiato (e della sua arte)

Non amo scrivere i coccodrilli, ricordare artisti nel giorno della loro scomparsa. Ma un’eccezione per Franco Battiato è doverosa ed essenziale. Non per ricordare la vita dell’uomo e dell’artista, ma per pensare all’eredità artistica che il musicista siciliano ha lasciato.

Era il 1974, avevo 13 anni e muovevo i miei primi passi tra vinili, band e musica. Ricordo che nel negozio principale del mio paese, che vendeva un po’ di tutto, c’era anche un raccoglitore confuso, non catalogato in ordine alfabetico, pieno di vinili. Lì, c’era sempre un mondo che mi aspettava. Avevo puntato i Queen, Sheer Heart Attack, disco che conteneva Killer Queen, ma anche l’immaginifico Houses of The Holy, uscito l’anno prima, dei Led Zeppelin. Tra questi, Nicola Di Bari e Lucio Dalla c’erano anche tre copertine che avevano attirato l’attenzione mia e dei miei “colleghi” di scorribande musicali.

Pollution, Fetus e Sulle corde di Aries. Quella musica andava fuori dai canoni della mia primordiale conoscenza e gusto musicale. Ricordo di averli ascoltati e riascoltati, con amici un po’ più grandi di me che si piccavano di farmi capire il nuovo, la musica impegnata, la sperimentazione. Ammetto che le chitarre di May e Page erano più nelle mie corde invece dei synt, gli accenti di musica classica, il prog melodico che l’allora giovane Battiato proponeva, indicando la strada che avrebbe poi intrapreso nella sua lunga carriera.

Quegli LP li ho rivalutati dopo, crescendo, appassionandomi a quel mondo di musicisti che non seguivano il successo per il successo ma si arrampicavano lungo un sentiero tutto in salita, mettendosi sempre in gioco, credendo fermamente nella loro creatività. Accanto a lui c’è stato per anni il maestro Giusto Pio, che, da buon trevigiano, conoscevo come uno dei grandi personaggi della Marca. A Castelfranco Veneto, dove era nato (e dove morì nel 2017), tutti lo associavano a Franco Battiato. Per noi che abbiamo vissuto l’adolescenza in quell’angolo d’Italia, nei Settanta, e la gioventù, negli Ottanta, erano un punto di riferimento. Pio e Battiato erano la musica intelligente, la ricerca di qualcosa di nuovo in quegli anni dove tutto cambiava alla velocità della luce. Ricordo quando Battiato venne ai funerali dell’amico Pio nel Duomo di Castelfranco. Quel venerdì di febbraio, uno dei fili della mia giovinezza s’è spezzato.

L’inquietudine della ricerca dovrebbe essere per un artista un naturale istinto. Però, non appartiene a tutti, inclusi anche quelli più famosi. Chi ce l’ha, ha quella marcia in più, quell’osare con le note mondi fantastici, quel contaminarsi superando i generi: non più classica, jazz, pop, rock, worldmusic ma un’unico mondo dove tutto si mescola e convive, con gioia e sofferenza, allegria e tristezza. Questo per me è stato Franco Battiato, l’artista che era stato folgorato da Stockhausen. E anche dai dervisci, dalla musica araba e dalle nenie popolari…

Chiudo qui. Con il testo di una delle sue canzoni più intense, E ti vengo a cercare, dall’album Fisiognomica (1988):

E ti vengo a cercare
Anche solo per vederti o parlare
Perché ho bisogno della tua presenza
Per capire meglio la mia essenza.
Questo sentimento popolare
Nasce da meccaniche divine
Un rapimento mistico e sensuale
Mi imprigiona a te.

Dovrei cambiare l’oggetto dei miei desideri
Non accontentarmi di piccole gioie quotidiane
Fare come un eremita
Che rinuncia a sé.
E ti vengo a cercare
Con la scusa di doverti parlare
Perché mi piace ciò che pensi e che dici
Perché in te vedo le mie radici.

Questo secolo oramai alla fine
Saturo di parassiti senza dignità
Mi spinge solo ad essere migliore
Con più volontà.
Emanciparmi dall’incubo delle passioni
Cercare l’Uno al di sopra del Bene e del Male
Essere un’immagine divina
Di questa realtà.
E ti vengo a cercare
Perché sto bene con te
Perché ho bisogno della tua presenza.

