Musica e idoli 2/ La parola allo psicologo

Ok, l’ho trovato. Non che sia stato facile, l’Italia, dati ricavati dal Consiglio nazionale dell’Ordine degli Psicologi, ne conta 102.890, di questi, 54mila e rotti sono anche psicoterapeuti, un numero altissimo e ancora in espansione, a quanto pare. Ma trovarne uno giovane, 27 anni, che sia anche un musicista (suona la chitarra elettrica), che abbia scritto un libro, La Psicologia del Rock, Crescere con la Musica in Adolescenza (Alpes Italia, 2017), insomma che avesse il profilo ideale per spiegarmi le dinamiche dell’idolatria musicale, è stata stata una pura botta di fortuna.

Lui si chiama Andrea Montesano, è lucano di Potenza, lavora nella capitale, ed è uno psicoterapeuta con una grande passione per la musica che non esita a usare nelle sedute con i suoi pazienti usando la Songtherapy – metodo messo a punto da un suo collega, Romeo Lippi, con il quale collabora tutt’ora – siano questi adolescenti in piena crisi esistenziale/ormonale o adulti in cerca di nuove spinte motivazionali. Per accreditare questa nuova forma di terapia cita Luciano Ligabue: “Canzoni che sanno chi sei molto meglio di te” (da In Pieno Rock’n’Roll).

In questi giorni di ricerca, ho trovato anche un bellissimo articolo su Pitchfork, dal titolo Why Do We Even Listen to New Music? L’autore, Jermey D. Larson, si domanda perché siamo spinti ad ascoltare ancora nuova musica visto che restiamo ancorati alle nostre vecchie glorie. Una volta che ci si affeziona a un genere, un artista, si resta legati per l’eternità, altro che marito e moglie! Eppure la voglia, anzi, il terrore di non ritrovarsi più in un mondo (musicale) profondamente cambiato, a un certo punto della vita viene.

Così si prova a guadagnare il tempo perduto, tra lavoro, matrimonio, figli, mutui e via discorrendo. È una questione di cervello, sostiene Larson. Il nuovo, anche nella musica, ci spaventa, o meglio, spaventa il “nostro computer”, abituato ad ascoltare suoni, melodie, riconoscere voci che ci fanno stare bene. Rifugiarsi nel noto invece di avventurarsi nell’ignoto è uno dei temi cari alla psicologia, ma non solo. Come ben scrive Jonah Lehrer, 38 anni, saggista americano nel suo libro Proust era un neuroscienziato (Codice Edizioni, 2017), “Siamo stati costruiti per aborrire l’incertezza delle novità”.

Ok, questa è una possibile strada per spiegare il perché di certi nostri comportamenti che hanno a che fare, inevitabilmente, con emozioni, amigdala e dopamine. E tutto questo è “roba” da psicologi…
«È una questione piuttosto complessa. Prendo ad esempio me stesso: ho studiato chitarra elettrica, mi sono appassionato alla musica tra la metà degli anni Ottanta e quella degli anni Novanta, Pearl Jam, Jon Bon Jovi, Litfiba, Guns n’ Roses, Bruce Springsteen. Ho i miei autori “stabili”, gli U2, immortali, e i Coldplay, mi piace la contaminazione elettronica. È più o meno la musica della mia adolescenza…».

Quindi, parte tutto da lì, da quel periodo dove non sai chi sei, da dove vieni e dove vuoi andare…
«Sì dal nostro Io Adolescente e dall’adolescente reale. Vado spesso a concerti perché mi piace studiare le dinamiche del pubblico. Nell’adulto concerto significa non solo l’esibizione in sé, ovvio, ma anche tutto ciò che sta attorno all’evento: il rito, l’attesa, la condivisione, l’essere lì tutti insieme per un unico motivo, fa emergere quella parte di adolescente viva, ricca che richiama alla tua giovinezza, alla parte più ingenua dell’adulto. È una forte tensione emotiva, soprattutto se tendiamo a inquadrare un adulto che lo è solo di fatto, per età. Mi domando: un trentenne è un adulto? Oggi persone tra i 35 e i 40 stanno ancora a casa dei genitori, sono scostanti nelle relazioni…».

