Massimo Cotto, il Rock spiegato a un adolescente

Ieri nel grande contenitore della Milano Music Week, “in onda” dal 20 al 26 novembre, Massimo Cotto, giornalista, scrittore, dj, docente, uno dei massimi esperti di musica Rock, voce nota di Virgin Radio, con il suo programma Rock & Talk ha presentato Il Rock di Padre in Figli (Gallucci editore, 320 pagg, 16,50 euro). Più che un libro un manifesto del Rock in tutte le sue accezioni, dalla musica, allo stile, alla forma mentis, raccontato al figlio sedicenne, preso come il “rappresentante” di una generazione ignara di cosa possa contenere quella semplice parola. «Raccontare il Rock a mio figlio che ha 16 anni è stato bellissimo, perché ho potuto descrivergli quello che il Rock ha fatto a livello collettivo per la società, ma anche a livello individuale, per ognuno di noi. Tutti abbiamo bisogno di sogni, passione, bellezza, musica. Ognuno le trova in luoghi diversi. Quelli della mia generazione si sono rifugiati nel rock. Il mio libro racconta il Rock, ma, in un certo modo, racconta anche un modo di vivere e sognare», scrive Massimo. Continua a leggere

L’eredità sociale (e musicale) degli anni Ottanta in un libro

Per uno come me, nato agli inizi dei Sessanta del secolo scorso, dove c’era solo la televisione in bianco e nero con un paio di canali, l’evoluzione tech e l’involuzione culturale della specie umana sembrano il viaggio a bordo di un’astronave narrato da Kurt Vonnegut: Winston Niles Rumfoord e il suo cane Kazak in giro per lo spazio profondo risucchiati in un infundibulo cronosinclastico. Distorsioni temporali, queste sono state le tappe dell’adolescenza e della giovinezza di chi è nato in quegli anni.

Adolescenti nei Settanta, con la colonna sonora di Led Zeppelin, Genesis, Yes, King Crimson, Pink Floyd, Guccini, De Andrè, Dalla, Sly & the Family Stone, Marvin Gaye…, affascinati dalle ideologie, con la voglia di conoscere, con la presunzione di farcela comunque, dall’essere contro per necessità vitale.

Giovani uomini e donne negli Ottanta. E qui quel dispettoso infundibulo cronosinclastico ci ha mandati dritti in un bel guaio: dall’idea di comunità si passa al singolare, dall’impegno si scivola nell’edonismo, dalla cultura dell’apprendere si perpetua la licenza del disinteresse. Nei Novanta, quando di anni ne avevamo trenta, l’edonismo ha ceduto alla depressione e, nella musica al grunge dei Nirvana e al pessimismo indie dei Radiohead… Il resto fino ai giorni nostri non è marcante. Anzi, a ben guardare, l’aeronave di Niles continua a stazionare nel parcheggio degli Eighties, con spostamenti minimi. 

Vi starete chiedendo se prima di scrivere queste righe mi sono scolato una cassa di Raboso del Piave di Cecchetto. Invece, la stura dei pensieri, che è un po’ l’inizio di una fase di riorganizzazione dei ricordi, me l’ha fornita un libro che consiglio di leggere, Gli Ottanta. L’Italia tra evasione e illusione di Luca Pollini (E115, 480 pagg, 22 euro). Continua a leggere

Avvenne a Napoli… che tornò la canzone napoletana

Ne avrete sicuramente sentito parlare nei giorni scorsi. Avvenne a Napoli passione per voce e piano, è un libro e un Cd con venti canzoni, lavoro del grande Eduardo De Crescenzo, del pianista jazz Julian Oliver Mazzariello e del giornalista Federico Vacalebre, capo degli spettacoli de Il Mattino di Napoli. Una di quelle operazioni gradite e intelligenti che non si vedono tutti i giorni, grazie anche alla sensibilità di Elisabetta Sgarbi e della “sua” La Nave di Teseo, casa editrice sempre interessante e mai banale, e dell’etichetta Betty Wrong (la Betty Sbagliata, sempre lei, Elisabetta, in veste di discografica, progetto nato durante la pandemia).

Avvenne a Napoli. Un titolo che richiama un passato glorioso, brillante, avventuroso, un libro di Gabriel García Márquez o di Jorge Amado o di Osvaldo Soriano, uno spaccato di storia e cultura di cui oggi rimane ben poco, se non una annacquata – e spesso inutile – imitazione.