Breaknotes/ Due compleanni e un necrologio…

Ci sono momenti in cui ricordare, nella felicità e nella tristezza, è un obbligo. E oggi è uno di quei momenti. Un capitolo tutto rock, dedicato a tre personaggi che hanno contribuito a creare quelle leggende, quella musica, quelle perfette imperfezioni che genericamente riassumiamo nella categoria “Rock”.

Ma qui c’entra anche il blues, la sperimentazione, l’estro, il carattere e sì, anche le malattie. Ieri, 25 luglio, nel tardo pomeriggio è arrivata la notizia di un addio: Peter Green (Greenbaum il suo vero cognome), mitica chitarra dei Bluesbreakers di John Mayall dopo che Eric Clapton aveva lasciato la band per fondare i Cream, se n’è andato nel sonno a 73 anni. Così ha dichiarato la sua famiglia. Con Mick Fleetwood, John McVie e Jeremy Spencer nel 1967 ha dato vita ai Fleetwood Mac, per lasciarli nel 1970. Lo stesso anno ha pubblicato il suo primo album da solista, The End of the Game, una cavalcata di blues psichedelico, musica d’avanguardia, molto ben confezionata (ascoltate Descending Scale per capirlo). Quindi scompare per quasi dieci anni durante i quali viene ricoverato per la sua schizofrenia e si sbarazza di tutto, persino della sua chitarra, donata a Gary Moore, altro asso del blues inglese.

Lo ha ricordato Cat Stevens/Yousuf in un tweet ieri: «God bless the ineffable Peter Green, one of the unsung heroes of musical integrity, innovation and spirit. When I heard he left Fleetwood Mac in 1970 to get a real life and donate his wealth to charity, he became something of a model for me».

A Rolling Stones Mick Fleetwood ha affidato un ricordo: “Per me e per ogni singolo membro che ha fatto parte dei Fleetwood Mac perdere Peter Green è “monumental”, un evento enorme». E ha continuato: «Nessuno è mai entrato nei Fleetwood Mac senza portare il rispetto dovuto a Peter Green e al suo talento».

Veniamo alle notizie più felici. Oggi 26 luglio, compiono gli anni due rockstar, entrambe determinanti nel loro ruolo per le rispettive band – e anche per la musica. Nel 1943 nasceva a Dartford nella contea di Kent, UK, Sir Michael Philip Jagger, per tutti Mick. Il frontman di una delle band più famose nella storia del rock compie 77 anni. E di questi, ben 57 li ha passati nei Rolling Stones, con le eccezioni delle esperienze soliste. Rolling Stone, il magazine di musica rock, maniaco di classifiche, lo ha posto nei primi venti più famosi cantanti rock di sempre, al 16esimo per essere esatti.

L’altra mitica rockstar a spegnere le candeline è Roger Taylor, classe 1949. Il batterista dei Queen festeggia i suoi 71 anni. Due figure per certi versi simili: maniacali nel loro modo di lavorare, creativi, il primo estremamente appariscente, sempre primadonna, il secondo ingranaggio perfetto nella sua band, complemento essenziale al servizio di uno dei gruppi più longevi e conosciuti al mondo.

Mi bastava ricordarli. Mi sono soffermato di più su Peter Green, lo meritava. Di Mick e Roger tutti sanno tutto, leggende incluse. Se ne avete voglia  – e a me è venuta – e non avete di meglio da fare in spiaggia o in montagna, andate sul vostro “hub” preferito ed ascoltatevi i tre monumenti del rock in azione. Una domenica all’insegna del rock, del blues e della psichedelia. Buon pomeriggio a tutti!

Interviste/ Paolo Alessandrini e la sua… “Matematica Rock”

Paolo Alessandrini, 49 anni, è l’autore di “Matematica Rock” – Foto Walter Criscuoli.

