L’arte Solenne di Carlo Maver

Carlo Maver – Foto Daniele Franchi

Talento poetico, emozioni che vibrano grazie al soffio primordiale di un flauto basso o al mantice di quello strumento geniale e complesso che è il bandoneon. Musica del mondo, frutto di viaggi ed esperienze vitali. Musica sacra, perché inviolabile. E poi silenzi profondi che ti scavano dentro l’anima rendendo unico ogni ascolto. 

Carlo Maver, 50 anni appena compiuti, flautista e bandoneonista bolognese ha fatto un piccolo e prezioso miracolo pubblicando Solenne, il suo nuovo lavoro dopo cinque anni di silenzio. Giorni in cui ha ragionato sul proprio destino, sulla perdita dei genitori e di amici, sulla separazione. Un album uscito il 10 marzo in vinile e cd, il digitale arriverà poi. Un punto fermo anche questo: il voler fissare su qualcosa di tattile il frutto del suo lungo e non facile lavoro, presentato a Bologna, domenica scorsa, appunto.  Continua a leggere

Pierpaolo Vacca, il disco di un Bastian contrario

Pierpaolo Vacca – Foto Alessia Zedde

Il 19 gennaio scorso è uscito per per Tǔk Music Travessu, il primo lavoro solista di Pierpaolo Vacca, 32enne organettista sardo di Ovodda (Nuoro). L’avevo visto suonare dal vivo un paio di anni fa al Teatro Carcano di Milano sul palco con Paolo Fresu e Daniele Di Bonaventura per Tango Macondo, di cui vi avevo parlato qui. Nipote di Beppe Cuga, famoso – e unico – suonatore di launeddas della Barbagia, ha iniziato a suonare l’organetto a sei anni, andando a lezione dal maestro Peppino Deiana, Tziu Peppinu. 

Come definire la musica di Pierpaolo? Bella domanda: «Non mi pongo il problema di che tipo di genere suono, la musica viene da dentro, è libera, perché incasellarla?», mi dice candido durante l’intervista. Un po’ complicato farci l’abitudine: l’artista viene da un altro mondo, antichissimo, con solide regole a cui non rinuncia. La musica è la sua vita, il resto è un di più. Stupisce la sua sincerità, la sua umiltà ma anche la consapevolezza di essere uno dei pochi eletti che siedono di diritto al desco della Musa Euterpe.

Musica e danza sono inscindibili in Travessu. L’organetto, filtrato da una pedaliera da chitarra che con enorme pazienza s’è settato, assume tante voci, un’onda sonora che si propaga e che avvolge, contraltare alle incursioni di altri artisti, dal pianista Dino RubinoCappotto è autentica World Music made in Ovodda, l’organetto viene “ricamato” dal tocco gentile di Rubino che improvvisa pulito – al percussionista senegalese Pape Ndiaye in Campid Afro, a Dj Cris, al secolo Cristian Orsini, in Danzas Sardstep, fino a Nanni Gaias e al chitarrista Fabio Calzia in Tziu Soddu. Continua a leggere

Zoe Pia: clarinetto e launeddas. Le mille strade del jazz

Da pochi giorni si è chiuso il weekend in musica che organizza tutti gli anni in Marmilla, territorio dell’oristanese. Il Pedras et Sonus Jazz Festival, pensato sei anni fa con il pianista e compositore foggiano Roberto De Nittis e Alessandro Loi, ha visto quest’anno la collaborazione artistica con i Tenores di Orosei Antoni Milia, con i quali ha presentato Indindara, il suo ultimo lavoro che si spera diventi anche un disco.

Zoe Pia, 36 anni, è una musicista che mi ha sempre intrigato. È sarda, a riprova che l’isola – non mi stancherò mai di dirlo – è una fucina di grandi musicisti, ama le vie del jazz (inteso come musica popolare) così come, altrettanto intensamente la cultura musicale della sua regione.

Come Paolo Fresu ha iniziato a suonare – in questo caso il clarinetto – nella banda del paese, assorbendo la musica popolare, uno dei tratti distintivi del suo jazz che è azzardato definire “etno”. Le sue composizioni sono imprevedibili, un intrico di strade che trovano congiunzioni naturali con la tradizione locale ma che poi vanno per erte salite e incredibili tuffi in armoniche più “contemporanee”. Continua a leggere

Guido Coraddu con Miele Amaro suona la Sardegna del jazz

Guido Corraddu – Foto Agostino Mela

Ritorno dopo la pausa ferragostana per parlarvi di jazz e territorialità. Un discorso che avevo affrontato nel novembre dello scorso anno con Paolo Fresu e che torna di nuovo su questo blog grazie a Guido Coraddu, 50 anni, pianista cagliaritano di grande raffinatezza e studio. In questi anni di Musicabile ho conosciuto e incontrato tanti artisti e un buon numero di questi, soprattutto jazzisti, viene dalla Sardegna o dalla Sicilia. Perché? Un motivo antropologico ci sarà di sicuro, possiamo invocare semplicemente il “fattore isola”, territorio per forza di cose a sé, ma anche il mare che le circonda, che ha aperto la via a popoli, culture, tradizioni diverse che poi si sono fuse in un mix unico, dando vita a una propria e definita carta di identità. Continua a leggere

Interviste: Paolo Fresu, la musica? Non ha etichette

Paolo Fresu – Foto Tommaso Le Pera

Se c’è un artista che, nonostante tutte le difficoltà dettate da due anni di pandemia, ha sempre guardato alla musica come un rimedio salvifico per l’anima e per il cuore, questo è Paolo Fresu. In quel terribile 2020 è stato uno dei pochi a continuare a proporre il suono della sua tromba, squillante o sussurrato, allegro o malinconico.

Artista prolifico, mai banale, creativo, pignolo, anche nella scelta delle copertine degli album pubblicati dalla sua Tǔk Music, label che ha fondato nel 2010 e che l’anno scorso a festeggiato i suoi primi dieci anni, con cui continua a promuovere giovani musicisti talentuosi o affermati jazzisti internazionali.

