Antidoti alla quarantena: tre artiste da ascoltare per rilassare l’anima

Agnes Obel, Anna Meredith, Kate Miller-Heidke. La prima, danese di Copenhagen, la seconda, londinese di Tufnell Park cresciuta in Scozia, la terza australiana di Gladstone, Queensland. Tutte e tre sono nate tra la fine degli anni Settanta e gli inizi degli Ottanta, Agnes ha 39 anni, Anna 42 e Kate 38. Sono tre artiste, compositrici, che hanno molto in comune tra loro. Innanzitutto provengono da studi classici, Agnes, figlia di una pianista suona il pianoforte da quando era piccola. Anna ha studiato al conservatorio di Edimburgo, suonato e composto per la BBC Scottish Simphony Orchestra e  per i suoi meriti nel campo della musica è stata insignita dalla regina Elisabetta del prestigioso MBE, Member of the Order of the British Empire. Kate, studi classici al Queensland Conservatorium di Griffith, nasce come cantante lirica, soprano. Inoltre, hanno iniziato più o meno tutte a produrre dischi negli stessi anni: Kate Miller-Heidke è stata la prima, nel 2007 con Little Eve, Agnes Obel, nel 2010 con lo spettacolare Philarmonics, mentre Anna Meredith nel 2012 con un EP di musica elettronica, Black Prince Fury.

Perché ve ne sto parlando? Perché le tre signore in questione hanno saputo trarre dalla musica classica una chiave di lettura per proporre un altro tipo di musica che, sinceramente, non saprei come definire, senza confini, con contaminazioni elettroniche, sperimentali, “mistiche”, pop sofisticato, indie raffinato, insomma una musica colta ma accessibile.

L’ultimo lavoro di Agnes Obel, Myopia, quarto album dell’artista danese uscito il 21 febbraio scorso, pubblicato dalla prestigiosa Deutsche Grammophone (il che la dice lunga…), creato e prodotto nella casa studio di Berlino, dove vive da parecchi anni, è, come sostiene la webzine Pitchfork, “il vertice della sua lussureggiante malinconia”, una meticolosa fusione di pianoforte e voce, crescendo di atmosfere che ti avvolgono e incantano. Un disco che metteresti in loop perché aiuta la concentrazione, portandoti a stati mentali positivi (a maggior ragione ora che siamo confinati nelle nostre case…). Se volete immergervi nei meandri di note e voce ascoltate Camera’s Rolling, o anche Broken Sleep. Molto intrigante, uno dei tre brani solo musicali dell’album, Parliament of Owls.

Anna Meredith, a parte due Ep, ha prodotto il suo primo album nel 2016, Varmints (che tradotto suona come “mascalzoni”) album elettro pop, che ha voluto perfezionare in Fibs (frottole), disco uscito il 25 settembre dello scorso anno, dove si lascia andare a un classic-elettro con accenni rock e pop degno di nota. Guardate e ascoltate il video di Paramour, decimo brano dell’album, davvero divertente. Tra i due dischi la Meredith ne ha pubblicato un altro nel 2018, intitolato Anno: Four Season by Anna Meredith & Antonio Vivaldi, eseguito con la Scottish Ensemble e il violinista Johnatan Morton. Le Quattro Stagioni di Vivaldi sono uno dei pezzi di classica più conosciuti al mondo. La Meredith le ha “smontate” e “rimontate” remixate, aggiungendo un tocco magico all’opera del sacerdote veneziano, “re” della musica barocca.

E veniamo a Kate Miller-Heidke. Ha publicato quattro dischi, come la Obel, ma si muove con maggiore scioltezza nei percorsi pop mainstream. Per capirlo basta ascoltare O Vertigo!, brano tratto dall’omonimo lavoro del 2015, qui dal vivo con la Melbourne Simphony Orchestra. La Miller-Heidke ha pubblicato lo scorso gennaio un Ep con un’unica canzone, Zero Gravity, rivista e remixata in sei brani diversi. Il brano è stato scelto dall’Australia per partecipare alle semifinali dell’Eurovision Festival 2019.

Permettetemi un ultimo accenno. Ma questo vale per la Obel e la Miller-Heidke. Entrambe ricordano, la prima nella composizione e la seconda nell’estensione vocale, la mitica Kate Bush, artista parca nella produzione musicale ma di estremo talento. Il suo Running Up to the Hill dall’album del 1985 Hounds of Love o il più riflessivo Snowflake, che racconta il viaggio di un fiocco di neve dal cielo alla terra dal disco 50 Words For Snow del 2011, sembrano contenere le due anime di Agnes e Kate, la magia di percorsi musicali nati dai tasti di un pianoforte e da una voce particolarmente dotata.