L’ho scoperto per caso, in una delle mie incursioni in libreria. E il titolo mi ha subito attirato: Matematica Rock. Il sottotitolo, Storie di musica e numeri dai Beatles ai Led Zeppelin, mi ha convinto all’acquisto. Per uno che di matematica non ha voluto mai capirne nulla, averlo tra le mani è stata una sfida. E confesso: fin dalle prime pagine mi ha catturato. Si sa, l’ignoto attira… Vabbè, non vorrei farvi credere che sono uno “zero assoluto” a far di conti, come si diceva un tempo, ma l’approccio ai temi promessi nel titolo è stato per me l’inizio di una gran bella avventura. Leggerlo, per chi è appassionato di rock e storie al limite dell’assurdo, è stato come divertirsi sulle pagine di un libro d’avventure, ricco di colpi di scena e spunti di riflessione. Al punto che ho preso il telefono e ho chiamato l’autore di questo “romanzo professionale” di 237 pagine pubblicato nel luglio dello scorso anno per Hoepli. Lui è Paolo Alessandrini, veronese, classe 1971, professore di matematica in un istituto professionale in provincia di Treviso e, nella precedente vita, ingegnere informatico di laurea e professione.

Come ti è venuta l’idea di scrivere un libro che parla di formule matematiche e musica?
«È nata tanti anni fa. Nel 2014 avevo scritto e pubblicato un breve e-book dal titolo La matematica dei Pink Floyd, perché avevo notato diversi punti di contatto curiosi, come la strana cover di Ummagumma (disco doppio dei Pink Floyd uscito nel 1969: un incastro di foto scattate nello stesso luogo poste una all’interno dell’altra, apparentemente identiche ma tutte diverse, ndr), il prisma di The Dark Side of The Moon, la canzone Chapter 24 (nona traccia del primo disco della band inglese, The Piper at the Gates of Dawn; Syd Barret nella scrittura si era ispirato al libro cinese dell’I Ching, ndr). Sono sempre stato uno molto curioso, così dai Pink Floyd mi sono allargato a molti altri gruppi o rockstar per scoprire legami tra matematica e questo genere di musica. Dischi, testi, immagini delle coeprtine, così è nato un libro particolare diviso in capitoli che sono le diverse branche della matematica, dall’aritmetica e algebra all’analisi».

Insomma, il rock è trasgressione, libertà vuoi dirmi che i grandi musicisti, da Elvis ai Genesis a Kate Bush ai Tool sono stati o continuano a essere anche delle profonde menti matematiche?
«No, affatto. Non vuol dire che Tony Banks, tastierista dei Genesis nel comporre Firth of Fifth abbia fatto un’operazione intenzionale  considerando i numeri di Fibonacci, probabilmente è stato un caso. Altri, invece, come Kate Bush che ha intitolato un brano Pi (il Pi greco), volevano dire sicuramente qualcosa. O ancora, i Queen in We Will Rock You con il famoso stomp-stomp-clap, brano in cui, per dare il massimo della potenza espressiva, Brian May s’è inventato in base a una sequenza di numeri primi un efficace effetto riverbero. Molti collegamenti matematici sono elaborazioni fatte a posteriori. Prendi, ad esempio, il lavoro che hanno fatto nel 2018 tre accademici americani, uniti dalla passione per i Beatles, sulle attribuzioni delle canzoni della band a Lennon o McCartney, uno dei grandi dilemmi del rock: affrontando il problema attraverso la matematica statistica, hanno concepito un algoritmo intelligente in grado di definire con una certa sicurezza chi tra i due artisti avesse realmente scritto, ad esempio, In my Life o The Word.

Dunque, il rock è spontaneo e la matematica una rigida disciplina?
«No per niente. Voglio pensare che il rock sia rivoluzionario, trasgressivo, libero, spontaneo. E  paradossalmente anche la matematica è così, nonostante sia considerata generalmente arida e rigida. Sapendola interpretare ed esplorare in maniera diversa, non convenzionale, è in realtà una disciplina molto libera, creativa, trasgressiva. Tornando alla musica, questa è profondamente matematica, se n’era accorto già Pitagora notando come i suoni piacevoli non nascessero in modo casuale. Le scale, le armonie, i ritmi hanno a che fare con la matematica, inconsciamente chi fa musica la percepisce. Leibniz diceva “fare musica è contare senza essere consci di contare”. Nel mio libro ho voluto analizzare un lato un po’ insolito della musica e della matematica».