È uno che cento ne pensa e cento ne fa, tuffandosi nei continui progetti come se fosse Indiana Jones alla ricerca del suono perduto. Fresu ama la musica e fare musica. Non importa etichettarla, in fin dei conti per lui non è così essenziale. La musica ha tante facce, tante strade, tanti linguaggi, tutti hanno uno scopo e un valore.

Guardando al suo percorso artistico al numero di dischi che ha pubblicato, alle “enne” collaborazioni con jazzisti di tutto il mondo, si vede un musicista onnivoro, uno che non ha mai avuto paura di cambiare, che guarda sempre oltre, in preda a una curiosità infinita. Da Ostinato, il suo primo disco del 1985 con il Paolo Fresu Quintet, in attività dal 1984 (a proposito i cinque, oltre a Fesu Tino Tracanna al sax, Roberto Cipelli al pianoforte, Attilio Zanchi al contrabbasso ed Ettore Fioravanti alla batteria si esibiranno il 20 dicembre prossimo al Blue Note di Milano), passando per Inner Voices (1986) con il flautista Dave Liebman e sempre il Paolo Fresu Quintet, allo sperimentale e bellissimo Anaglifo (1997) con Nello Toscano e Rosanna Bentivoglio, A Mare Nostrum (2007), lavoro altrettanto interessante con Jan lundgren e Richard Galliano, ad Alma (2012) dove dialoga con un grande Jaques Morelenbaum e il cubano Omar Sosa, fino agli ultimi lavori, come la rivisitazione in chiave jazz della Norma di Vincenzo Bellini (2019) con l’Orchestra Jazz del Mediterraneo e Paolo Silvestri, In Origine: The Field of Repetance (2020) con SaffronKeira, un mito della musica elettronica, al secolo Eugenio Caria, sardo pure lui, al disco celebrativo dei suoi 60 anni, è tutto un cambiare, modificare, capire, reinterpretare.

L’ho incontrato a Milano a teatro dopo il suo Tango Macondo. Gli ho chiesto se aveva voglia di fare quattro chiacchiere con me per Musicabile. Ha acconsentito e dopo alcuni giorni ho ricevuto un appuntamento telefonico, da Monfalcone, dove si trovava per la tournée, spettacolo che, per inciso, ha appena aggiunto due date a Foggia, il 26 e 27 novembre, al Teatro Giordano. Il 4 dicembre sarà a Rovereto (Teatro Zandonai) per terminare a Roma dal 7 al 12 dicembre (Teatro Quirino).

Paolo, partiamo subito con Tango Macondo, oltre allo spettacolo, anche un disco, dove ci sono tre perle, Alguien Le Dice Al Tango, cantato da Malika Ayane, El Día Que Me Quieras, da Tosca e Volver, da Elisa…
«Tango Macondo è un esperimento, sinceramente non so cosa sia, se jazz o world music o qualcosa d’altro, non mi interessa. Con Malika, Tosca ed Elisa, artiste che provengono da mondi musicali diversi abbiamo dimostrato che ci sono tanti modi per unire la musica»

In fin dei conti, Tango Macondo è un viaggio nella fantasia e nella creatività…
«Anche se il libro da cui è stato ricavato  è quello di Salvatore Niffoi, peraltro grande appassionato di musica, l’idea di un collegamento tra la Sardegna e l’America Latina mi era venuto leggendo un libro di Giovanni Maria Bellu, L’uomo che voleva chiamarsi Perón, dove si narrava che a Mamoiada vivesse un ragazzo di nome Giovanni Piras, partito per l’Argentina e che lì fosse diventato Juan Domingo Perón. Storia bellissima che provocò per un periodo la leggenda metropolitana di un sardo diventato il padrone politico del paese sudamericano. Alcuni finirono per credere davvero che Perón provenisse da Mamoiada. Ricordo che lessi il libro in un viaggio dalla Sardegna a Buenos Aires. Però il romanzo non aveva quel tipo di racconto tale da trasformarlo nella pièce teatrale che avevo in mente».

Con te sul palco ci sono Daniele Di Bonaventura, bandeonista, altro musicista che ascolto sempre con piacere, e Pierpaolo Vacca, un prodigio nell’organetto…
«Daniele è un grande bandeonista, ma non suona il tango. Il bandoneon è uno strumento che può fare di tutto: nasce in Germania, nelle chiese dove non potevano permettersi l’acquisto di un organo, come strumento sostitutivo. In Argentina con il bandoneon s’è suonato il tango. Pierpaolo è un grande esperto di musica tradizionale sarda: potrebbe suonare per ore senza mai fermarsi….».

Il rapporto tra l’Italia e l’America Latina è stretto…
«C’è un filo diretto tra il Sud Italia e il Sud America, un filo che unisce la musica brasiliana, il tango argentino e la musica italiana. La versione di Tosca di El día Que Me Queiras potrebbe essere benissimo una canzone napoletana di fine Ottocento! Non a caso anche Caetano Veloso è molto attratto dall’Italia e dalla sua cultura. Sono due mondi che si toccano di continuo, anche nell’idea melodica della musica. La migrazione è sempre a doppio senso, è normale che ciò avvenga».

Andiamo in Sardegna: sbaglio o l’isola ha molti bravi musicisti, una media altissima?
«È vero, la Sardegna ha una predisposizione per la musica, ma anche per il jazz! È un’isola musicale. Ha una storia ricca: tutti sono passati di qua per portarci via qualcosa, anche in tempi molto recenti, ma hanno pure lasciato qualche cosa. I sardi hanno imparato: abbiamo le launeddas (strumento a fiato tradizionale ad ancia semplice costituito da tre canne, ndr), il canto  a cuncordu (simile a quello a tenore, tradizionale soprattutto nelle rappresentazioni della Settimana Santa, ndr), la musica monodica, la poesia orale dei poeti improvvisatori. Questa tradizione è stata reinventata dagli anni Ottanta in poi, e qui si arriva al jazz e ai numerosi appuntamenti sull’isola, dal festival di Cagliari (Festival Internazionale Jazz in Sardegna, ndr) al Calagonone Jazz Festival al Time in Jazz di Berchidda (creato dallo stesso Fresu nel 1988, ndr). Il jazz è musica di origine popolare e non a caso ha attecchito in Sardegna, dove ci sono musicisti, poeti, scrittori… Adesso questa musica e queste forme di poesia si muovono in direzioni nuove come Nanni Gaias, Salmo, i Menhir o Pierpaolo Vacca».

