La casa armonica di Valerio Corzani ed Erica Scherl

La musica che cattura l’attenzione e dà emozioni è quella che vive nei piccoli particolari. Basta un accento, un semitono, un effetto. Una sensazione che ho provato fin dalle prime note ascoltando Valerio Corzani ed Erica Scherl, gli Interiors, nel loro ultimo lavoro, Overtones + Overtones Remix.

Il nome che si è dato il duo è quanto mai calzante rispetto alla loro idea di musica e, soprattutto, di questo nuovo album. Interni, che possono essere luoghi fisici o mentali. Luoghi, come li intendeva il filosofo Heidegger nei suoi studi ontotopologici, che coincidono con l’edificare e, dunque, l’abitare. Costruire e mettere a dimora la musica è un’immagine che veste perfettamente in Valerio ed Erica.

Vediamo innanzitutto la costruzione fisica di questo nuovo luogo nei luoghi battezzato Overtones: un doppio album, composto da 14 brani originali, dove il duo si avvale di collaborazioni molto azzeccate, da Luca Andriolo, aka, Swanz the Lonely Cat, autore ed esecutore del testo in More Overtones, Luigi Cinque che suona il sax digitale, il mitico Massimo Martellotta, tastierista dei Calibro 35, il batterista e percussionista Marco Zanotti della Classica Orchestra Afrobeat, le chitarre del polistrumentista Massimiliano Amadori, il clarinettista Gianfranco De Franco e l’ukulele di Camilla Serpieri. Questo il primo disco. Il secondo presenta nove remix dei brani precedenti, realizzati dal gotha dei producer italiani Filoq, Vinx Scorza, Manuel Volpe & Rhabdomantic Orchestra, DLewis e Francesco Colagrande. Ciò a significare che la musica può (e deve) rivivere in molti modi, avere più anime, più punti di vista…

La casa è, dunque, solida, ricca di domotica ma dalle robuste pareti classiche, jazz e contemporanee, dove l’elettronica e il digitale si inseriscono in modo omogeneo. La bravura del duo sta proprio nell’equilibrio tra musica analogica ed elettronica. Una dimora senza spigoli, piena di curve armoniche, come sarebbe piaciuta all’architetto Niemeyer! 

Il pezzo d’apertura di Overtones, Little Lullaby è giustamente il manifesto più evidente di quanto vi sto raccontando: il violino di Erica surfa su onde sonore, mentre il basso “dub” di Valerio scandisce il percorso con profondità assolute, accompagnati da una voce femminile, sciamanica… Il violino tesse melodie anche in More Overtones, con la voce di Luca Swanz Andriolo che ci mette la ruvidezza e il pathos del compianto Mark Lanegan… Grazie per la citazione!

Come faccio sempre, per darvi un’identità il più possibile completa degli artisti e degli album che vi presento, li ho contattati. Ne è uscita una interessante chiacchierata a tre su musica, tendenze, elettronica…

Valerio, in attesa che si colleghi Erica, gran bel disco!
«Grazie! È il quarto del nostro sodalizio (gli altri tre sono Liquid, 2013, Plugged, 2016, ed Escape from The War, 2019, ndr). Anche noi siamo contenti, perché lo sentiamo più maturo, siamo riusciti a calibrare ciò che volevamo fare, poi magari può non piacere lo stesso. La poetica che avevamo sognato sta in equilibrio, sia la parte melodica, sia quei piccoli tocchi di noise che arrivano improvvisi. Il glitch c’è spesso, siamo entrambi fan di Arto Lindsay! Ultimamente nei suoi lavori c’è molta melodia ma poi ti arriva quella sciabolata improvvisa che ti stende».

Parliamo di musica elettronica… Aspetta Valerio! Sta arrivando Erica, giusto in tempo… Dunque, Erica, sei una violinista classica ma sei anche una musicista curiosa che prende volentieri altre strade. Cosa vedete tu e Valerio in questo genere musicale?
Erica: «Sicuramente non si può dire che il violino non sia uno strumento acustico con poche possibilità sonore, però, nello sposarsi con strumenti elettronici quali il basso o altre diavolerie che usa Valerio, mi sono trovata spesso a provare la necessità di avere un mezzo che riuscisse a rendere le sfumature di cui il violino è capace senza rinunciare ad aspetti relativi al volume e alla varietà di suoni prodotti. È stato un desiderio espressivo, poter esplorare una gamma molto ampia di sonorità diverse con un mezzo che mi supportasse e consentisse esplorazioni nelle quali il violino da solo non è tanto adatto. Niente di rockettaro, come c’è in tanti violinisti elettronici, piuttosto la volontà di spingere lo strumento violino verso linguaggi extra classici».
Valerio: «È stato strano, rispetto alla mia storia, anche per me. Negli anni Novanta ero legato molto alla patchanka: quando suonavo nei Mau Mau venivamo chiamati una tribù acustica, l’elettronica la intercettavamo. In realtà, come Erica, sono sempre stato uno profondamente bulimico quanto a musica. Ho ascoltato e ascolto di tutto. Mi sono laureato con una tesi su John Cage, che con l’elettronica ante litteram ha fatto molte cose. Quando abbiamo deciso di costituire il duo, abbiamo subito concordato che l’elettronica andava approfondita meglio, sia per quanto riguardava il basso elettrico sia per l’uso di strumentazioni digitali che aprono un mondo di possibilità, grazie a una tavolozza timbrica infinita. Senza abusarne, però: se usata con attenzione dà grandi opportunità. Inoltre, volevamo impiegarla dal vivo con un approccio analogico. Sul palco suono molti strumenti, l’iPad, l’iPhone, il laptop. Lo faccio manualmente, sia utilizzando alcune app in sostituzione di strumenti che altrimenti non potremmo portarci dietro, sia con app che producono suoni».

