Jali Babou Saho: i griot, la kora e lo scopo della musica

La kora è uno strumento che mi ha sempre affascinato. Perché ha la capacità di liberare la fantasia, di ammaliare, di rendere magica la musica. Tra i dischi che ascolto spesso ci sono Ballaké Sissoko con Vincent Segal al violoncello in Chamber Musica, lavoro del 2009, Sona Jobarteh, una grande e magnifica musicista, prima suoantrice donna di ora proveniente da una famiglia di griot, i depositari di questo strumento, in Fasiya del 2011, Ablaye Cissoko con i  canadesi Costantinople, in Traversées, lavoro del 2019, e Toumani Diabaté (cugino della Jobarteh) con il grande chitarrista Ali Farka Touré in quell’album bellissimo che si intitola In The Heart of The Moon (ascoltatevi Kadi Kadi). Musica che viene dai cantastorie gambiani e maliani, discendenti di griot di origine mandinka (le popolazioni dell’Africa Occidentale) che si sono passati di generazione in generazione la difficile arte del suono di questo strumento simile a un’arpa e a un liuto, complesso quanto incredibile. Continua a leggere

Milano: Giovanni Nuti canta tra Alda Merini e Milva

Giovanni Nuti – Foto Giovanni Di Duz

Non occorre che io mi sieda sul letto
A rivedere i sogni perduti
Basta guardare gli occhi di Milva
E vedo la mia felicità
Coloro che pensano che la poesia sia disperazione
Non sanno che la poesia è una donna superba
E ha la chioma rossa
Io ho ammazzato tutti i miei amanti
Perché volevano vedermi piangere
E io ero soltanto felice

I versi di Alda Merini dedicati a Milva riassumono bene quello che è stato il sodalizio – breve ma intenso – tra la poetessa e la cantante. Due donne che hanno nobilitato Milano, dotate di una acuta intelligenza, capaci di forti disperazioni e di altrettante gioie, il cui percorso artistico è stato accompagnato da calvari personali laceranti. Due donne che hanno tratto da questi immensi dolori, l’una i ricoveri negli ospedali psichiatrici, l’altra le profonde depressioni, linfa per la parola e il canto… Continua a leggere

Franco Mussida e la musica, vita e amore vibrante

Cos’è la musica? È una domanda che mi pongo spesso. Credo sia uno dei quesiti più difficili a cui dare una risposta. Un po’ come interrogarsi sul perché sia nato il mondo o quale sia il mio ruolo nel tutto, ammesso che ogni cosa si tenga, seppure apparentemente in modo più anarchico che ortodosso. Sul ruolo della musica nella mia vita potrei scrivere per ore, perché la musica è sangue che fluisce, cuore che accelera, anima che danza… emozione.

Nella mia personale ricerca su cosa sia la musica, mi sono imbattuto in Franco Mussida. Il mitico ex-chitarrista della PFM e presidente-fondatore del CPM Music Institute (il ministero dell’Istruzione l’ha riconosciuto come Istituto di Alta Formazione) ha più di una risposta alla mia domanda. Ha passato una vita a cercare ragioni fisiche, semantiche, psicologiche, “religiose” nel senso più laico del termine del suono e della musica. Che fa parte di noi come la parola, uno spazio fisico e mentale illimitato, un universo di sensazioni che si decodificano in emozioni. Continua a leggere

Solitudine, Edonismo, Consumo secondo Francesco Sacco

Francesco Sacco – Foto Lucrezia Testa Iannilli

Ieri è uscito un EP composto da sei brani, opera di un giovane musicista italiano, Francesco Sacco. Il titolo, A – Solitudine, Edonismo, Consumo, fa intendere che è il primo passo di un progetto che troverà compimento attraverso un altro EP, un lato B che completerà un lavoro piuttosto complesso.

Un giovane musicista che ha qualcosa da dire e lo dice bene è una manna per chi è in cerca di buona musica. E uno come Francesco, profondo nei testi, pignolo nella composizione e negli arrangiamenti, che non è mai banale e riesce a stupirti, non può non meritare attenzione. Infatti, dopo averlo incontrato e averci fatto una bella chiacchierata, molto istruttiva, sono curioso di andarlo ad ascoltare live oggi, alle 18:30 al Giardino della Triennale di Milano (ingresso libero, prenotazione consigliata, qui) dove presenterà il disco con Luca Pasquino, suo amico da sempre e anima gemella musicale, alle tastiere e basso, e Pit Coccato alla chitarra elettrica.