Paolo fresu – Foto Michele Stallo

Time in Jazz esiste da 34 anni, è un appuntamento irrinunciabile per chi ama jazz e contaminazioni…
«È un festival creato sostanzialmente per promuovere nuovi talenti. Attorno all’idea forte del festival continuano a nascere iniziative, tutte volte a diffondere la cultura musicale. L’ultima è Sa banda sa musica sa festa (qui su Facebook, ndr), progetto partito ai primi di ottobre che culminerà a dicembre. La banda di Berchidda ha incontrato la Funky Jazz Orchestra. Con l’aiuto di Corrado Guarino che segue la banda ogni 15 giorni, e di Dario Cecchini stanno preparando un grande concerto per il 28 dicembre a Sassari».

Berchidda è diventata, grazie a te, un centro culturale dove si fa musica e non solo.
«Senza la banda di Berchidda io non sarei qui. Ho iniziato a suonare la tromba da bambino nella banda. È lì che mi sono appassionato alla musica e sono diventato un musicista».

Time in Jazz e tutta l’attività che svolgi per il jazz e la cultura sono, dunque, il ringraziamento al tuo paese e alla tua terra…
«Pur vivendo a Bologna da anni, ho un grosso legame con Berchidda. Sul terreno dove mio padre allevava le bestie e coltivava la terra ho costruito il mio buen retiro. Mio padre era un pastore, della mia infanzia ricordo le pecore e la vigna. Il podere si chiama Tucconi. La mia etichetta discografica l’ho battezzata Tǔk, il toponimo di questo luogo rivisitato. Tutto torna, sempre: la banda, la casa discografica, il festival, la ricerca di nuovi talenti… Quest’anno il tema del festival non era Dante ma le stelle, care al poeta. Pietro Casu, poeta berchiddese, tradusse la Divina Commedia in sardo, molti passi li declamavano a memoria i pastori. Erano tradizioni orali. I poeti ottocenteschi, parole per la musica, vedi i Tenores di Bitti, il sottoscritto, Nanni Gaias, tutto si deve tenere…».

A proposito di Gaias: a gennaio l’ho presentato su Musicabile come uno dei giovani più promettenti, in occasione dell’uscita per la Tǔk Music del suo Ep T.O.T.B., Think Outside The Box assieme a un altro giovane chitarrista, Giuseppe Spanu…
«Nanni è di Berchidda ed è un bravo e promettente artista, anche lui si è formato nella banda del paese. Vedi, con lui tutto torna, è il motivo per cui in questi anni ho lavorato per la musica e per formare nuovi artisti. La Tǔk Music è stata creata perché tanti giovani musicisti mi inviavano i loro master da ascoltare o chiedevano consigli su come muoversi. Così mi son detto: “Perché non creare una label dedicata soprattutto a loro?”».

PAolo Fresu – Foto @seda

La Tǔk conta circa 170 artisti, un bel numero per una casa discografica…
«Siamo una grande famiglia, sono tutti artisti che hanno un pensiero simile al mio, oltre a essere bravi musicisti. Credo che un artista non sia solo lo strumento che suona ma il pensiero che ha dietro».

Di giovani musicisti portati al talento ce ne sono tanti in Italia, ma difficilmente emergono…
«Ce ne sono anche di importantissimi che non hanno la fama che meriterebbero. Forse siamo in tanti per un palco come l’Italia. In questo mondo complesso non c’è spazio, ma a volte manca quel coraggio per programmare altro. Se si investe bene i risultati si vedono, vedi il nostro Festival di Berchidda. La gente viene a vederci a prescindere dall’artista famoso, perché ci siamo conquistati la credibilità di proporre sempre musica interessante. Viene perché di noi si fida ed è curiosa di scoprire nuovi talenti. E poi il festival non è solo musica ma anche cinema, scoperta del territorio, letteratura. Alla Tǔk pubblichiamo i dischi che ci piacciono per una direzione comune, che, giuro, non so quale sia. Ritorno sulla tua osservazione: in Italia c’è poco coraggio nel fare scelte diverse dalle solite, finendo così per avere più o meno gli stessi artisti che girano, me incluso».

Dove sta andando al musica?
«Sono positivo. La musica si muove, punto. Ci sono cose molto belle in giro. Ciò che è importante è che la musica ci sia, avere una certa curiosità per gli altri linguaggi. Coloro che sostengono che il jazz sia morto con Coltrane sono morti dentro. Il jazz per sua definizione è apertura. Il nostro compito, quello che dovremmo fare ora, è cercare di aiutare il jazz e gli altri mercati musicali. Mi sforzo di aprire un po’ la mente. Ognuno di noi artisti deve farsi strada nel mercato musicale usando anche nuove tecniche e linguaggi. Lo spettacolo teatrale Tempo di Chet, a teatri chiusi per il Covid, ha avuto sul digitale una risposta incredibile, quasi 12 milioni di visualizzazioni. Occorre dare risposte creative e concrete rispetto al mercato. Bisognerebbe che anche la politica se ne rendesse conto, ad esempio per aiutare i jazz club».

Cosa ti spinge nel tuo lavoro, di musicista e discografico?
«Una grande creatività. Attingo da tutto, mi piace ascoltare tutto, rispondo sempre a tutti. Quando un giovane ti manda un master devi rispondere, perché le persone attendono sempre una tua risposta. Sono stato educato così. Poi, vicino a me ho persone come Luca Devito, grandissimo appassionato di musica, che mi propone di tutto. A tal proposito, mi appassiona moltissimo, per esempio, Venerus. Poi ho mio figlio che, da adolescente, mi fa scoprire cose straordinarie. La mia non è bulimia, ma attenzione. Mi piace provare, sperimentare anche se poi, come in cucina, non tutte le ciambelle escono col buco! Nonostante i miei 60 anni l’idea dell’ascolto la reputo fondamentale, altrimenti si finisce col paraocchi. Come a tavola, se non assaggi un cibo non sai se sia cattivo o buono, così nella musica, se mi arriva un disco lo ascolto, se non mi va non mi faccio del male e lo lascio perdere, se mi colpisce, beh, allora, l’ascolto ne è valso davvero la pena!».