Eduardo De Crescenzo – Foto Peppe Russo

Un libro e un disco che parlano di un momento magico di Napoli, anni irripetibili, che hanno sconvolto i canoni musicali del tempo (stiamo parlando della metà Ottocento e dei primi anni del Novecento) e che hanno, di fatto, portato la città partenopea al centro di una rivoluzione in note. Le canzoni come vengono concepite oggi sono figlie di quei musicisti e parolieri, anzi, più corretto definirli, poeti. La forma canzone attuale, lo ricorda lo stesso De Crescenzo in una bellissima prefazione-diario al libro di Federico Vacalebre, nasce a Napoli e Napoli in quegli anni era diventata davvero la capitale mondiale di un nuovo genere che si è diffuso velocemente lungo tutti i continenti.

L’abruzzese Francesco Paolo Tosti e il poeta napoletano Salvatore Di Giacomo erano personaggi famosissimi, un po’ come Lucio Battisti e Mogol. Vacalebre del loro sodalizio compositivo scrive: «Come Lennon & McCartney, Jagger&Richards, Rodgers&Hart, Brecht&Weill». Tosti, amico di Gabriele D’Annunzio, fu prolifico compositore, le sue romanze per pianoforte e voce si dispersero per il mondo, a Londra entrò alla corte della regina Vittoria e del re Edoardo VII come maestro di canto. Per i suoi meriti, ricorda sempre Vacalebre, venne nominato baronetto, lo diventeranno poi i Beatles… Sono gli autori di Marechiare, composta nel 1885…

Salvatore Di Giacomo strinse una fitta collaborazione anche con il musicista pugliese Mario Pasquale Costa, pure lui una celebrità a Londra, qui la versione De Crescenzo/Mazzzariello di Era de maggio (1885). Mentre Eduardo Di Capua, il musicista che scrisse ‘O Sole Mio, leggenda sostiene l’avesse composta a Odessa, collaborò proficuamente con Vincenzo Russo. Ancora Federico Vacalebre: «Rimase sempre Vincenzino perché morì giovane e povero… Di lui esistono troppe leggende…». Insieme crearono Maria Marì (la donna amata da Vincenzo Russo) e I’ te vurria vasa’, capisaldi della canzone partenopea…

Julian Oliver Mazzariello

Canzoni da salotto, appannaggio della ricca borghesia, la quale poteva permettersi il pianoforte in casa, che però, ed è un’altra delle magie di Napoli, si diffuse tra la gente comune, dando per la prima volta una caratterizzazione piena e condivisa della canzone napoletana. Invece del pianoforte si usava la fisarmonica (strumento prediletto di Eduardo De Crescenzo), cambiava lo stile del testo, si trasformava anche l’interpretazione. Racconta De Crescenzo: «L’enorme successo della Canzone napoletana ha contagiato il popolo tutto, che tutto si scopre incline alla musica e alla poesia. Fuori dai conservatori e dalle accademie culturali, la composizione si fa più schietta…». 

L’operazione di filologia musicale è stata lunga e difficile. Perché De Crescenzo è artista estremamente rigoroso, e Julian Oliver Mazzariello, inglese, prodigio della tastiera, che ha scelto di vivere a Cava de’ Tirreni, ha dovuto lavorare non poco per riuscire a rendere il più possibile le atmosfere del tempo. Sono state necessarie ore e ore di studio, lontani durante il lockdown e insieme dopo, prove, ascolti, riletture, interpretazioni. Unica concessione alla contemporaneità la parte finale di Scétate, di Ferdinando Russo e Mario Pasquale Costa (1887), dove Julian pennella accordi jazz mentre Eduardo infiamma con uno scat strepitoso

Raggiungere la purezza originale per alcuni brani è stata impresa titanica, dato che non c’era molto materiale. Un esempio? La canzone che apre il disco, Fenesta Vascia, scritta da un anonimo poeta seicentesco, adattata nel 1825 con versi di Giulio Genoino e con le musiche di Guglielmo Cottrau. Federico annota: «Guglielmo Cottrau, compositore ed editore… trascrisse, editò e rielaborò, appropriandosene, canzoni popolari di cui fino a quel momento c’era qualche traccia testuale e nessuna musicale…».