Breve divagazione: suoni qualche strumento?
«Ahimé, sono la pecora nera della famiglia. Mio padre ha insegnato per anni al conservatorio di Verona armonia e contrappunto. Le mie due sorelle sono entrambe musiciste. Sono cresciuto in mezzo alla musica, è stata ed è il mio pane quotidiano, direi che il mio DNA musicale s’è sviluppato sotto forma di matematica. Canto in un coro polifonico a 4 voci, la Corale Ravel, sono un basso. Facciamo di tutto, dal gregoriano alla musica barocca a Mozart, passando per Ravel e anche per brani rock pop come Impressioni di Settembre della PFM  o Barbara Ann dei Beach Boys. Mi diverto molto».

Insegni matematica attraverso la musica?
«No, dai. Voglio solo dimostrare ai miei allievi che la matematica non è qualcosa di noioso e spesso incomprensibile che venuta giù dal cielo, cristallizzata per l’eternità. Come la musica, si evolve, cambia. Nella storia di questa disciplina ci sono state menti trasgressive che hanno dato nuovi impulsi e prospettive allo studio matematico. Prendi, ad esempio, i numeri immaginari inventati da un gruppo di matematici creativi nel Cinquecento: la radice quadrata di -1 non si può calcolare. Ma se una cosa non si può fare si può sempre trovare un modo per farla lo stesso…».

Nella storia non sono esistiti i matematici puri, questi erano filosofi, storici, teologi, giuristi e anche matematici…
«Esatto, oggi le discipline sono settoriali, non c’è solo il matematico, ma chi si occupa di specifiche sue aree, a differenza, per esempio, di Cartesio che era filosofo e grande appassionato di matematica; essendo ricco di famiglia, ha vissuto la sua vita studiando. Secondo me la matematica non è una vecchia disciplina ma un’arte. Fa parte della cultura di un popolo, come la musica, il cinema, la pittura. È una forma di espressione umana. Brian May, chitarrista dei Queen è un fisico, Johnny Buckland, il chitarrista dei Coldplay, è laureato in matematica…».

Paolo Alessandrini in una delle sue presentazioni-spettacolo assieme al chitarrista Stefano Zamuner e alla cantante Giorgia Pramparo

Torniamo al tuo libro, lo stai presentando in modo particolare…
«Avevo due strade. La prima, istituzionale, una classica esposizione con risposta a eventuali domande. Ma l’argomento del libro si presta particolarmente a una conferenza-spettacolo sulla materia, dove trovano posto la matematica e anche la musica. Sfruttando la collaborazione di un amico chitarrista, Stefano Zamuner, e della cantante Giorgia Pramparo abbiamo preparato quindi una presentazione che è anche uno spettacolo vero e proprio. L’abbiamo portato in molti luoghi, al Festival della Statistica di Treviso o a quello della Scienza a Genova, ma anche a Dolomiti in Scienza a Belluno. Per i lettori del libro ho preparato una playlist su Spotify, con tutti i brani citati in sequenza di capitoli».

Prima di chiudere, quali sono le tue passioni musciali?
«Chi mi conosce lo sa: sono un beatlesiano incallito. Da sempre. Sono stato fortunato: qualche anno fa credevo che i Fab Four non avessero spunti matematici, invece ne hanno, eccome! Mi piace il rock progressivo, ascolto i Radiohead. Ma non solo: amo immensamente anche molta parte della musica classica e del jazz. Sono uno curioso, te l’ho detto, cerco di cogliere il meglio da tutta la musica!».

Breaknotes/ Coronavirus, non ci resta che… il Jailhouse rock!

Come recita il primo comma dell’art. 3 del Decreto della Presidenza del Consiglio sulle nuove Misure di contenimento del contagio per la Regione Lombardia e per le 14 province di Veneto, Emilia Romagna e Piemonte, firmato nella notte tra sabato e domenica dal premier Conte e dal ministro della Sanità Speranza, «Le disposizioni del presente decreto producono effetto dalla data dell’8 marzo 2020, e sono efficaci, salvo diverse previsioni contenute nelle singole misure, sino al 3 aprile 2020».