Interviste: Cabruja, la calda voce della malinconia

Mi è capitato tra le mani il primo disco di un artista che di professione fa il professore di scienze. È venezuelano, ma vive a Genova dal 2004, da quando è arrivato, con una fresca laurea in biologia ottenuta alla Universidad Simón Bolívar di Caracas, per frequentare un dottorato in microbiologia molecolare. Si chiama Eduardo Losada Cabruja ed è nato nella capitale venezuelana il 30 novembre del 1979. Testa rasata, un barbone scuro che, apparentemente, può incutere un certo timore, è in realtà un uomo aperto, solare, sorridente, loquace. Così l’ho inquadrato. Lui, invece, si vede chiuso, riflessivo, malinconico, tutto l’opposto di come si presenta. Lo incontro via Zoom. Veste una t-shirt con una scritta luccicante che dichiara un po’ il suo essere: Anxiety! «La metto sempre quando i miei studenti hanno verifica, è diventato un gioco!», scherza.

Eduardo ha pubblicato il suo primo album dal titolo Cabruja, il suo cognome, che però si presta a varie accezioni. Spiega Eduardo: «In Venezuela il secondo cognome è quello della madre, ed è il più importante. Mio padre è mancato 20 anni fa e con mia madre ho un legame fortissimo. Noi Cabruja siamo collegati all’arte, mia sorella è un’artista plastica, mio zio uno scrittore. E poi bruja in spagnolo significa strega, cosa che mi attira molto…».

Sono nove pezzi, di cui due, composti da lui (Lisboa Tbilisi, seconda traccia, e La Corazonada, quinta traccia, entrambi assieme a Giancarlo Di Maria) e il resto cover di artisti, Tori Amos in testa, che ha raccolto tutti in un Pantheon dei santi musicisti protettori che includono i Portishead, Björk, i Lamb più un paio di piccoli diamanti, come Alfonsina y el Mar, canzone arcinota in Argentina (ne ho parlato l’altro giorno scrivendo del concerto di Tosca al Parenti di Milano) e un brano del venezuelano Simón Díaz, Mi Querencia, del 1974, parte della musica tradizionale del joropo llanero del Venezuela, eseguito con il quatro (la chitarra a quattro corde), l’arpa llanera, la bandola llanera (altro tipo di chitarra sempre a quattro corde) e le maracas, che Cabruja interpreta in forma molto più orchestrale quasi cinematografica, per poi esplodere, nel pasaje, in un’allegria che fa da contrappunto al fraseggio successivo di nuovo cupo e drammatico.

Tornado al nostro artista e alla sua doppia anima, forse una spiegazione c’è: è diventato adolescente negli anni Novanta, con tutto quel che ne consegue. Racconta: «Dopo gli Ottanta che sono stati tutta New Wave, dark, di una felicità halloweeniana, i Novanta hanno rappresentato una zona più grigia, cupa, l’esistenzialismo, il grunge, la malinconia, che ho evidentemente introiettato».

Se ne ve scrivo, è perché ho visto ben più di qualcosa in lui. Una gran buona voce, piena e coinvolgente, e una passione nell’eseguire cover anche famosissime, mai scontata, ma alquanto raffinata, vedi l’interpretazione di Father Lucifer di Tori Amos o quella di Gloomy Sunday, un cameo cantato dai crooner di ogni provenienza ed eseguito da altrettanti musicisti, soprattutto jazzisti, da oltre 80 anni. Il brano dell’ungherese Rezső Seress del 1933 è arricchito da un prezioso cameo di Paolo Fresu.

Eduardo, innanzitutto, perché sei finito a Genova?
«Una volta laureato, volevo continuare a studiare fuori dal Venezuela. Mi sono sempre sentito un “esterofilo”, uno che ha voluto sempre andare “oltre”. Sono arrivato a Genova per fare il dottorato ed è lì che ho capito che la ricerca non faceva per me. Per farla bisogna avere testa e molta disciplina, qualità che non ho…».

Comunque, sei rimasto sempre nel campo delle scienze
«Insegno scienze in lingua spagnola in un liceo linguistico di Genova. Da molti anni faccio il divulgatore scientifico al Festival della Scienza, dieci giorni di incontri, scambi, approfondimenti, dove si incontra molta gente interessante».

E la passione per il canto e la musica?
«L’ho avuta da sempre, fin da piccolo, praticamente mi esprimevo cantando, ma non sapevo di aver la possibilità di farlo in un modo più strutturato. A Genova mi sono inserito in un coro. In una delle edizioni del Festival della Scienza, ho conosciuto due scienziati-divulgatori che sapevano suonare. Parlando insieme, abbiamo deciso di creare un “gruppetto” per esibirci nei giorni dell’evento. Ormai lo facciamo da anni, ed è molto divertente. Siamo una cover band con un repertorio bello vasto, che spazia David Bowie agli Smiths, da Harry Belafonte a Compay Segundo».

Come sei finito in una sala di registrazione?
«Due anni fa ho conosciuto Raul Girotti (musicista, producer e anima dell’Over Studio Recording di Cento, Ferrara, ndr). Mi aveva proposto l’uscita di un Ep di cover, che poi, grazie anche al lockdown, periodo in cui ho composto i due brani inediti contenuti nel disco, è diventato un vero e proprio album…».

Su Gloomy Sunday c’è anche un intervento di Paolo Fresu…
«Fresu era all’Over Studio per l’incisione di un disco. Con Raul avevamo già completato alcune demo dei brani. Raul li ha fatti ascoltare a Fresu e lui ha accettato di ricamare, proprio su Gloomy Sunday, una sua improvvisazione. Mi ha colpito molto il valore che un artista già molto famoso a affermato ha manifestato a un emergente, uno sconosciuto, un signor nessuno».