Federico Vacalebre

Se volete comprendere la genesi, i timori, le ansie, le soddisfazioni di De Crescenzo durante questa intensa e intima avventura, leggete con attenzione la parte iniziale del libro, magari mettendovi in cuffia il disco. Capirete molte cose. Innanzitutto, sulla scelta molto attenta dei brani. ‘O sole mio, non la trovate, perché troppo calpestata, abusata, stuprata. Un lavoro all’incontrario che ha ridicolizzato la napoletanità, riducendo tutto a luoghi comuni, pizza e mandolino! Le canzonette dei neo melodici, hanno fatto il resto, degradando e decomponendo la forma canzone. Una sconfitta per la Napoli della musica colta e dei quattro Conservatori…

Quella di Eduardo De Crescenzo è una faccenda personale: un cantante, un musicista, un compositore che avverte il richiamo di una musica che è stata, per i tempi, rivoluzionaria, e da cui lui, consapevolmente, proviene: «… Si ripresentava un incubo di cui mi ero un po’ scordato e che vivevo a ogni provino quando agli inizi cercavo un posto nella musica: “Sei un cantante napoletano?” “No” dovevo rispondere, nonostante quella definizione fosse per me lusinghiera. Avrei dovuto aggiungere: “Ma se rispondo di sì, tu cosa ti aspetti che sia un cantante napoletano?” Al tempo un cantante napoletano era già un preconcetto, la “Canzone napoletana” era già un caotico preconcetto e non era il mio…».

La ricerca di un suono e di un testo il più possibile attinenti al periodo in cui fu scritto diventa un’esigenza impellente per Eduardo e Julian, ormai in piena sintonia artistica. In fin dei conti leggere e ascoltare Avvenne a Napoli è come fissare nella propria memoria un punto fermo della propria italianità. Non sono napoletano, ma Napoli è orgogliosamente una fonte copiosa di cultura italica, come lo è stato Bahia per la musica brasiliana. 

…«Mi chiamo Eduardo De Crescenzo, sono un musicista, un cantante-interprete, un compositore. Sono nato a Napoli, quando la canzone napoletana era già finita, ma imparai a suonarla… Ricordarla è stato un tuffo al cuore. Ricantarla, un dovere di testimonianza… Era un suono “dolcemente sussurrato” per voce e pianoforte…».

Crocodile Rock: musica e animali nel libro di Ezio Guaitamacchi e Antonio Bacciocchi

Ho acquistato un libro uscito qualche giorno fa per Hoepli. Si intitola Crocodile Rock e gli autori sono due conoscenze solide per chi ama la musica, Ezio Guaitamacchi, musicologo, musicista, entertainer, un decano del giornalismo musicale (come si legge nella terza di copertina) e direttore della collana musicale della stessa Hoepli, e Antonio Bacciocchi, scrittore, musicista e blogger, batterista rock con l’aplomb del mitico Charlie Watts.

Entrambi hanno in comune la passione per il rock e per gli animali, Ezio con i suoi tre cagnolini, Dylan Joni e Taylor, e Antonio con il suo pastore tedesco Grimm. I loro compagni a quattro zampe amano la musica e il rock. Anch’io ho una piccola amica, Lili, che è la mia ombra da tredici anni. Lavoro ascoltando musica, sempre. Lei, accoccolata sul cuscino ai miei piedi, ascolta, occhi aperti, tutto…tranne il rap. Che ci volete fare… frequenze disturbanti per il suo udito.

Ma torniamo al libro. Oggi alle 16 i due autori lo presenteranno a Milano alla Cascina Nascosta, parco Sempione. Chi vorrà venire – e vi consiglio di esserci – potrà portare i suoi animali di compagnia. Un bell’inizio! Il libro, che ho letto d’un fiato, è talmente ricco di aneddoti, storie, curiosità che ti attrae e non ti molla. Diviso in sei parti, con una preziosa prefazione di Laurie Anderson, spiega il rapporto tra musica e natura, l’evoluzione umana e animale attraverso il suono come comunicazione principale. Quindi, passa a storie che legano artisti ad animali, brani che hanno fatto la storia del Rock legati a cani, gatti, persino pappagalli, ma anche rocker impegnati nelle battaglie per le preservazione delle specie, e tante amenità dove, per esempio, zio Ozzy (Osbourne, ovvio!) entra di diritto… 

Ho intervistato via streaming i due autori, ci siamo fatti una gran bella chiacchierata…