Testi ben scritti, vi stavo spiegando. Sarà per i suoi studi classici, per la particolare sensibilità a temi che includono, nella sua accezione più ampia, il “sociale”, per una facilità nel sintetizzare i concetti in brevi quanto esaustivi claim, vedi in Kabul: Bum Bum Bum, scalare scalare scavare, sta di fatto che Francesco ha una una spiccata predisposizione linguistica e musicale nel presentare le ansie e le deviazioni della società, intesa come insieme di persone che portano avanti, sempre più frequentemente e in modo schizzato, una forma di democrazia solipsistica, che si riassume, appunto, in Solitudine, Edonismo e Consumo.

Ritornando a Kabul: è un brano che racchiude più punti di osservazione e riflessione. Leggete le prime due strofe: 

Hanno sparato a Kennedy e a Martin Luther King
E in Cina sono rimasti solo i vasi della dinastia dei Ming
Tè verdi cinesi, petrolio nei mari, amici iracheni, tappeti persiani
L’oriente è un piatto piccante al gusto di diritti umani
Ma l’importante è entrare in playlist, scalare la classifica
Così ti canto una storia d’amore che finisce male: io amo il capitale
Ma senti come pompa questa cassa a Kabul… 

Lo stesso dicasi per il brano che apre il lavoro, Ogni uomo e ogni donna è una stella: inizia con una chitarra distorta intenta in un passaggio dellAria sulla Quarta Corda di Bach (che troverà più volte accenni nel corso della canzone), una sorta di colonna sonora stilizzata che ricorda tanto Quark. In questo studio televisivo Francesco, novello Piero Angela, affronta con corrosiva lucidità il difficile rapporto giovani-lavoro. Le responsabilità per un mondo, quello del lavoro, degenerato e non più sostenibile, vengono descritte con pennellate acide, raccolte in un pantheon di divinità negative e senza speranza. Leggete attentamente il testo prima di ascoltare il brano:

Sono sicuro che se i lupi hanno un dio
È fatto a forma di lupo
Che se le papere avessero un dio
Sarebbe un pennuto
Ma i bambini lo immaginano vecchio
E i vecchi non sono capaci
Anche se siamo la specie
Che ha inventato lo specchio
Il dio degli Ingordi è uno chef
Più buono del corpo di Cristo
Ma il dio dei soldi finora
Non si era mai visto
Ma quando la zampa dell’uomo
È diventata una mano
Il dio dei piccioni ha cagato
Su piazza del Duomo
Il dio dei piccioni ha cagato
In centro a Milano
Quando scagliate le frecce
E nascondete le mani
Io prego e progetto vendette
Con il dio dei cani
Sono sicuro che se i pesci hanno un dio
Assomiglia a uno squalo
E il dio di Milano è a pescare
Con una mazzetta sull’amo
Il dio dei coglioni è al tg
Il dio dei cantanti a Sanremo
Tutti ascoltiamo e preghiamo
Soltanto gli dei in cui crediamo davvero
Più che mercanti nel tempio
Ho visto dei preti al mercato
Ho visto persone comprare
Pregare ore d’aria al mercato del tempo
Ma una volta un ateo mi ha detto
Che ogni uomo e ogni donna è una stella
E il dio dei cavalli ha allentato le briglie
E il re è caduto di sella
Quando scagliate le frecce
E nascondete le mani
Io prego e progetto vendette
Con il dio dei cani
Io prego e progetto vendette
Con il dio dei cani
Io prego e progetto vendette
Con il dio dei cani 

Francesco è un musicista curioso: polistrumentista, attratto dal cantautorato delle origini ma anche dalla musica elettronica, è un performer e un sound designer. Ha “musicato” sfilate di moda, creando concept tra fashion, musica e teatro. Una bella energia creativa, onnivora, che coltiva mettendoci passione e acquisendo esperienze… 