Ritorno ancora sul tema malinconia, perché hai scelto brani particolarmente tristi? In due, Gloomy Sunday e Alfonsina y el Mar, il tema è il suicidio…
«Non sono una persona con tendenze suicide! Ho avuto amici che ci hanno provato, altri che ci sono riusciti… Credo, però, che il suicidio sia un atto profondamente coraggioso, e anche un diritto. Non chiediamo di vivere, l’unica cosa che possiamo permetterci è smettere di vivere. Ho grande rispetto per le persone che scelgono di non vivere più, e sto parlando del diritto al fine vita…».

Ma tu, apparentemente, sei una persona solare!
«Non ho mai sopportato essere definito solare, anche se, in realtà, sono uno che interagisce, molto, parla, conosce persone, ha quella esotica e latina gioia che viene naturale. Sono nato in America Latina! Però in me c’è una malinconia strutturata. Mia nonna diceva sempre “La procesión va por dentro”, e aveva ragione. E anche la mia dimensione musicale è così. Mi piacciono di Radiohead, Björk, Tori Amos (la adoro, e quando viene in Europa scappo a vederla). Tori è stata importante nella mia adolescenza. Ammetto che quando parlo di lei divento un po’ bimbominkia, anche se tra pochi giorni compio 42 anni!».

La Corazonada, uno dei brani composti da te e da Giancarlo Di Maria parla di Caracas, la tua città…
«Sono sei anni che non vado più in Venezuela. Ho tutti i parenti lì, c’è mia mamma. Non ho amici, quelli che avevo se ne sono andati, come me, chi in Germania, chi in Cile, Colombia, Messico, Stati Uniti. Il brano parla di Caracas, è un testo molto angosciante che racconta l’ansia di vivere nel caos e nella paura di sapere che, in un giorno qualsiasi, la madre si può svegliare e non vedere più suo figlio o viceversa. Vivo una specie di lutto per la mia città. Sì, noi che abitiamo fuori dal Venezuela e dalla sua capitale non sentiamo saudade ma siamo perennemente in lutto. È duro ricordarsi la mia adolescenza a Caracas, una città gioiosa, e vedere che è diventata una città morta».

“Tango Macondo”, una storia fantastica a suon di folklore

 

Sono stato al Teatro Carcano di Milano a vedere Tango Macondo, favola ricca di fantasia, cuore e musica di Giorgio Gallione, prodotto dal Teatro Stabile di Bolzano, con le musiche (e la presenza sul palco) di Paolo Fresu (flicorno e tromba), Daniele di Bonaventura (bandoneon)  e un incredibile Pierpaolo Vacca (organetto).

Ispirato al libro di Salvatore Niffoi Il Venditore di Metafore (Giunti, 2017), più che una classica piece teatrale è una epica, fantastica, spettacolare narrazione, grazie alle scenografie di Marcello Chiarenza, alla bravura degli interpreti, personaggi che si “rubano” la parola senza interagire tra di loro, diventando narratori di un vorticoso e audace racconto che cattura, stimolando la parte fanciullesca del pubblico. Ugo Dighero, Rosanna Naddeo e Paolo Li Volsi sono i felici interpreti mentre Luca Alberti, Alice Pan, Valentina Squarzoni e Francesca Zaccaria, del DEOS, il Danse Ensemble Opera Studio di Genova, i danzatori.

Tutti sul palco, attori, musicisti, ballerini a ricreare una storia che parte da Mamoiada in Sardegna (il paese del Carnevale e dei Mamutones) e finisce in Argentina in un villaggio che Mataforu, assieme all’amore della sua vita, Anzelina Bisocciu, costruiscono e chiamano Macondo (il riferimento al paese inventato di Gabriel García Márquez in Cent’anni di Solitudine, aumenta nello spettatore i desideri di miti, terre lontane, avventure…). In questo mondo parallelo dove si alternano risate e tragedia, ci sono i tre musicisti, pilastri immobili a costituire un triangolo narrativo ed evocativo. Il flicorno e la tromba di Paolo Fresu fanno da collante all’organetto di Pierpaolo Vacca e al bandoneon di Daniele di Bonaventura.

Ora che vi ho raccontato il mio spettacolo (vivendo un’ora e mezza nel fantasy ogni singolo spettatore ne esce con una sua versione di quanto visto e sentito), faccio un breve approfondimento su una terra a me più familiare, la musica, parlando del disco che è uscito parallelamente alla piece teatrale e che porta lo stesso titolo, Tango Macondo, uscito per la Tŭk Music. L’occasione per i tre musicisti di eseguire i temi dello spettacolo, con ampi spazi per il folklore sardo, e includere anche brani ampiamente codificati del tango argentino. L’intelligenza di Fresu, artefice dell’operazione, è quella di aver inserito tre perle rare in questa collana di note, sia per la loro bellezza sia per le interpreti scelte, tutte italiane.

La prima in ordine di ascolto è Alguien Le Dice Al Tango, brano di Astor Piazzolla su testo di Jorge Luis Borges, interpretata da Malika Ayane; la seconda El Día Que Me Quieras, scritta da Carlos Gardel nel 1934 su un testo del giornalista e drammaturgo Alfredo Le Pera del 1919, cantata da Tosca (a proposito: se siete a Milano l’8 novembre, andate ad ascoltarla al Teatro Parenti, dove porterà in scena il suo ultimo album, Morabeza, con la direzione artistica di Joe Barbieri, uscito nel 2020 e per il quale ha vinto due targhe Tenco,). La terza è una incredibile versione di Volver, brano composto sempre da Gardel e sempre nel 1934 con le parole di Le Pera, eseguita da una cristallina Elisa. Da ascoltare e riascoltare. Buon weekend a tutti…

popOFF: Zecchino d’Oro e jazz. Intervista a Cristina Zavalloni

Quarantaquattro gatti
In fila per sei col resto di due
Si unirono compatti
In fila per sei col resto di due…

Sfido chiunque a non averla cantata almeno una volta nella vita. Quarantaquattro Gatti del modenese Pippo Casarini (anno domini 1968) è una della dodici canzoni scelte tra i grandi successi dello Zecchino d’Oro, pubblicate in un album dal titolo popOFF, in versione jazz, da Paolo Fesu, Cristina Zavalloni, Cristiano Arcelli, Dino Rubino, Marco Bardoscia e il Quartetto Alborada per la Tŭk Music (etichetta dello stesso Fresu), nel catalogo “Kids”.