Come vi è venuto in mente di creare Crocodile Rock?
Ezio – «È nato tutto un paio di anni fa nel mio studio, qui in Hoepli. Antonio era venuto per propormi alcuni titoli che, sinceramente, non erano compatibili con la mia collana. Lui, con la coda tra le gambe – per rimanere in tema – si stava avviando verso la porta dell’ufficio, quando Joni (prende in braccio una cagnolina bianca e me la presenta, ndr) e il suo fratellino Taylor gli si sono avvicinati per annusarlo (Antonio, da sempre ha avuto cani). Lui si è fermato, e ha giocato il jolly che le aveva raccomandato sua moglie Rita: “Ho raccolto un sacco di informazioni, di dati, di storie sul rapporto tra musica e animali. Ti può interessare?”. L’ho guardato e in un attimo eravamo seduti a parlarne! Il libro è, dunque, una sua idea, lui ha raccolto tutto il materiale, io mi sono limitato a fare il regista, che poi è il lavoro che faccio come direttore di collana. Però mi ha tirato dentro perché, in tempi andati, nel 1990 e 1991 ho organizzato a Milano un festival che si chiamava Musica&Natura sotto l’egida di Greenpeace, ero anche nel consiglio direttivo dell’ong. Ho fatto in modo che oltre a tutto il materiale che aveva raccolto Antonio ci fosse anche una parte sulle origini del suono. Non ce lo ricordiamo spesso, ma l’uomo ha imparato a cantare, suonare,  addirittura a parlare imitando il canto degli uccelli, l’incedere del galoppo dei cavalli… Ho cercato di selezionare le informazioni di Tony e di trasformarle in storie. A un certo punto Antonio mi ha detto una cosa molto carina: “Il libro ha preso una piega giusta anche grazie a te ed è corretto che tu sia coautore e non solo il curatore”».

Antonio – «Confermo tutto! Sono stati due anni di lavoro quasi quotidiano, il materiale era tantissimo e di svariata natura. Ne trovavo di nuovo che a sua volta mi rimandava ad altro. Era necessario un regista, che Ezio ha fatto benissimo. C’era talmente tanto materiale da pubblicare due o tre libri. E poi, essendo nato, cresciuto, e vivo tuttora, nella campagna piacentina, da sempre ho avuto animali domestici e, ultimamente anche non, visto che nel mio paesino si sono affacciati cinghiali, caprioli e anche un lupo. Essendo un musicista, appassionato di musica è stato naturale accostare le due cose. Lo spunto finale me l’ha dato mia moglie, all’inizio pensavo fosse banale, ma solo apparentemente. In realtà, oltre a quello che ha detto ora Ezio, nel libro si va ad approfondire anche quegli artisti che hanno preso spunto per le loro canzoni dai loro animali. Ci sono brani dedicati ai loro animali, spesso li hanno riportati anche in copertina, mentre altri hanno utilizzato l’animale come metafora per significare qualcosa di molto più profondo. Ad esempio, Blackbird dei Beatles: sembra dedicata a un uccello che vola, ma in realtà Paul McCartney l’aveva composta per supportare  i diritti civili degli afroamericani nel 1968».

Il titolo del libro richiama un brano famosissimo di Elton John…
Ezio – «Rimanendo su quanto stava dicendo Antonio, Crocodile Rock, è metaforico. Nel senso che è un atto d’amore di Elton al Rock delle origini. In quegli anni, nei Cinquanta, i musicisti jazz tra loro si chiamavano Alligator, c’era la famosa frase, un saluto, See you later allegator con la risposta In awhile crocodile! Il titolo del libro è evocativo, ma il sottotitolo è sufficientemente chiaro (storie aneddoti, curiosità e tutto ciò che unisce musica e animali, ndr) e senza suonare presuntuosi, credo non esista nessun libro al mondo che racconti tutte le connessioni tra musica e animali in un modo così completo. Grazie ad Antonio anch’io ho scoperto molte cose interessanti. Non sapevo che i Ragni di Marte di David Bowie in realtà sono stati ispirati a un evento accaduto in Italia negli anni Cinquanta, o che il cagnolino di Dolly Parton le ha salvato la vita, o che il gatto che è in copertina di fianco a Carol King in Tapestry, un album che ha segnato tutti noi e che fu un best seller pazzesco – per anni è stato il più venduto della storia – fosse comparso lì per caso mentre il fotografo stava scattando!».

Antonio – A proposito di ricerca: molto è stato fatto incrociando dati su internet, ma abbiamo dovuto affidarci molto alla nostra memoria, magari ricordandoci di aver letto qualcosa, relegato in un angolo di un libro o in una copertina di un disco. Insomma, un lungo lavoro deduttivo».