Il vostro essere un duo, violino, basso più elettronica vi fa sentire completi o sentite la mancanza di altri elementi?
Valerio: «Hai fatto centro! Perché dal vivo, d’ora in avanti, saremo un trio! Abbiamo aggiunto Gaetano Alfonsi alla batteria che usa gli strumenti come noi, dosando l’elettronica. Soprattutto live, sentivamo l’assenza di un gioco con le dinamiche». 

Il basso chiama la batteria…
Valerio: «In effetti, abbiamo fatto le prove proprio ieri e ora godo! Erica ed io veniamo da esperienze di “live vero”. Per questo, come Interiors, non adoperiamo due vestiti diversi, uno per il disco e un altro per il live. Chi ci ascolta e viene a vederci dal vivo sente le stesse musiche dell’album. Capisco, ogni tanto succede che vai a un concerto di elettronica e vedi sul palco due che sembrano impiegati delle poste, non sai bene cosa stiano facendo, sono dietro ai computer, ogni tanto bevono un po’ di vino bianco, ti fidi… Nel nostro caso si percepisce che stiamo lavorando, suonando per davvero…».
Erica: «Abbiamo solo quattro arti per ciascuno. Se nella vita normale vanno bene, sono pochi per rendere al meglio la tessitura delle nostre composizioni. Abbiamo sentito l’esigenza di avere  un batterista per i motivi che ti diceva Valerio, ma anche perché volevamo godercela un po’ di più. Di questi tempi non è semplicissimo, più si è e meno semplice è viaggiare. Uno in più però va bene!».

Il vostro “ascoltatore tipo”?
Valerio: «Il violino è un piccolo lasciapassare per gente che non ascolterebbe quello che facciamo, ha comunque un appeal. Stiamo sempre molto attenti a collocare la nostra musica nei luoghi adatti. Abbiamo suonato nei festival del cinema sonorizzando documentari, perché la nostra musica si presta bene anche a questo, ci siamo esibiti nella Grotta del Bue Marino a Cala Gononea Chamois in Valle d’Aosta, dove c’è un bellissimo festival, il CHAMOISic Altra Musica in Alta Quota. Ma anche in gallerie d’arte, o in festival Off e non Off che hanno un perimetro d’azione stilistica piuttosto dilatato. Alla fine la gente è diversificata, il target è comunque abbastanza giovanile, anche se, quando abbiamo sonorizzato i documentari e i super8 sperimentali di Derek Jarman o, quello che stiamo preparando ora, Fata Morgana di Herzog, il pubblico è decisamente molto più anziano. Sono coinvolti, vogliono anche loro entrare nel nostro trip!».

A proposito di trip, la vostra è una musica che fa viaggiare. Quando la concepite avete un’idea del luogo dove vorreste collocarla?
Erica: «Siamo viaggiatori molto appassionati, quindi nel momento in cui componiamo è come se tutte le esperienze di viaggio che abbiamo fatto nella nostra vita – e che si spera faremo – decantassero nella musica. Non ci sono collocazioni precise, è come un altrove generico non vuole avere appartenenze particolari, anche se certe atmosfere potrebbero richiamare alla World Music. Auspichiamo che possa essere la sonorizzazione di un bosco di un laghetto di un mare».
Valerio: «Ci sono alcuni pezzi, tipo Walking Wild, che già nel titolo si portano dietro un piccolo passaporto di attitudine nomade. Non è detto che, componendola, volessimo andare in un posto preciso, abbiamo la stessa attitudine nel cercare la natura selvaggia e nel suggerirla attraverso le note. Così come nel nostro primo disco, Liquid, c’era un’attenzione speciale al mondo liquido. Con il brano Blue Darkness e il relativo video, che mostra il tuffo nel lago di un ragazzo in slowmotion, girato dal regista canadese Justin Bolduc-Turpin (con il quale abbiamo vinto un concorso per musiche che sonorizzavano video con oggetto lacustre), non era un lago preciso, poteva essere il padre di tuti i laghi!».