Un’idea brillante e unica, le canzoni per bimbi trasformate in musica dotta per un pubblico adulto, ma anche un modo per far conoscere ai più piccoli la bellezza della fantasia, della composizione e dell’improvvisazione, ovvero di ciò che la musica ha di più caro e sacro.

Non un’operazione furba, mettiamolo subito in chiaro, piuttosto una delle tante genialità del musicista sardo che, proprio per questo, si conferma uno degli artisti più creativi degli ultimi anni. Sarà che condivido con Fresu lo stesso anno di nascita, il 1961, a dirla tutta lui è qualche mese più anziano di me! – sarà che lo Zecchino d’Oro è stato uno dei momenti formativi della nostra fanciullezza, sarà che porto rispetto e ascolto tutta la musica e che adoro il jazz, sta di fatto che riascoltare brani che avevo chiuso nel baule dei ricordi nella soffitta della mia mente, riproposti con un’esplosione dinamica e fantastica da jazzisti internazionali di prima fila mi ha galvanizzato, stimolando la curiosità di ascoltare questo lavoro per capire come Lettera a Pinocchio o il Valzer del Moscerino o Popoff, potessero ritornare con una partitura fedele nella struttura ma con la libertà di reinterpretazioni e improvvisazioni.

Non a caso, all’interno del Cd è riportata una frase di Claudio Abbado: «Non si deve insegnare la musica ai bambini per farli diventare grandi musicisti, ma perché imparino ad ascoltare e, di conseguenza, ad essere ascoltati». La certezza, dunque, di avere in mano un lavoro che non ha alcuna pretesa, se non quello di omaggiare la musica nel suo insieme, dare il giusto valore anche a una canzone scritta per fanciulli dai quattro anni in su. Sulla stessa onda, la cover e le illustrazioni dei testi delle canzoni, frutto dell’opera di Lorenzo Mattotti.

Scrive Fresu: «Quando ho pensato a un progetto musicale che fosse il racconto di Bologna, il mio pensiero è andato immediatamente alle canzoni dello Zecchino d’Oro. Perché le ho ascoltate da bambino e perché rappresentano la città che mi ha accolto e che mi ha offerto l’opportunità di occuparmi di infanzia contribuendo a sviluppare e rafforzare l’importante messaggio della musica nella scuola e nella società».

Anche la voce per interpretare questi brani è stata scelta con cura. Ancora il musicista sardo: «popOFF doveva necessariamente trovare un canto che fosse adulto ma che, nel medesimo tempo, conoscesse la lievità e la maternità. Ancora una volta la mente è andata all’unica artista capace di incarnare questo doppio ruolo…».

Cristina Zavalloni – Foto Marcella Fierro

Lei è Cristina Zavalloni, classe 1973, figlia di Paolo Zavalloni (aka Zavallone), l’uomo, il musicista, che per anni è stato l’anima dello Zecchino d’Oro, da direttore artistico dell’Antoniano (1989-2003). L’ho contattata perché mi raccontasse il suo approccio e la sua esperienza in un lavoro che l’ha coinvolta non solo professionalmente ma anche – e soprattutto – emozionalmente. A proposito: questa sera, lunedì 25 ottobre, Cristina Zavallone sarà in Sala Grande al Teatro Parenti di Milano assieme al pianista Andrea Rebaudengo e al mitico clarinettista Gabriele Mirabassi per un excursus in musica da John Dowland a Frescobaldi, da Gershwin ad Ellington, ai Beatles, fino ai brasiliani Pixinguinha ed Egberto Gismonti. Vivamente raccomandato, io ci sarò!

Le canzoni dello Zecchino in chiave jazz, una gran bella trovata…
«È di Paolo (Fresu, ndr), l’ha avuta lui, mannaggia, come mai non ci ho pensato io? Sto scherzando, ovviamente! Con Paolo ci conosciamo da anni, abbiamo lavorato molto insieme. L’intenzione me l’ha comunicata con un po’ di pudore, facendo leva su due fattori per me importanti, la genitorialità e la mia storia familiare. Ho accettato subito con un entusiasmo liberatorio. Perché lo Zecchino d’Oro e quei brani sono una parte importante della mia vita. Ho una figlia di sette anni che conosce a memoria le canzoni dello Zecchino e un padre che è stato uno degli artefici del festival bolognese».

Hai cantato anche tu allo Zecchino d’Oro?
«No, perché quando mio papà ha deciso di mettere radici a Bologna, città di mia mamma, dopo aver girato per il suo lavoro di musicista ovunque, sono arrivata nel capoluogo emiliano che ero quasi un’adolescente, quindi fuori target Zecchino! Anche se non ero nuova ai palchi e alle trasmissioni televisive: cantavo da quando ero piccola nei programmi di papà, per me, bambina, era un gioco (facevo TipTap su Rai 2 nei primi anni Ottanta). A Bologna mi sono ritrovata solista con le Verdi Note, il coro composto da ex bimbi del Piccolo Coro di Mariele Ventre…».

Cristina Zavalloni – Foto Barbara Rigon

La proposta di Fresu a distanza di anni è stata quanto mai indovinata!
«Paolo mi ha regalato la possibilità di chiudere un cerchio che unisce tre generazioni: mio papà, me, bambina, e mia figlia. Finalmente mi sono potuta togliere, con un codice diverso, jazzistico in questo caso, la soddisfazione di cantare lo Zecchino d’Oro!».

popOFF è un disco raffinato e tu lo hai interpretato cambiando il modo di cantare a seconda delle canzoni…
«Dici? Mi fa sempre molto sorridere questa osservazione. Non sei il primo ad avermela fatta. Me l’ha detto anche il mio compagno! Ero convinta di aver trovato un suono nella mia testa e di seguirlo per tutti i brani. Invece ho capito che il miglior modo per interpretare un brano non è tanto la ricerca quanto ciò che hai intorno, i musicisti, l’ambiente, le sensazioni. Per prepararmi, ad esempio, ho ascoltato molto Johnny Dorelli…».