Ezio Guaitamacchi

Tra le tante narrazioni di questo libro, mi avete fatto ricordare di quel disco incredibile, Song Of The Humpback Whale, il canto delle megattere registrato da Roger Payne, ricercatore bioacustico, negli anni Sessanta…
Ezio – Mi fa molto piacere che tu abbia nominato Payne e il suo esperimento, perché mi permette di parlare di un musicista, Paul Winter, un sassofonista che ho avuto l’onore di conoscere quando lo feci venire in Italia per quel festival che avevo organizzato. Lo portai anche in Rai, opsite in un programma di Mino Damato, Alla ricerca dell’Arca. Con Stan Getz è stato il primo a fondere la musica brasiliana con il jazz. Dopo aver ascoltato le registrazione di Roger Payne, fondò un’etichetta chiamata Living Music, dove mise in piedi dei veri e propri duetti tra il suo sax soprano e il canto delle balene, l’ululato dei lupi, il barrito degli elefanti. Poi aggiunse una band, il Paul Winter Consort, da cui poi nacquero gli Oregon, Ralph Towner, Paul McCandless erano suoi musicisti. L’ho ascoltato anch’io il canto delle balene, attraverso un sonar in una nave di Greenpeace nelle acque bellissime della Hawaii: è struggente. Gli studi di Payne e di altri scienziati hanno dimostrato che la struttura dei canti delle megattere è clamorosamente uguale a quelle dell’uomo. Per la prima presentazione del libro alla Cascina Nascosta seduto sul divano con mia moglie stavo cercando al computer canti di balena da proporre. Il mio cagnolino Taylor ha drizzato le orecchie e s’è messo all’ascolto con interesse. Mia moglie, che è molto più esoterica di me, ha trovato in questo comportamento un linguaggio universale, io credo che sia una questione di frequenze…».

Veniamo alla prefazione di Laurie Anderson. Lei parla della sua esperienza e di quella di Lou Reed con la trovatella Lolabelle…
Ezio – «È stato un privilegio la sua testimonianza. Un altro mio cagnolino che non c’è più aveva partecipato al suo Concerto per Cani che da anni porta nei palchi di tutto il mondo. È stato incredibile. Laurie ha la capacità di provocare reazioni negli animali che sono uniche, ti trasmettono poi, a loro volta, come ascoltatore e auditore, emozioni incredibili».

Il libro, oltre a queste esperienze profonde ha anche molti aspetti divertenti…
Antonio – «Esatto, ci sono tanti aneddoti semplicemente curiosi e anche buffi. Sono un mezzo per fare propedeutica ed educazione: chi si accosta alla lettura per passare qualche ora in modo leggero o perché è appassionato di animali, trova anche elementi più “seri” come ad esempio Paul Winter e la sua musica, o dischi di cui non aveva mai sentito parlare. Sarebbe bello trascinare il lettore nel nostro mondo magico della musica in cui siamo persi da decenni».

Insomma, alla scoperta della musica attraverso gli animali e viceversa…
Ezio – «Ho scoperto, per esempio, che una delle canzoni più famose sugli animali, Nella Vecchia Fattoria, ce la ricordiamo cantata magistralmente dal Quartetto Cetra, e credo si insegni ancora oggi all’asilo, è stata cantata da Ella Fitzgerald, Frank Sinatra (il titolo originale era Old MacDonald Had A Farm, ndr) o Elvis Presley, in un rock’n’roll eccezionale».

Antonio Bacciocchi

Venendo agli animali: fanno musica, ma l’uomo si è servito di loro anche per farli diventare strumenti musicali…
Ezio – «Certo! Pensa alle api. Sono stati costruiti strumenti per imitare il loro ronzio. Ma l’uomo da sempre ha anche usato gli animali per costruirsi strumenti musicali. Considera le pelli per i tamburi, le conchiglie che vengono usate per strumenti a fiato, i crini di cavallo per gli archetti del violino. Li abbiamo chiusi in un box, perché entriamo in un altro mondo, l’organologia, che non era il tema di questo libro. L’uomo continua ad avere rapporti quotidiani con il mondo della natura colori, odori, suoni che essa stessa produce. Mi ricordo, non l’ho inserito nel libro, un’avventura nella foresta amazzonica. C’era la guida che parlava una lingua a me sconosciuta, con qualche parola spagnola e inglese. Era una “caccia alla tarantola”, così l’aveva definita. Sembravamo dentro un episodio di X-Files con quelle torce in mezzo agli alberi, nel buio più assoluto. La guida ci fece capire di spegnere le torce e rimanere in silenzio. Per fortuna avevo un registratore: nella notte nera ho ascoltato eregistrato un concerto di suoni di ogni tipo, un’emozione che non dimenticherò mai più».