Sono in un’adolescenza prolungata…
«Sì, e il mio lavoro consiste di far capire le ragioni di tali comportamenti. Lo faccio attraverso una canzone, può essere un approccio, e funziona. Ognuno, nei ricordi ha una canzone, sia allegra sia triste, che lo lega a un determinato periodo della propria vita. Parlare del brano porta spesso ad agganciarti a ricordi e quindi a rielaborare, capire il motivo del disagio. Con gli adolescenti è più facile».

Perché, per metterla in poetico come hai fatto tu: “Non esiste differenza tra la morte di una rosa e l’adolescenza”, citazione da Betty dei Baustelle…
«I problemi degli adolescenti sono legati al crescere, alla scoperta del sesso, all’appartenenza e alla differenziazione».

Ti riporto sugli artisti che diventano idoli, leggende, immortali
«Rispondo con un aneddoto. Ero all’ultimo anno di università e sono andato con alcuni amici a vedere il concerto di Laura Pausini. Mi interessava capire come mai, a prescindere dalla bravura dell’artista, lei riuscisse a raccogliere così tanta gente e in tutto il mondo. Volevo vedere con i miei occhi come riusciva a creare un così forte “appeal”. Arriva il momento in cui canta Simili. Dietro a questo brano, a livello scenico tutto era studiato al dettaglio. Sul finale della canzone luci, fulmini, crescendo. Lei a quel punto allunga le mani verso il pubblico come a stringerle in una presa universale. E il pubblico immediatamente risponde, ripetendo verso di lei il gesto. La distanza fisica tra palco e platea, tra sacro e profano, veniva improvvisamente a mancare. Tutte quelle mani erano unite alle sue. Il rito s’era compiuto: il palco come un altare dove si celebra una cerimonia sacra, i fan, come i fedeli, in venerazione..».

Un credo cieco, definitivo, una fede…
«Esatto. Per spiegare torniamo ancora all’adolescenza, dove avvengono una serie di cose: innanzitutto, ci si ritrova dentro e si vive quel determinato periodo storico. E ascoltare, soprattutto la musica, significa appartenenza ma anche differenziazione, dalla famiglia o da un gruppo di amici. Quindi, ne discende che, per essere diverso in casa, mi creo un mio mondo, e in questo processo mi posso appropriare di un artista ascoltato dai miei genitori o prenderne le distanze, come a dire: ero legato a te ma adesso scelgo di abbracciare un genere diverso dal tuo».

In questi anni va il rap e la trap, negli anni Settanta c’era il rock e il punk, il funk…
«È questione di momento storico, come dicevo, e di linguaggio. Oggi gli adolescenti si riconoscono per lo più in quel genere musicale. Questione identitaria ma anche timore di essere esclusi dal gruppo…».

E arriviamo al dilemma: da adulti quindi…
«…Manteniamo l’imprinting musicale che abbiamo avuto da adolescenti. La musica è ancorata ai ricordi. Per questo trovare un senso che mi leghi a un autore o un brano da adulti è più difficile. Potrei legarmi, che ne so, a Lady Gaga perché è un’artista che ha fatto un percorso molto difficile, dalla sosia di Madonna è diventata una star planetaria con una sua identità, raffinata. Posso apprezzare tutto ciò ma difficilmente renderla un mio idolo. Sarebbe complicato gettare il proprio idolo e prenderne un altro! L’ideale, soprattutto se si è genitori di figli adolescenti, è cercare di aprire un canale di dialogo, trovare il senso di quello che si ascolta, aprire uno spazio di condivisione su un determinato artista, parlarne».

La musica è emozione e l’emozione ha a che fare con il cervello…
«Quando ascolto musica attivo delle funzioni cerebrali e vado a stimolare l’amigdala il nucleo che gestisce le nostre emozioni. Una volta stimolata, per esempio da una melodia piacevole, produce dopamina, responsabile di quel senso di piacere che si avverte. È un rilascio fisiologico e vale per tutto, dalla fame al sesso».

Ultima domanda: ma esistono persone “insensibili” alla musica?
«Sì, e questa insensibilità ha un nome, anedonia musicale. L’8 per cento della popolazione vive la musica in maniera indifferente. Non è una colpa e nemmeno una malattia. Semplicemente è Ia non risposta a uno stimolo, l’amigdala non rilascia dopamina».

Musica e Idoli/ Non avrai altra star al di fuori di me!