Ne La Giostra del Carillon (1963) peraltro straordinaria, sembri un’artista degli anni Cinquanta. Per impostazione della voce mi ricordavi qualcuna… poi ho capito chi, Elizeth Cardoso…
«Sono innamorata di Elizeth Cardoso, l’ascolto spesso, è una delle mie artiste preferite. È vero, la sua voce squillante, il suo modo di cantare… Popoff (1967), ad esempio, ricorda tanto Prokofiev nella sua aria lirica, mentre Il Pinguino Belisario (2011) mi riporta alla mente, nel suo andare di marcia, A Banda di Chico Buarque…».

Nel disco c’è molta improvvisazione?
«Come principio generale la stesura doveva essere fedele all’originale. Questo era il punto di partenza. L’approccio di ciascun brano è stato poi deciso in tempo reale in sala d’incisione. L’atteggiamento è jazzistico: tra di noi bastano due segni e ci si intende. Ci sono gli arrangiamenti scritti e le parti lasciate all’interpretazione di ogni musicista. Il disco lo abbiamo registrato in tre giorni, nel marzo scorso. Mezza giornata ce la siamo presa per correggere alcune imperfezioni o rivedere certe parti».

Cosa vi aspettate da popOFF?
«Penso di poter parlare a nome di tutti: non ci aspettiamo niente. Non fraintendermi, non voglio peccare di superbia, ma abbiamo raggiunto un’età dove possiamo prenderci il gusto di fare quello che ci piace. In realtà il disco, uscito a fine settembre, sta avendo un enorme interesse a livello di booking, stampa, richiesta di concerti. Un’attenzione maggiore di quella che ci aspettavamo, ed è quello che conta di più».

Avete idea, dunque, di farne una serie di concerti?
«Non abbiamo l’idea, lo abbiamo già deciso! Garantiamo di farne uno spettacolo che stiamo già preparando e che porteremo al pubblico nel 2022!».

Voglio finire con una dichiarazione d’amore, presa sempre dal libretto incluso nel Cd. È di Paolo Zavalloni rivolta alla figlia. Lui è ancora in forma, con i suoi 89 anni portati con la voglia e l’entusiasmo di suonare e comporre ancora. «Ha scritto un pezzo per Natale», mi conferma Cristina. Eccola: «Cara Cris, riuscire, attraverso le note, a farsi capire dagli altri non è cosa da poco e noi, in casa, lo sappiamo bene. In questo disco ti sei vestita di semplicità e hai reso brani come Popoff, Lettera a Pinocchio o Volevo un Gatto Nero (per citarne alcuni), unici».

La musica che mi fa sentire bene

È da un po’ che volevo condividere con voi una mia riflessione. Sarà l’età, sarà la tanta musica che ho ascoltato e continuo ad ascoltare, ma mi sono reso conto di essere diventato sempre più selettivo nelle mie preferenze.

Continuo, certo, a mettere in cuffia tutti i generi, soprattutto quelli che non sono nelle mie corde, per comprendere nuove forme d’espressione e trarne spunti, spesso in una banalità imperante e dai facili consumi.

Quando la melodia è ripetitiva e scontata mi sento dire: «Ma devi ascoltare i testi, sono quelli che contano». Grazie, ma preferisco leggere quei versi senza il contorno di elaborazioni digitali fatte in catena di montaggio, tutte uguali, tutte senz’anima. Alcuni testi sono davvero interessanti, e mi riferisco soprattutto all’Urban. Il mainstream non è affatto garanzia di qualità.

Guardo all’Italia: apparentemente c’è solo una cultura dominante, quella del rap-trap, diventato il nuovo Pop, una contraddizione in termini se si pensa alla matrice culturale dell’hip-hop e alla controcultura in cui si è formato. Il genere è mercificato, buono per le case discografiche e per i trapper e rapper che hanno a disposizione il loro quarto d’ora di celebrità. Non parliamo poi dei prestampati sanremesi. Le eccezioni sono rare…

Ascoltare musica che dica qualche cosa (incluso l’Urban) risulta molto difficile, bisogna andarsela a cercare. In Italia, comunque, abbiamo fior di musicisti raffinati, preparati, virtuosi, polistrumentisti, affamati di contaminazioni, senza preclusioni. Jazz, latin jazz, rock, bossa nova, classica, hip-hop, funk, pop, linguaggi spesso distanti tra loro, diventano magicamente compatibili, un melting pot riuscito.

L’antropologo brasiliano Darcy Ribeiro in un suo libro dirimente, O Povo Brasileiro (impiegò 30 anni a scriverlo), annotava come la miscigenação, la combinazione di tre popoli, il portoghese, l’africano e l’indigeno, avesse portato a quello che è diventato un solo popolo brasiliano oggi. Non solo razza, ma anche cultura e, quindi, musica. Musica del mondo, dunque, influenze che trovano in artisti come Joe Barbieri, Stefano Bollani, Paolo Fresu, Daniele di Bonaventura (ascoltate l’ultimo suo lavoro uscito il giorno di Pasqua, Canzoni da Casa, o lo splendido Reminescenze con il pianista Giovanni Guidiqui uno dei concerti dei due artistiTosca, Gegè Telesforo (che ho intervistato lo scorso anno), Luca Aquino, Gabriele Mirabassi, Mauro Ottolini, di cui vi parlerò tra alcuni giorni, esempi significativi e importanti.

Mentre scrivo mi sto ascoltando Bollani e il suo Carioca, album uscito nel 2008. Ma anche il live uscito a marzo di quest’anno, in versione classica/world music, El Chakracanta (Live in Buenos Aires) con l’Orquesta Sin Fin diretta da Exequiel Mantega. Il disco è composto da due tanghi, Don Agustín Bardi di Horacio Salgán e Libertango di Ástor Piazzolla (l’11 marzo s’è celebrato il centenario della nascita) e da due composizioni per orchestra di Bollani, il Concerto Azzurro e il Concerto Verde, registrati, sempre nella capitale argentina, in tempi diversi.