Antonio – «Sempre a proposito del rapporto scienza-musica-animali, la scienza ha restituito alla musica attraverso gli animali un certo favore: anche se si tratta di molluschi, fossili, forme di vita minuscole, animali non particolarmente nobili, ma che portano il nome latino di David Bowie, Mark Knopfler, un paio di vermi sono dedicati a Guccini. Penso che per un musicista sapere che c’è una forma vivente a lui dedicata sia piuttosto appagante».

Ezio – «Credo che più che per il musicista lo sia per la musica, soprattutto Rock. Fa capire come questa forma di arte che spesso è stata considerata controcultura o, peggio, una sottocultura, anche attraverso gli esempi fatti da Antonio, a una medusa che porta il nome di Frank Zappa o una vespa quello di Beyoncé, fra trecento anni si parlerà di questi personaggi come delle grandi eccellenze della razza umana alla stregua di Beethoven o Mozart».

Interessante, anche perché gli animali sono stati usati volontariamente o meno come mezzi nelle performance di artisti. Vedi il famoso pipistrello addentato da Ozzy che lo credeva un animale di plastica, o il pollo lanciato verso il pubblico da Alice Cooper che fece una fine tragica…
Antonio – «Nel libro ricordiamo gli ZZTop che avevano organizzato una serie di concerti dove volevano rappresentare il Texas, stato da dove provenivano. Oltre a cactus e rocce si portarono dietro serpenti a sonagli, bisonti e altre specie animali. Il che fu tutto molto spettacolare ma problematico da gestire, oltre ai musicisti, che a quei tempi ci davano dentro, c’erano anche gli altri animali!»

Siete vegetariani o vegani?
Ezio – «Ammetto di no, ho grande rispetto e stima per chi lo fa. Cerco semplicemente di fare una dieta il più possibile morigerata. Non fumo più non prendo droghe non ho mai bevuto e faccio sport».

Sei perfetto Ezio!
«Quasi, quasi… Se mi togli anche lo sport sarei rovinato! Devo dire che a volte me lo chiedo, e la frase che ricorre nel libro di Paul McCartney: “Se i mattatoi avessero le pareti trasparenti nessuno mangerebbe più carne” fa riflettere. Avendo frequentato anni fa il mondo no profit rimasi molto colpito dal trattamento industriale riservato al mondo animale. Non è più il tempo delle caverne, mors tua vita mea. Allo stesso modo non mi piacciono quelli che colpevolizzano».

Antonio – «Sono stato macrobiotico e vegetariano per un periodo. Vivendo in pianura Padana se tu non assaggi i salumi vieni crocefisso. Per cui, cerco di evitare il consumo di carne, ma non sono rigoroso. Non ho mai fumato, mai preso droghe, faccio sport, infatti mi vedi così magro perché, te lo dico, lo sport fa malissimo!».

Paul McCartney: un remix e un libro in arrivo

A quasi 79 anni, li compirà il prossimo 18 giugno, Paul McCartney non ha nessuna intenzione di andare in pensione. Anzi, rilancia e rilancia ancora, si confronta con rapper, rocker, musicisti indie e pop e lo fa con la spensieratezza e la testardaggine di un ragazzino che vuole farsi strada nella musica.

Dopo aver pubblicato il suo McCartney III a dicembre dello scorso anno (album interamente suonato e prodotto da lui durante il lockdown, da notare la scelta di non mettere filtri alla sua voce, una sfida nella sfida) ha scelto – e invitato – suoi colleghi molto più giovani di lui a reinterpretare gli undici brani che compongono l’album. Il disco uscirà il prossimo 16 aprile.

Alcuni artisti sono vecchie conoscenze di Macca, con cui ha collaborato, penso a Josh Homme, frontman dei Queens of the Stone Age. Assieme al baronetto, a Trent Reznor e Stevie Nicks, hanno contribuito nel 2012 a comporre la colonna sonora di Sound City, il docufilm di Dave Grohl (ascoltate Cut Me Some Slack).

Nel progetto di un McCartney III mixato e reinterpretato ci sono anche Beck, i Khruangbin, Phoebe Bridgers, EOB, al secolo Ed O’Brian dei Radiohead, St. Vincent,  Blood Orange, Damon Albarn, 3D RDN, Anderson .Paak e persino l’attore e musicista Idris Elba. Per la presentazione del progetto, l’ex Beatle ha scelto The Kiss of Venus, cantata da Dominic Fike

E non finisce qui. Il 2 novembre uscirà un corposo libro ideato dall’artista: Paul McCartney The Lyrics: 1965 to the Present, volume curato e presentato dal Premio Pulitzer Paul Muldoon (in Italia uscirà per Rizzoli). Come precisa lo stesso Macca, non si tratta di un’autobiografia, cosa che, alla sua età, molti scelgono di scrivere, una sorta di diario della propria vita. Ha, invece, deciso di parlare di sé attraverso i testi di 154 canzoni da lui scritte. Dalle primissime, quando era un ragazzo, al decennio con i Beatles, al periodo Wings e a quello da solista. Testi accompagnati da foto inedite e da particolari che hanno ispirato quei testi, situazioni, episodi di vita, esperienze. Molto più di un’autobiografia. In perfetto stile McCartney!