Dunque, siamo agli “arresti regionali”, almeno noi in Lombardia. Per il nostro bene s’intenda! E nessuno osi dire il contrario. Il coronavirus, nel terribile gioco a scacchi che si sta disputando da alcuni giorni  – che sembrano secoli – ha ipotecato seriamente il Re avversario. Dobbiamo farcela, si sente ripetere da tutte le parti. Mancano strutture e mezzi, fanno notare dal personale sanitario… Non so se si è capito, ma siamo in un momento estremamente difficile, delicato per la salute fisica e mentale di tutti noi e per l’economia del nostro Paese. C’è di che non stare tranquilli, nonostante le assicurazioni ripetute a mantra…

A questo punto che fare? A casa, col telelavoro i più fortunati, in ferie forzate gli altri, a letto i disoccupati che non possono nemmeno cercar lavoro, scuole chiuse, musei chiusi, biblioteche chiuse, stadi chiusi, cinema chiusi, centri commerciali chiusi (nel fine settimana), bar chiusi dalle 18…ahi, i milanesi senza happy hour! Dunque, oggi, lunedì 9 marzo, non ci resta che far azionare l’ironia. Vivere nel terrore non è producente. Vivere come talpe nemmeno. M’è venuto in mente il vecchio film con protagonista un giovane  e danzerino Elvis Presley, Jailhouse Rock. La pellicola, che all’inizio doveva intitolarsi Ghost of a Chance porta il nome di uno dei brani rock’n’roll più fortunati del mitico Elvis The Pelvis, il quale si esibisce in uno dei primi esempi di lap dance al maschile della storia. Canzone ripresa e interpretata da molti artisti negli anni, dai Queen ai ZZ Top, dai Mötley Crüe alla stravagante band dei The Blues Brothers (altro film cult), fino al nostro Adriano Celentano, con sassofono ben inciso, più morbido per palati italici, a stemperare una scatenata saga rock’n’roll. Insomma, Jailhouse Rock, dopo 63 anni è ancora la colonna sonora per un altro evento (questa volta drammatico e reale).

Cari residenti delle zone arancioni, o rosse, comunque chiuse, non ci resta che scatenarci sulle note del rutilante brano. Potete scegliere qui quattro versioni, quella originale di Elvis, quella dei Queen (era uno dei cavalli di battaglia della band in live, in questo caso a Montreal nel 1981), l’altra dei ZZ Top, più hard/blues e l’ultima, quella più iconica, scatenata, straordinaria dal film The Blues Brothers con John Belushi e Dan Aykroyd per la regia di John Landis, del 1980. Una pellicola che ha fatto la storia di certo cinema da vedere e rivedere per tirarsi su il morale (dai su, tanto di tempo ne abbiamo…). Qui sotto, il testo originale per cantare a squarciagola… Buona reclusione a tutti.

The warden threw a party in the county jail.
The prison band was there and they began to wail.
The band was jumpin’ and the joint began to swing.
You should’ve heard those knocked out jailbirds sing.
Let’s rock, everybody, let’s rock.
Everybody in the whole cell block
was dancin’ to the Jailhouse Rock.
Spider Murphy played the tenor saxophone,
Little Joe was blowin’ on the slide trombone.
The drummer boy from Illinois went crash, boom, bang,
the whole rhythm section was the Purple Gang.
Let’s rock, everybody, let’s rock.
Everybody in the whole cell block
was dancin’ to the Jailhouse Rock.
Number forty-seven said to number three
“You’re the cutest jailbird I ever did see.
I sure would be delighted with your company,
come on and do the Jailhouse Rock with me.”
Let’s rock, everybody, let’s rock.
Everybody in the whole cell block
was dancin’ to the Jailhouse Rock.
The sad sack was a sittin’ on a block of stone
way over in the corner weepin’ all alone.
The warden said, “Hey, buddy, don’t you be no square.
If you can’t find a partner use a wooden chair.”
Let’s rock, everybody, let’s rock.
Everybody in the whole cell block
was dancin’ to the Jailhouse Rock.
Shifty Henry said to Bugs, “For Heaven’s sake,
no one’s lookin’, now’s our chance to make a break.”
Bugsy turned to Shifty and he said, “Nix nix,
I wanna stick around a while and get my kicks.”
Let’s rock, everybody, let’s rock.
Everybody in the whole cell block
was dancin’ to the Jailhouse Rock.