Ieri sera, invece, l’ho dedicata a Barbieri, riandando ad ascoltare quel bellissimo disco del 2015, Cosmonauta da appartamento, qui L’Arte di Meravigliarmi con il prezioso intervento crossover della spagnola La Shica (a proposito di rap…) e Tu sai Io So con la voce inconfondibile di Peppe Servillo. Rimane un capolavoro per me Maison Maravilha, album del 2009 dove c’è Malégria cantata con Omara Portuondo, la grande artista cubana del Buena Vista Social Club.

Paolo Fresu (del suo ultimo disco, P60LO FR3SU ho parlato qualche giorno fa) da anni porta in musica quella miscigenação descritta da Ribeiro. Un esempio, per nulla banale, ma che solo un vero musicista può concepire, lo ha regalato il venerdì di Pasqua, suonando dalla sua casa il Miserere insieme al Cuncordu ‘e Su Rosariu di Santulussurgiu.

Il 30 marzo è uscito l’ultimo lavoro di Gabriele Mirabassi, Tabacco e Caffè, di nuovo assieme dopo quasi cinque anni da Amori Sospesi, al bassista Pierluigi Balducci e al chitarrista Nando di Modugno. Ascoltate Party in Olinda, il brano che apre il disco, del compositore e chitarrista brasiliano Toninho Horta. Il disco è un viaggio nella musica tradizionale brasiliana e quello che ha rappresentato negli anni per molti artisti, soprattutto jazzisti. E mentre il clarinetto di Mirabassi ti proietta in mondi rassicuranti e sognanti, Luca Aquino fa suonare la sua tromba in rivisitazioni della musica che ha più amato attraverso quella grande casa che è il jazz. Mi diverte ascoltare le elaborazioni di Rock 4.0 brani rock, dai Radiohead, a Neil Young a Bob Dylan (album del 2014) o overDOORS (del 2015), un omaggio alla mitica band di Jim Morrison, ma anche quel giusto riconoscimento a certa musica italiana d’autore in Italian Songbook del 2019 (con l’orchestra sinfonica di Benevento e la partecipazione del pianista Danilo Rea): molto intensa la sua versione di Almeno tu nell’Universo.

Potrei andare avanti ancora e ancora. La musica ha un grande potere terapeutico, e questi artisti per me sono passione, lavoro, fantasia, sogno, emozione. Questa è la musica che mi incuriosisce, che mi manca – nel senso della saudade brasileira (ne avevo parlato sul blog giusto un anno fa) che ho bisogno di ascoltare per essere in pace con me stesso e il mondo. Contaminazione, fantasia, un esperanto in note che acquista sempre più senso in questo assurdo momento storico.

Tre album in attesa delle feste pasquali

Frame da “Sad Cowboy” delle Goat Girl

Questa settimana voglio proporvi alcuni album di recente uscita che mi sono particolarmente piaciuti. Lo faccio ora, nelle imminenti festività pasquali, così ci si può ricavare un po’ di tempo per rilassarsi e ascoltare. Sarà una Pasqua ancora in emergenza, ma dovunque voi siate o abbiate intenzione di andare – sempre che sia possibile – portare con sé nuove musiche ha un che di liberatorio. La mente non ha lockdown, se non quelli che ci autoaffliggiamo, è la nostra free zone, dove possiamo fantasticare, viaggiare, penetrare tra note e versi, riflettere. Oggi ho scelto tre titoli molto diversi tra loro, andiamo dal post punk delle Goat Girl, alla raffinatezza del nostro Paolo Fresu, al ritorno di melodie funky jazz di Dr. Lonnie Smith, mitico organista che suona uno strumento altrettanto mitico nella storia del rock e della musica anni Sessanta e Settanta, l’Hammond B3.

Goat GirlOn All Fours

Quattro donne esplosive e riflessive della South London per un disco post punk nel vero senso del termine, uscito il 29 gennaio scorso. On all Fours è una carrellata di musica allegra, brillante, non scontata, registrata per lo più ognuna da casa propria aggiungendo idee e ispirazioni continue, a cui fanno da contraltare testi di grande significato socio-politico, dove trovano posto il cambiamento climatico, il disinteresse della gente, i destini politici ed economici del mondo, raccontati attraverso esperienze della vita di ogni giorno. Ascoltate Sad Cowboy e The Crack e capirete!

Paolo FresuP60LO FR3SU

Il trombettista di Berchidda ha voluto festeggiare i suoi 60 anni (il 10 febbraio) pubblicando per la sua Tǔk Music un cofanetto con tre dischi, due inediti e una ristampa. Partiamo da quest’ultima: si tratta di Heartland, un vecchio e fortunato progetto del musicista sardo con David LinxDiederik Wissels. Il secondo in trio con il bandeonista Daniele Bonaventura e il violoncellista brasiliano Jaques Morelenbaum (ascoltate Te Recuerdo Amanda) e il terzo un tributo a David Bowie con un parterre di musicisti e cantanti di alto livello: Petra Magoni (voce), Gianluca Petrella (trombone), Francesco Diodati (chitarra), Francesco Ponticelli (contrabbasso) e Christian Meyer (batteria), qui Heroes. Uno di quei dischi che ascolti senza mai stancarti, ricco di atmosfere e ritmi che richiamano momenti struggenti nella storia della musica del Novecento (e non solo…).

Dr. Lonnie SmithBreathe

Dr. Lonnie Smith, tastierista negli anni Sessanta del quartetto di Geroge Benson, è uno dei pochi al mondo a fare musica con l’Hammond B3, uno degli strumenti leggendari per ogni tastierista che si rispetti. L’Hammond ha fatto la storia del rock, pensate a John Lord dei Deep Purple, o John Paul Jones, bassista e tastierista dei Led Zeppelin, ma l’elenco è lungo! Il  nuovo album del settantottenne newyorkese uscito il 26 marzo vede anche la partecipazione di Iggy Pop in due brani, Why can’t we live together, rivisitazione dello storico pezzo di Timmy Thomas del 1972, e Sunshine Superman, pezzo di Donovan dall’album omonimo del 1966, entrambi di grande impatto.