Musica e idoli 2/ La parola allo psicologo

Ok, l’ho trovato. Non che sia stato facile, l’Italia, dati ricavati dal Consiglio nazionale dell’Ordine degli Psicologi, ne conta 102.890, di questi, 54mila e rotti sono anche psicoterapeuti, un numero altissimo e ancora in espansione, a quanto pare. Ma trovarne uno giovane, 27 anni, che sia anche un musicista (suona la chitarra elettrica), che abbia scritto un libro, La Psicologia del Rock, Crescere con la Musica in Adolescenza (Alpes Italia, 2017), insomma che avesse il profilo ideale per spiegarmi le dinamiche dell’idolatria musicale, è stata stata una pura botta di fortuna.

Lui si chiama Andrea Montesano, è lucano di Potenza, lavora nella capitale, ed è uno psicoterapeuta con una grande passione per la musica che non esita a usare nelle sedute con i suoi pazienti usando la Songtherapy – metodo messo a punto da un suo collega, Romeo Lippi, con il quale collabora tutt’ora – siano questi adolescenti in piena crisi esistenziale/ormonale o adulti in cerca di nuove spinte motivazionali. Per accreditare questa nuova forma di terapia cita Luciano Ligabue: “Canzoni che sanno chi sei molto meglio di te” (da In Pieno Rock’n’Roll).

In questi giorni di ricerca, ho trovato anche un bellissimo articolo su Pitchfork, dal titolo Why Do We Even Listen to New Music? L’autore, Jermey D. Larson, si domanda perché siamo spinti ad ascoltare ancora nuova musica visto che restiamo ancorati alle nostre vecchie glorie. Una volta che ci si affeziona a un genere, un artista, si resta legati per l’eternità, altro che marito e moglie! Eppure la voglia, anzi, il terrore di non ritrovarsi più in un mondo (musicale) profondamente cambiato, a un certo punto della vita viene.

Così si prova a guadagnare il tempo perduto, tra lavoro, matrimonio, figli, mutui e via discorrendo. È una questione di cervello, sostiene Larson. Il nuovo, anche nella musica, ci spaventa, o meglio, spaventa il “nostro computer”, abituato ad ascoltare suoni, melodie, riconoscere voci che ci fanno stare bene. Rifugiarsi nel noto invece di avventurarsi nell’ignoto è uno dei temi cari alla psicologia, ma non solo. Come ben scrive Jonah Lehrer, 38 anni, saggista americano nel suo libro Proust era un neuroscienziato (Codice Edizioni, 2017), “Siamo stati costruiti per aborrire l’incertezza delle novità”.

Ok, questa è una possibile strada per spiegare il perché di certi nostri comportamenti che hanno a che fare, inevitabilmente, con emozioni, amigdala e dopamine. E tutto questo è “roba” da psicologi…
«È una questione piuttosto complessa. Prendo ad esempio me stesso: ho studiato chitarra elettrica, mi sono appassionato alla musica tra la metà degli anni Ottanta e quella degli anni Novanta, Pearl Jam, Jon Bon Jovi, Litfiba, Guns n’ Roses, Bruce Springsteen. Ho i miei autori “stabili”, gli U2, immortali, e i Coldplay, mi piace la contaminazione elettronica. È più o meno la musica della mia adolescenza…».

Quindi, parte tutto da lì, da quel periodo dove non sai chi sei, da dove vieni e dove vuoi andare…
«Sì dal nostro Io Adolescente e dall’adolescente reale. Vado spesso a concerti perché mi piace studiare le dinamiche del pubblico. Nell’adulto concerto significa non solo l’esibizione in sé, ovvio, ma anche tutto ciò che sta attorno all’evento: il rito, l’attesa, la condivisione, l’essere lì tutti insieme per un unico motivo, fa emergere quella parte di adolescente viva, ricca che richiama alla tua giovinezza, alla parte più ingenua dell’adulto. È una forte tensione emotiva, soprattutto se tendiamo a inquadrare un adulto che lo è solo di fatto, per età. Mi domando: un trentenne è un adulto? Oggi persone tra i 35 e i 40 stanno ancora a casa dei genitori, sono scostanti nelle relazioni…».