Ozzy Osbourne, arriva “Ordinary Man”, ma non è il solo… uomo comune

Oggi esce il tanto atteso disco di Ozzy Osbourne, Ordinary Man, un gran bell’album, perfetto, rètro al punto giusto, chitarre cupe ed esplosive, voce metallica ancora da “Principe delle Tenebre”, collaborazioni prestigiose (sir Elton John, Post Malone, Tom Morello, Trevis Scott, il produttore Andrew Watt alla chitarra, Duff McKagan dei Guns N’ Roses al basso, Chad Smith dei Red Hot Chili Peppers alla batteria, Slash nell’assolo finale del brano che apre l’album, Streight To Hell, e in Ordinary Man).

L’ex-frontman dei Black Sabbath è un signore di 71 anni che ha vissuto senza risparmiarsi tra droghe, alcol e mattane varie, da vera rockstar. Si rende conto che sta invecchiando e che deve fare i conti con la propria vita, a maggior ragione ora che ha annunciato d’essere ammalato di Parkinson. Addio alle provocazioni, dunque? C’è da dubitarne, anche se Ozzy appare più riflessivo. Ma come dimenticare, tra le mille, quella che fece esattamente 38 anni e tre giorni fa, il 19 febbraio del 1982, quando venne arrestato a San Antonio (Texas) per aver urinato sul monumento in ricordo degli americani che morirono nella battaglia di Alamo? Intervistato, calcò la mano, dichiarando che il suo prossimo obiettivo era pisciare sul prato della Casa Bianca a Washington (allora era presidente Ronald Reagan).

Visto che stiamo parlando di Ozzy, tanto per rimanere in tema riflessivo, anche la sequenza dei titoli delle canzoni rientrano in questa sua elaborata cupezza senile. Provate a recitarli, tradotti, come se fossero l’insieme di un testo poetico…

Straight To Hell
All My Life
Goodby
Ordinary Man
Under The Graveyard
Eat Me
Scary Little Green Men
Holy For Tonight
It’s A Raid
Take What You Want

Dritto all’inferno,
Tutta la mia vita…
Arrivederci
Uomo Comune.
Sotto la tomba,
Mangiami.
Oggi è la Fine,
Spaventoso, piccolo uomo Verde,
Santo per questa notte.
È un assalto
Prendi quello che vuoi…

Oltre all’Ordinary Man di Ozzy – qui sotto le prime strofe del brano – nella storia recente della musica ci sono molti brani (e qualche titolo di disco) che portano lo stesso nome, “Uomo Comune”. Ne ho selezionati alcuni, tra i più conosciuti. 

I was unprepared for fame
Then everybody knew my name
No more lonely nights, it’s all for you
I have traveled many miles
I’ve seen tears and I’ve seen smiles
Just remember that it’s all for you
Don’t forget me as the colors fade
When the lights go down, it’s just an empty stage

Non ero pronto per la fama
Poi tutti hanno conosciuto il mio nome
Non più notti solitarie, e tutto per te
Ho percorso molte miglia
Ho visto lacrime e sorrisi
Ricorda che è tutto per te
Non dimenticarmi mentre i colori sbiadiscono
Quando le luci calano, è soltanto un palco vuoto…

 

Christy Moore artista folk irlandese impegnato, pubblica nel 1985 Ordinary Man. Il brano è stato ripreso anche da altri musicisti, come il chitarrista inglese Alvin Lee.
«I’m an ordinary man, nothing special nothing grand
I’ve had to work for everything I own
I never asked for a lot, I was happy with what I got
Enough to keep my family and my home
Now they say that times are hard and they’ve handed me my cards
They say there’s not the work to go around
And when the whistle blows, the gates will finally close
Tonight they’re going to shut this factory down
Then they’ll tear it d-o-w-n…»

«Sono un uomo normale, niente di speciale, niente di eccezionale
Ho dovuto lavorare per tutto ciò che possiedo
Non ho mai chiesto molto, ero contento di quello che avevo
Abbastanza per mantenere la mia famiglia e la mia casa
Ora dicono che i tempi sono difficili e mi hanno dato le mie carte
Dicono che non c’è lavoro abbastanza per tutti
E quando il fischio soffia, le porte si chiuderanno finalmente
Stasera chiuderanno questa fabbrica
Visto che poi l’abbatteranno…»