Incontri/ Ludwig van Beethoven, Freddie Mercury and… friends

Il 2020 sarà l’anno di Ludwig van Beethoven. Si festeggiano, infatti, i 250 anni dalla nascita del compositore che, tra il XVIII e il XIX secolo, ha sovvertito la musica gettando le basi per le moderne evoluzioni del pentagramma. È un’iperbole, ma senza l’arte del musicista di Bonn forse non avremmo avuto Eminem (parentesi: il suo nuovo Music to be Murdered By, rilasciato qualche giorno fa, è davvero un gran bel lavoro…).

Per chi fosse interessato alle iniziative (sono tantissime e in tutto il mondo) può collegarsi al sito BHTVN2020 (è l’abbreviazione del cognome usata dallo stesso maestro per firmare le sue composizioni). Che Beethoven, sordo, burbero, più propenso a omaggiare la borghesia piuttosto che nobili e imperatori, sia stato un genio della musica è incontestabile. Erano anni che non lo ascoltavo più. Mi sono rimesso in cuffia tutte le nove sinfonie, le sonate per pianoforte e violino e confesso che più lo ascoltavo e più mi veniva voglia di risentirlo.

Sulle note che chiudono la Settima Sinfonia (il IV Movimento, Allegro con brio), simile alle chiuse delle opulente opere rock con crescendo, timpani a scandire il rincorrersi di archi e fiati uguali a chitarre elettriche, basso e batteria che pompano senza tregua, ho iniziato a fare un gioco: se Ludwig van Beethoven fosse vissuto ai giorni nostri chi avrebbe potuto incarnare? I primi che mi sono venuti in mente sono stati i Queen: la loro versione “fast” di We Will Rock You eseguita nel memorabile concerto al Forum de Montréal il 24 novembre del 1981 (poi pubblicato in un doppio cd nel 2007) ne è una plastica dimostrazione.

La stessa, eterna, Bohemian Rhapsody potrebbe essere il concentrato di una sinfonia beethoveniana: gli stilemi ci sono tutti nella apparente folle, ma tecnicamente perfetta, creazione di Freddie, Brian, John e Roger.

Nella ricerca di nuovi orizzonti complessi, Master Ludwig avrebbe potuto sedersi al posto di Rick Wakeman, il tastierista degli Yes, che nel 1973 compose una delle pietre miliari del genere prog: The Six Wives of Henry VIII: da riascoltare Anne of Cleaves o Catherine Howard.

Il rock s’è sempre interessato al musicista tedesco, A partire dal lontano 1956, quando uno scatenato Chuck Barry cantava Roll Over Beethoven (qui, una clip) non proprio un inno al compositore: “Roll over Beethoven And tell Tchaikovsky the news” (Passa sopra Beethoven e dà la notizia a Tchaikovsky), cantava lo scatenato padre del rock.

Mentre gli Ekseption, gruppo rock olandese, nel 1969 pubblicano The Fifth, personale rielaborazione del lavoro beethoveniano e, nel 1977, in piena agitazione disco, Walter Murphy fa ballare, sempre sulle note della Quinta, una generazione di scatenati “febbricitanti del sabato sera”. Anche Billy Joel, in onore del suo passato di pianista “classico” innamorato della musica di Ludwig dichiarò il suo amore per il tedesco: il refrain di This Night (dal disco An Innocent Man del 1983) è sulle note de La Patetica, la Sonata per pianoforte n. 8 dell’artista.

Mentre un disco latin-jazz uscito il 25 ottobre 2019, dei Klazz Brothers & Cuba Percussion (formazione tedesca con innesto di percussioni cubane) rilegge le composizioni del maestro con congas e timbales. Non poteva mancare la melodia più famosa (oltre a l’Ode alla Gioia, diventato inno dell’Unione Europea): Für Elise

Per terminare il nostro divertissement,  c’è anche la trasposizione, osiamo, beethoveniana!, dal rock alla classica. Nel caso specifico dei Queen: due musicisti classici, il violinista Vlad Maistorovici e il pianista Dario Bonuccelli, hanno rivisitato i più famosi brani della band inglese. Qui una versione di Maistorovici con i The Mercury Quartet.