Veniamo al disco: mi ha incuriosito la zona Remix…
Valerio: «Abbiamo tanti amici, molti hanno suonato anche nella prima parte di Overtones. La nostra idea è stata chiedere, a costo di rischiare, di trasformare un nostro brano in qualcosa di nuovo, come se ci fosse uno sguardo su un tuo sguardo. Filoq, per esempio, musicista che stimiamo moltissimo, è anche il responsabile di tutta la parte elettronica dell’Istituto Italiano di Cumbia, progetto nato per volontà di Davide Toffolo (Tre Allegri Ragazzi Morti, ndr), ha reso il nostro pezzo Walking Wild un’altra cosa, completamente diversa, ci piace molto. La parte Remix è molto più variegata e, allo stesso tempo, ci troviamo le tracce del nostro lavoro».
Erica: «È stata una scommessa, come quando tu chiedi a un pittore che apprezzi che ti dipinga un ritratto: può essere che ti faccia cubista oppure molto verosimile, ma alla fine se ti piace l’artista ti piace anche il ritratto…».

Vi è piaciuto tutto del Remix, dunque!
Valerio: «Ci è piaciuto talmente tanto che due pezzi li abbiamo remixati noi. Massimo Martellotta ci aveva mandato, un po’ in extremis, una parte piuttosto lunga per Due di Due, nel disco principale. Non volevamo sprecare il suo lavoro, quindi abbiamo deciso di remixarla puntando quasi esclusivamente sulle tastiere di Massimo».

Com’è il vostro processo creativo?
Valerio: «Quasi sempre nasce da qualcosa che ho “stropicciato” con l’elettronica o con il basso; poi Erica scrive, molto spesso ci aggiunge la melodia principale. Poi lo teniamo per un po’ in brutta copia, registrandolo con l’iPhone, per averlo sempre a portata di mano. Quando ci spostiamo in studio di registrazione – lavoriamo sempre con il nostro tecnico del suono di fiducia, Roberto Passuti – scatta qualcosa di magico e fila tutto liscio, si lavora intensamente, senza intoppi. È successo così per tutti e quattro gli album. In passato ho ricordi di registrazioni di dischi che diventavano dei calvari, si sfaldavano anche band solo per alzare di due tacche il volume di una chitarra elettrica. In questo caso è quasi sempre piatto, in senso buono però!».

Come vedete la musica italiana in questo momento? Tanti bravi artisti sconosciuti e un mainstream senz’anima…
Erica: «Secondo me è una scena estremamente vitale con un sacco di musicisti pazzeschi. Purtroppo, però, lo sai che esistono se te li vai a cercare. È come se ci fosse una sorta di forbice molto larga tra quello che ascolta la maggior parte delle persone e quella che è la realtà della musica italiana, al di là dei generi molto variegati: e cioè, molta qualità e di altissimo livello. Vorrei invitare tutti a non fermarsi alla superficie delle cose, ma a scavare…».
Valerio: «Sono d’accordo con Erica, ho poco da aggiungere, la vorrei lasciare così, perché lei ci ha messo l’afflato positivo. Volendo proprio dire qualcosina in più, una piccola ombra su quello che è successo negli ultimi tempi è che rimangono sì tantissimi artisti nascosti che continuano a produrre, ma ci sono molti altri, anche quelli che arrivano dal cosiddetto mondo indie, che hanno calato le braghe. È come se si fosse abbassata l’asticella della difficoltà d’ascolto, dell’introspezione nei testi, della ricerca nei suoni. È, ovviamente, una scorciatoia che rende! Se me l’aspettavo da alcuni, perché quello è sempre stato il loro mondo, rimane il fatto che c’è un bel plotoncino di gente che ho avuto sempre al mio fianco e che ha ceduto. Ciò mi provoca un piccolo moto di saudade. Mi riaccodo al sentimento entusiastico di Erica che bisogna continuare a essere curiosi, sia noi musicisti, sia i giornalisti che si occupano di musica e soprattutto mettere dei piccoli “shining” nel pubblico, farglieli arrivare, stai sicuro che la gente si lascia attrarre…».

Erica: «Non me l’hai chiesto ma lo dico lo stesso: se dovessi dare un consiglio a musicisti che hanno voglia di fare musica, suggerisco di essere coraggiosi e curiosi, di curare sempre molto la qualità a qualsiasi genere ci si dedichi. Un lavoro ben fatto si riconosce sempre, anche in molta musica mainstream, nonostante il ben fatto non coincida con creativo. Siccome la felicità in quello che si fa è fondamentale, direi di ricercare sempre un cuore nelle cose che si producono».

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