Prima o poi ci si doveva arrivare. Quando si parla di musica, autori, generi, rockstar, idoli, si toccano tasti sensibili. E te ne accorgi dai commenti ai post che pubblichi sui social. Il fattore psicologico conta molto. Mi sono riproposto di intervistare uno psicologo che mi (ci) possa raccontare quali sono le dinamiche mentali che si attivano in questi casi. Lo farò, devo trovare la giusta materia prima…

Dunque, per chi venera un artista, questo è la sua leggenda, il suo idolo e, soprattutto, una leggenda e un idolo che non avrà mai eredi. Non li può avere perché altrimenti i suddetti metterebbero in discussione l’esistenza della sua immortalità musicale. Da ciò discende (secondo punto) che, anche a distanza di anni e di ovvi cambiamenti di stili, non può esistere un musicista che meriti di ambire alla categoria “idolo numero due, il degno erede di…”, come siamo avvezzi a scrivere quando nuovi artisti si affacciano sulle scene musicali. Punto terzo: i paragoni, su basi ritmiche/musicali e di scrittura testi in senso stretto, non sono ammessi: come osi mettere sullo stesso piano un testo di Gil Scott-Heron con quello di un rapper italiano qualsiasi? Ma dov’è la qualità di questi ultimi? E ancora, Bob Marley, BOB MARLEY!, non ha lasciato star degne della sua altezza, lui aveva quel “quid” in più che lo ha fatto assurgere a leggenda; il nuovo reggae non è reggae ma qualcosa che gli può vagamente assomigliare e, comunque, per potenza espressiva e tipicità del suono (merito anche dei suoi fedeli Wailers), non arriva nemmeno ai piedi della statua del mitico Bob che campeggia nel giardino della sua casa-museo di Kingston.

Ciò fa riflettere e mette pure in crisi: possibile che abbia perso il senso critico? Beh, sì, col passare degli anni ci si ammorbidisce (equivalente gentile al “si rincoglionisce”). E soprattutto, possibile che dopo le “nostre” star non siano nate nuove stelle? Prima di inoltrarmi nello spinoso discorso delle generazioni e delle possibili spiegazioni, vorrei mettere un punto fermo. E per farlo mi appello a uno che di queste cose ne sa abbastanza, per esperienza, bravura e genialità (e già comincio a dare giudizi su un artista che ha segnato il piacere della mia musica). David Byrne, l’ex frontman dei Talking Heads, l’uomo “universale” sempre alla ricerca di nuove forme di musica, l’onnivoro della commistione dei generi, affascinato dalle culture e dalla world music. Nella prefazione al suo libro (da leggere!) Come funziona la musica (Bompiani, 2019) l’autore spiega: «(La musica, ndr) È una cosa forte». E continua: «Il modo in cui la musica funziona, o non funziona, non è determinato da ciò che è di per sé, isolata dal resto (ammesso che una condizione del genere esista), ma in gran parte da ciò che la circonda, da dove e quando la si ascolta. Il modo in cui è eseguita, venduta, distribuita e registrata, chi la esegue e con chi la si ascolta e, naturalmente, come suona…». Parole sante dove è racchiuso più o meno tutto il nostro ragionamento.

La musica dipende da chi la suona, dal momento storico in cui la si assimila, dalla forza commerciale delle label che la spingono, e, soprattutto, dal tuo stato d’animo. Insomma la tua star è amore a primo ascolto, il tuo “personal Jesus” che ti dà sensazioni, emozioni, carica. Ci siamo passati tutti, forse questa inclinazione s’è accentuata in quelli della mia generazione e di quelle immediatamente prossime, che hanno vissuto un genere dirompente, il rock, in un periodo di grande contestazione sociale, legando inevitabilmente adolescenza, musica, politica, pensiero. Mio padre ascoltava Fred Buscaglione, Bruno Martino, mia madre amava la  lirica con escursioni (rare) tra Nilla Pizzi e Orietta Bertii… Per me era spazzatura, o poco ci mancava. Ascoltavo Pink Floyd, Genesis, Jethro Tull, Deep Purple, Talking Heads, Bob Dylan, Van Morrison, Cantautori italiani, bossa nova, jazz, Chuck Mangione, uno dei miei preferiti, Gerry Mulligan, Miles Davies, ma anche classica, Mozart lo consideravo un dispettoso maghetto dalle mille risorse… Mia figlia oggi è pop con innesti rap ma con escursioni trap. Il mondo va avanti e non necessariamente in meglio, viste anche le condizioni in cui ci troviamo ora. Ma non possiamo nemmeno essere così nichilisti.