Eels, Una versione molto sentita questa Ordinary Man di Mark Everett, leader della band indie rock americana.
«Well, it’s another warm day in the city of cold hearts
They all just play the part of who they are
And I’m here on my own, I’d rather be alone
Than try to be someone that I’m not
And you seem like someone who could
Appreciate the fact that I’m no ordinary man…»

«Va bene, è un altro giorno caldo nella città dei cuori freddi
Tutti recitano la parte di quello che sono
Io sono qui da solo, preferirei essere solo
Piuttosto che cercare di apparire qualcuno che non sono
E tu sembri quello che potrebbe
apprezzare il fatto che non sono un uomo normale…»

Johnatan Coulton Anche il 49enne artista indie folk newyorkese ha la sua Ordinary Man dall’album Solid State del 2017…
«Now your heart’s all done
But your head won’t let you run
You’re dying where you stand.
All this “wait and see”,
All this “what will be, will be”,
That sounds like the plan
Of an ordinary man…»

«Ora il tuo cuore è finito
Ma la tua testa non ti lascia correre
Stai morendo lì dove sei.
Tutto questo “aspetta e vedi”,
Tutto questo “ciò che sarà, sarà”,
Sembra essere il piano
Di un uomo normale…»

Mika Michael Holbrook Penniman Jr., in arte Mika, può vantare una emozionante Ordinary Man, tratta dall’album No Place in Heaven del 2015.
«So you say it’s ordinary, love?
That’s impossible to do.
No such thing as ordinary, love.
I was ordinary just to you…»

«Quindi dici che è comune, amore?
Questo è impossibile.
Non esiste una cosa che sia normale, amore.
Ero normale solo per te…»

Lloyd Parks, in versione reggae pubblicata nel 1972 dal musicista jamaicano, ecco la sua Ordinary Man.
«Something told me, it was like an holiday,
And something say now: that I should stay.
It’s that crazy kind of feeling in my soul!
It’s that crazy kind of feeling, that sets me wheeling.
Why should I, now, be working this way?
And when I work, yeh, I can’t get my pay.
See, I’m just an ordinary man, yeh, yeh, yeh.
I’m just an ordinary man and you know it’s true…»

«Qualcosa mi dice che era come una vacanza
e qualcosa mi dice ora che dovrei restare.
È quella folle sensazione nella mia anima!
È quella folle sensazione, che mi fa muovere.
Perché, ora, dovrei lavorare così?
E quando lavoro, non vengo pagato.
Vedi, sono solo un uomo normale, sì, sì, sì.
Sono solo un uomo normale e sai che è vero…»

The Doobie Brothers C’è un Ordinary Man tratto da Sibling Rivalry (2000) anche per la longeva rock blues band a stelle e strisce…
«In between the doubts and the dreamin’
Comes my humble quest for a plan.
I’ve been out there hoverin’ by,
Don’t forget to pull me in sometimes.
Will you be with me as I make my journey
Through the labyrinth of time?
And I’m still waitin’ for the good Lord
To show me the way, babe.
This is who you see, this is who I am.
Please forgive me if I fall sometimes,
Just an ordinary man…»

«Tra i dubbi e il sogno
Arriva la mia sommessa ricerca di un piano.
Sono stato là fuori in bilico,
Non dimenticare di coinvolgermi qualche volta.
Verrai con me nel mio percorso
Attraverso il labirinto del tempo?
E sto ancora aspettando il buon Dio
che mi mostri la strada, piccola.
Questo è quello che vedi, questo è quello che sono.
Per favore, perdonami se a volte cado,
Sono solo un uomo normale…»

The MacQueens Una coppia nella vita e un duo alternative folk indie nel lavoro. Così cantano la loro Ordinary Man
«I’m not a hero or a villain too,
I’m not a liar, I’m an honest dude.
I might have a complex but so do you
I’ve got no love for all yours rules.
I’m just my own kind of ordinary man…»

«Non sono un eroe e nemmeno un malvagio,
Non sono un bugiardo, sono un tipo onesto.
Potrei avere un problema, ma così anche tu
Non mi appassiono per tutte le tue regole.
Sono solo il tipo di uomo normale…»

Oltre a questi autori, molti altri hanno intitolato la loro canzone Ordinary Man, dall’irlandese John Donohoe con la sua musica “folk gospel” ai Chinese Man, collettivo di dj francese, ai veronesi Kiowa, stoner rock band che ha appena rilasciato il suo primo lavoro, Bloom. E ancora, la metal band americana del Connecticut GoRJA, i Day One, band di Bristol, il cui primo album, pubblicato 20 anni fa, si intitolava proprio Ordinary Man.