Ne La Voce Umana, il tuo primo lavoro eri più intimista. Lo hai scritto a Venezia e hai fatto tutto da solo. In questo nuovo lavoro si avverte una certa maturità, è più estroverso, complesso, corrosivo…
«È un album più consapevole. Più di qualcuno nel giro dei musicisti mi ha detto: “Non ti preoccupare per il primo disco che pubblichi, tanto poi lo butti via…”. Buttarlo via proprio no, perché fa parte di un mio percorso, ma ad ascoltarlo e riascoltarlo senti tutte le cazzate che hai fatto. A – Solitudine, Edonismo, Consumo suona diverso perché è il primo lavoro dove ho voluto affiancare dei musicisti. Il primo è un disco citazionista, viene dai miei ascolti, dal cantautorato, dalla scuola di Tenco. Qui c’è la cassa techno, l’aria sulla Quarta Corda di Bach, il folk americano…».

È vero, ci sono molti richiami in quest’album. Non disturbano, anzi valorizzano il lavoro…
«Mi piace inserire citazioni della mia formazione musicale, il pericolo è farsi prendere la mano. In questo mi ha aiutato molto il lavoro di squadra con Luca Pasquino, che ha arrangiato i pezzi e con i producer, xx.buio e paralisi».

Quanto ai i testi, si vede che hai fatto il liceo Classico! Qual è il tuo processo creativo?
«Il disco può sembrare un concept album, però faccio fatica a usare questo termine parlando di me. Concept erano i lavori dei King Crimson… Comunque sì, l’album ha un fil rouge. Per esempio, prendi Kabul: l’ho scritta in diverse fasi. L’idea mi era venuta quando i talebani hanno ripreso il potere in Afghanistan. Seguivo tutti i ragionamenti alla Goffredo di Buglione (il nobile francese crociato che “liberò” Gerusalemme instaurando di fatto un regno e diventando un re, anche se si faceva chiamare Advocatus Sancti Sepulchri, il difensore del Santo Sepolcro, ndr), che non tenevano conto delle grosse responsabilità dell’Occidente. Avevo l’inciso ma non il riff. Mi è venuto mentre ero in tram, l’ho annotato subito sul telefono (Bum Bum Bum, scalare scalare scavare)».

Come ti è scattata la passione per la musica?
«Da piccolo mi piaceva ascoltare musica, mi divertiva. Gli inglesi non a caso usano lo stesso verbo per due azioni, to play, suonare e giocare. Sono connessi. Mio papà lavorava in De Agostini e portava a casa molti cd. Andavo pazzo per Mozart e Vivaldi, quando li ascoltavo mi pareva di stare sulle montagne russe! Così a sei anni decisi che volevo suonare il violino. I miei, credendolo un capriccio passeggero, cercarono di farmi ragionare. Sono sempre stato uno testardo, non mollai, e il compromesso fu studiare la chitarra classica. Non mi piaceva l’insegnamento, lo trovavo palloso, ma ho continuato. Da adolescente, normale periodo di ribellione, ho scoperto il rock anni Settanta, il blues, ritrovando quel fuoco che avevo da bambino con Mozart e Vivaldi».

Francesco Sacco “live” – Foto Agnese Carbone

Francesco, a freddo: andresti a Sanremo?
«Non so, forse con il pezzo giusto e la voglia di scommettere. Per come sono fatto, mi trovo lontano dal concetto di gara. Nell’arte non esiste competizione, mi sentirei molto fuoriposto. E poi, non vorrei passare per l’“intellettuale” e, dunque, sicuramente non capito…».

Come Giovanni Truppi nell’ultima edizione…
«Esatto, Truppi è un cantautore molto interessante, bravo, ma lì era decontestualizzato».

Difficile essere compresi non solo nel Festival…
«Anche discograficamente in Italia facciamo schifo. Aspettiamo che arrivino le mode dall’estero e non abbiamo la capacità di promuovere noi stessi qualcosa di nuovo».

Il materiale e le idee ci sarebbero, dal mio piccolo osservatorio…
«Il problema è anche dei grandi operatori streaming. Spotify non dà fama e nemmeno soldi. Se non fai live non guadagni. Purtroppo, questi canali sono visti da molti artisti che vogliono farsi conoscere come un obiettivo».

La legge degli algoritmi è altrettanto fatale. A proposito perché A – Solitudine, Edonismo, Consumo? A sta per lato A del disco?
«Sì ho previsto un Lato A e un Lato B, che uscirà prossimamente. Per ragioni contorte, Apple non accetta la parola “lato”, perché fa pensare a un qualcosa di fisico, mentre tutto deve essere digitale…».