Ricorro a quel geniaccio di Philip Ball, chimico, fisico e divulgatore inglese, siamo praticamente coetanei, da scienziato ha scritto L’Istinto Musicale (edizioni Dedalo, 2011), dando la sua definizione di musica, che poi coincide con quella di Byrne, detta in altro modo: «È parte di ciò che siamo e del modo in cui percepiamo il mondo». È chiaro che ogni generazione ha i suoi miti. Il problema è che, nella gran parte dei casi, ognuno si tiene i suoi preferiti, restando così ciecamente ancorato alla propria generazione, a uno spazio temporale definito. Spesso mi sento dire: «Son troppo vecchio per dedicarmi a questi nuovi cantanti», o anche «Oggi non si fa più musica, c’è solo porcheria in giro». Ma se spingi il demotivato campione ad approfondire con nuovi autori, magari provenienti da quelli che erano i suoi “primi piatti” musicali, scopri che c’è un grande disorientamento: in genere le persone non  si avvicinano nemmeno, forse perché hanno timore… di non capire. Ci sono, ovviamente, le eccezioni: il mio amico Stefano, cinquantenne, è stranamente (o incautamente?) incuriosito dal rap come fenomeno sociale, per questo va a scovare tutti i dischi possibili, concentrandosi sui testi, non gliene scappa uno! Bruno Martino, tanto per prendere uno degli artisti citati, l’ho capito molti anni dopo, e nella sua bravura di autore ho riconosciuto alcuni dei percorsi sonori che mi appartenevano già.

Sto cercando di farlo con i nuovi artisti, siano essi rapper, trapper, new reggae, rock nelle sue versioni più innovative o estreme, alternativi, elettronici, disco. Ascoltare è la miglior arma per capire. Ma bisogna farlo con metodo per riuscire a penetrare questi nuovi mondi. Noi, astronauti in orbita intorno al pianeta Musica, bardati con tute sigillate per evitare di respirare sostanze “contaminanti”, dobbiamo avere l’umiltà di spogliarci e ascoltare. Potremmo scoprire altre strade meravigliose, magari molto più panoramiche (non si perderà l’originale purezza di gioventù), orizzonti sonori totalmente nuovi.

Concludo dicendovi cosa sto ascoltando ora con grande interesse ijn questi giorni: il jazzista israeliano Avishai Cohen (da non confondere con l’omonimo contrabbassista jazz) con il suo nuovo progetto Big Vicious, album uscito il 20 marzo scorso. Trombettista che esplora tanti generi dal jazz al rock al trip hop. Molto interessante l’interpretazione della beethoveniana Moonlight Sonata. Qui godetevelo in Teardrop, gran bella rivisitazione del brano dei Massive Attack, dall’album Mezzanine (1998). Il,secondo sempre in cuffia è Earth di EOB, il progetto solista di Ed O’Brien, chitarrista dei Radiohead, uscito il 17 aprile. Ci ha messo un bel po’ di tempo a comporlo, otto anni, si è avvalso della collaborazione di grandi artisti, Flood alla produzione, il collega di band Colin Greenwood, al basso, Glenn Kotche, il batterista degli Wilco, Adrian Hutley dei Portishead e molti altri. Ed mette nell’album tanto Brasile, dove ha vissuto nel 2012, a suo modo, ovviamente. Sentite proprio il brano Brasil, dura 8 minuti e 27 secondi! Ultimo disco in ascolto, anche questo uscito da poco, il 10 aprile, è The New Abnormal dei The Strokes. «And now we’ve been unfrozen and we’re back», ha annunciato il frontman della band Julian Casablancas all’uscita del lavoro, dopo sette anni di silenzio, inframmezzato da un EP, Future, Present, Past (2016). Suonano rock, onesto, pulito,  lineare, beatitudiniario e fluidificante per questi giorni. Dietro alla band, il produttore Rick Rubin, una garanzia. Un’infilata di riff, chitarre, synt che ti fa sentire a posto con la vita e con le giornate da affrontare. Qui At The Door.