Incontri/ Ludwig van Beethoven, Freddie Mercury and… friends

Il 2020 sarà l’anno di Ludwig van Beethoven. Si festeggiano, infatti, i 250 anni dalla nascita del compositore che, tra il XVIII e il XIX secolo, ha sovvertito la musica gettando le basi per le moderne evoluzioni del pentagramma. È un’iperbole, ma senza l’arte del musicista di Bonn forse non avremmo avuto Eminem (parentesi: il suo nuovo Music to be Murdered By, rilasciato qualche giorno fa, è davvero un gran bel lavoro…).

Per chi fosse interessato alle iniziative (sono tantissime e in tutto il mondo) può collegarsi al sito BHTVN2020 (è l’abbreviazione del cognome usata dallo stesso maestro per firmare le sue composizioni). Che Beethoven, sordo, burbero, più propenso a omaggiare la borghesia piuttosto che nobili e imperatori, sia stato un genio della musica è incontestabile. Erano anni che non lo ascoltavo più. Mi sono rimesso in cuffia tutte le nove sinfonie, le sonate per pianoforte e violino e confesso che più lo ascoltavo e più mi veniva voglia di risentirlo.

Sulle note che chiudono la Settima Sinfonia (il IV Movimento, Allegro con brio), simile alle chiuse delle opulente opere rock con crescendo, timpani a scandire il rincorrersi di archi e fiati uguali a chitarre elettriche, basso e batteria che pompano senza tregua, ho iniziato a fare un gioco: se Ludwig van Beethoven fosse vissuto ai giorni nostri chi avrebbe potuto incarnare? I primi che mi sono venuti in mente sono stati i Queen: la loro versione “fast” di We Will Rock You eseguita nel memorabile concerto al Forum de Montréal il 24 novembre del 1981 (poi pubblicato in un doppio cd nel 2007) ne è una plastica dimostrazione.

La stessa, eterna, Bohemian Rhapsody potrebbe essere il concentrato di una sinfonia beethoveniana: gli stilemi ci sono tutti nella apparente folle, ma tecnicamente perfetta, creazione di Freddie, Brian, John e Roger.

Nella ricerca di nuovi orizzonti complessi, Master Ludwig avrebbe potuto sedersi al posto di Rick Wakeman, il tastierista degli Yes, che nel 1973 compose una delle pietre miliari del genere prog: The Six Wives of Henry VIII: da riascoltare Anne of Cleaves o Catherine Howard.

Il rock s’è sempre interessato al musicista tedesco, A partire dal lontano 1956, quando uno scatenato Chuck Barry cantava Roll Over Beethoven (qui, una clip) non proprio un inno al compositore: “Roll over Beethoven And tell Tchaikovsky the news” (Passa sopra Beethoven e dà la notizia a Tchaikovsky), cantava lo scatenato padre del rock.

Mentre gli Ekseption, gruppo rock olandese, nel 1969 pubblicano The Fifth, personale rielaborazione del lavoro beethoveniano e, nel 1977, in piena agitazione disco, Walter Murphy fa ballare, sempre sulle note della Quinta, una generazione di scatenati “febbricitanti del sabato sera”. Anche Billy Joel, in onore del suo passato di pianista “classico” innamorato della musica di Ludwig dichiarò il suo amore per il tedesco: il refrain di This Night (dal disco An Innocent Man del 1983) è sulle note de La Patetica, la Sonata per pianoforte n. 8 dell’artista.

Mentre un disco latin-jazz uscito il 25 ottobre 2019, dei Klazz Brothers & Cuba Percussion (formazione tedesca con innesto di percussioni cubane) rilegge le composizioni del maestro con congas e timbales. Non poteva mancare la melodia più famosa (oltre a l’Ode alla Gioia, diventato inno dell’Unione Europea): Für Elise

Per terminare il nostro divertissement,  c’è anche la trasposizione, osiamo, beethoveniana!, dal rock alla classica. Nel caso specifico dei Queen: due musicisti classici, il violinista Vlad Maistorovici e il pianista Dario Bonuccelli, hanno rivisitato i più famosi brani della band inglese. Qui una versione di Maistorovici con i The Mercury Quartet.