Come ti è venuto il titolo?
«È nato in modo del tutto casuale. Quando scrivo tendo a non darmi limiti. Una volta finito devi fare la Track List, lavoro che a me piace moltissimo, ed è anche molto importante. La pignoleria e l’estrema attenzione a questo passaggio l’ho ereditate dall’arte e dal teatro contemporaneo, dove c’è una cura che i musicisti si sognano».

Torniamo al fil rouge del disco…
«Riordinando il materiale che avevo scritto è apparso un filo conduttore di temi. Stavo cercando il titolo da dare al lavoro, lasciando decantare, in attesa che mi venisse qualche idea. Poi mi è venuto in mente di ricollegarmi a un social che era in voga alcuni anni fa, Chatlet, sito che, con l’andar degli anni era diventato l’impero degli esibizionisti e avevo, per questo, abbandonato. Ho pensato: chissà se esiste ancora, e se sì, come sarà diventato? C’è, eccome! Ma ho trovato solo chiacchiere di una desolazione pazzesca. L’avventura di “archeologia web” mi ha lasciato una tristezza infinita, così ho annotato sul taccuino tre parole, Solitudine, Edonismo, Consumo…».

E queste riassumono al meglio il senso del tuo lavoro…
«Il periodo funesto del Covid, il processo di digitalizzazione improvviso di qualsiasi cosa, da cui ormai non si scappa, ha avuto l’effetto di isolare maggiormente le persone. Mentre ha colto preparati i ragazzi – in quanto nativi digitali hanno imparato presto a stare sui social – i quarantenni li ha presi in pieno. Solitudine, dunque, accompagnata da Edonismo: fanno parte di questo periodo. Consumo è una parola ambivalente: inteso come consunzione dell’individuo ma anche come rapporto viziato tra chi compra e la merce che acquista. Credo sia doveroso fermarsi e riflettere su tutto questo».

Concordo…
«Il Consumo è molto presente nel disco, in Fantasmino o in Je suis resté seul, il corpo è provato, consunto, avrebbe bisogno di un bel massaggio rinvigorente. Poi brani come Kabul, dove canto io amo il Capitale, o il primo, Ogni uomo e ogni donna è una stella, in cui parlo di lavoro e di giovani. Mi innervosisco quando sento ripetere la stessa frase: i giovani non hanno più voglia di lavorare. Non è così, forse i ragazzi vedendo i loro genitori condannati a un certo modo di vita, dove lavorare consuma, pensano: è proprio così che voglio vivere la mia vita? Sono condannato o è possibile costruire un mondo migliore?».

Che ritorno ti aspetti dal disco?
«È un lavoro difficile, con brani cazzuti, contemporanei. Ammetto, i testi sono complessi, ma vedo che si sta creando una scena, ascolto tanti cantautori validi e innovativi. Progetti nuovi che stanno recuperando il senso di quel bel cantautorato anni Sessanta/Settanta che aveva molti contenuti».

Un piccolo divertissement: tre cantautori vecchia guardia che reputi indispensabili per te e altrettanti delle nuove generazioni…
«Ok, parto: Leonard Cohen, Francesco Guccini e Luigi Tenco (concedimi, e tutta la sua scuola!). Di “nuovi”, Tutti Fenomeni (Giorgio Quarzo Guarascio, ndr), bello, strafottente, duro, ironico; Cosmo, il suo ultimo disco è bellissimo; Morgan, è un vero musicista. Ne avrei altri, ma poi il gioco non vale più…».

Rumatera: “Made in Veneto”, punk rock… in dialetto

I Rumatera – foto Davide Carrer

Quando ho ascoltato il disco l’effetto è stato spiazzante. Non capivo se i quattro forsennati che, con chitarre, basso, batteria e voci pompavano un classico punk californiano brillante e un po’ cazzone, mi stessero prendendo in giro o insistessero molto, ma veramente tanto, a voler essere liquidati come un banale prodotto goliardico da serate alcoliche e rutto libero.