Sono in un’adolescenza prolungata…
«Sì, e il mio lavoro consiste di far capire le ragioni di tali comportamenti. Lo faccio attraverso una canzone, può essere un approccio, e funziona. Ognuno, nei ricordi ha una canzone, sia allegra sia triste, che lo lega a un determinato periodo della propria vita. Parlare del brano porta spesso ad agganciarti a ricordi e quindi a rielaborare, capire il motivo del disagio. Con gli adolescenti è più facile».

Perché, per metterla in poetico come hai fatto tu: “Non esiste differenza tra la morte di una rosa e l’adolescenza”, citazione da Betty dei Baustelle…
«I problemi degli adolescenti sono legati al crescere, alla scoperta del sesso, all’appartenenza e alla differenziazione».

Ti riporto sugli artisti che diventano idoli, leggende, immortali
«Rispondo con un aneddoto. Ero all’ultimo anno di università e sono andato con alcuni amici a vedere il concerto di Laura Pausini. Mi interessava capire come mai, a prescindere dalla bravura dell’artista, lei riuscisse a raccogliere così tanta gente e in tutto il mondo. Volevo vedere con i miei occhi come riusciva a creare un così forte “appeal”. Arriva il momento in cui canta Simili. Dietro a questo brano, a livello scenico tutto era studiato al dettaglio. Sul finale della canzone luci, fulmini, crescendo. Lei a quel punto allunga le mani verso il pubblico come a stringerle in una presa universale. E il pubblico immediatamente risponde, ripetendo verso di lei il gesto. La distanza fisica tra palco e platea, tra sacro e profano, veniva improvvisamente a mancare. Tutte quelle mani erano unite alle sue. Il rito s’era compiuto: il palco come un altare dove si celebra una cerimonia sacra, i fan, come i fedeli, in venerazione..».

Un credo cieco, definitivo, una fede…
«Esatto. Per spiegare torniamo ancora all’adolescenza, dove avvengono una serie di cose: innanzitutto, ci si ritrova dentro e si vive quel determinato periodo storico. E ascoltare, soprattutto la musica, significa appartenenza ma anche differenziazione, dalla famiglia o da un gruppo di amici. Quindi, ne discende che, per essere diverso in casa, mi creo un mio mondo, e in questo processo mi posso appropriare di un artista ascoltato dai miei genitori o prenderne le distanze, come a dire: ero legato a te ma adesso scelgo di abbracciare un genere diverso dal tuo».

In questi anni va il rap e la trap, negli anni Settanta c’era il rock e il punk, il funk…
«È questione di momento storico, come dicevo, e di linguaggio. Oggi gli adolescenti si riconoscono per lo più in quel genere musicale. Questione identitaria ma anche timore di essere esclusi dal gruppo…».

E arriviamo al dilemma: da adulti quindi…
«…Manteniamo l’imprinting musicale che abbiamo avuto da adolescenti. La musica è ancorata ai ricordi. Per questo trovare un senso che mi leghi a un autore o un brano da adulti è più difficile. Potrei legarmi, che ne so, a Lady Gaga perché è un’artista che ha fatto un percorso molto difficile, dalla sosia di Madonna è diventata una star planetaria con una sua identità, raffinata. Posso apprezzare tutto ciò ma difficilmente renderla un mio idolo. Sarebbe complicato gettare il proprio idolo e prenderne un altro! L’ideale, soprattutto se si è genitori di figli adolescenti, è cercare di aprire un canale di dialogo, trovare il senso di quello che si ascolta, aprire uno spazio di condivisione su un determinato artista, parlarne».

La musica è emozione e l’emozione ha a che fare con il cervello…
«Quando ascolto musica attivo delle funzioni cerebrali e vado a stimolare l’amigdala il nucleo che gestisce le nostre emozioni. Una volta stimolata, per esempio da una melodia piacevole, produce dopamina, responsabile di quel senso di piacere che si avverte. È un rilascio fisiologico e vale per tutto, dalla fame al sesso».

Ultima domanda: ma esistono persone “insensibili” alla musica?
«Sì, e questa insensibilità ha un nome, anedonia musicale. L’8 per cento della popolazione vive la musica in maniera indifferente. Non è una colpa e nemmeno una malattia. Semplicemente è Ia non risposta a uno stimolo, l’amigdala non rilascia dopamina».