Mi sbagliavo! Made in Veneto, settimo lavoro della band formatasi nel 2007 nella provincia veneziana, è esattamente l’opposto. Tanta ironia, passione, goliardia, per sfatare il mito di un Veneto ricco – l’operoso Nordest! – chiuso, poco accogliente, credulone. Le chitarra distorte che disegnano incrollabili riff, la batteria che carica a cento all’ora raccontano altro: la voglia dissacrante di cancellare i luoghi comuni per offrire una narrazione diversa. In queste brillanti demolizioni c’è posto anche per Fossimo nati a Napolibrano dedicato al capoluogo campano e alla sua grande cultura musicale, visto ovviamente, con gli occhi dei Rumatera – a proposito, il nome della band è quello, in dialetto, del carassio, pesce d’acqua dolce, immangiabile, che fruga nel fango in perenne ricerca di cibo… 

La parte musicale è ben costruita, un punk rock anni Novanta, alla Blink-182, Rancid, Green Day, per capirci. Sentire punk della costa Ovest degli States applicato al dialetto veneto fa ancora più effetto, ne amplifica quell’anima sarcastica e demolitrice che il genere si porta dietro. 

I testi sono espliciti, senza filtri, come d’altronde gli argomenti trattati: Daniele Russo (Bullo), Giorgio Gozzo (Gosso), Luca Perin (Sciukka) e Giovanni Gatto (Rocky Giò) quasi fossero degli esperti etologi, scavano, o meglio, “i ruma”, nella loro esegetica “venetitudine” per dar vita a personaggi che poi esistono davvero: quello che, in piena crisi di mezza età, si fa incidere tatuaggi che costano mezo million (il veneto conta ancora in lire), per poi pentirsi (Tatuajo), quell’altro che soffre di perenne priapismo fisico e mentale (Cuco Duro), i commenti nella piazza del paese al passaggio di una bella ragazza (Cueatte). Insomma, ritratti, macchiette che non è difficile incontrare al bar davanti a uno spriss. Oltre le fulminanti bordate ci sono le riflessioni: sull’amicizia Semo ancora qua, sull’amore e la nostalgia, Camponogara e il brano d’apertura, che porta il titolo dell’album, Made in Veneto, una sorta di prefazione a quello che si ascolterà… Made in Veneto/ che par sempre sarà casa mia/ anca quando so distante/ Nisun capisse niente/ E pena verzo boca i sente che mi so da qua…

Ho chiamato Daniele Russo, il Bullo, frontman della band, per una chiacchierata sul disco e la band. Assieme a Giovanni Gatto ha suonato nei Catarrhal Noise, per dirla in dialetto veneto, grupo heavy metal demensiale del Vèneto nasesto a Noałe, in provincia de Venessia, intel setenbre 1994. Ultima annotazione: è un appassionato della musica di Davide Van De Sfroos.

I Rumatera son tornati riaffermando la loro provenienza: come il Prosecco, non siete solo Doc, ma addirittura Docg!
«Made in Veneto è un punk hardcore melodico scritto da Giorgio Gozzo, Gosso (il bassista della band). È il nostro modo di dire cosa significhi il Veneto per noi. Spesso siamo visti come gente che pensa solo ai soldi, all’azienda di famiglia, non parliamo in dialetto per non farci capire ma perché siamo così, attaccati ai luoghi dove siamo nati e cresciuti…».

Passo subito a Fossimo nati a Napoli: cosa significa?
«Sembra una presa in giro, ma non lo è. Anzi, è l’esatto contrario. Siamo partiti da questo pensiero comune: se fossimo nati in America, ora saremmo dei musicisti milionari? E se fossimo nati a Napoli, sarebbe stato lo stesso? In quella città si sente che c’è qualcosa di diverso. Se fossimo nati a Napoli… probabilmente avremmo avuto più successo. Perché la canzone napoletana è affermata nel mondo, è riconosciuta e riconoscibile, un marchio. Noi veneti ci dobbiamo accontentare. E poi, per inciso, di cognome faccio Russo, mio nonno era campano!».

Chi canta con accento napoletano?
«Enzo Savastano, ha voluto cimentarsi in una parodia del cantante neomelodico napoletano…».

Vivete di musica?
«Giorgio e io lavoriamo nel settore; ho una casa di edizioni musicali, Giovanni si occupa di informatica, Luca è un videomaker».

Curiosità: chi sono i tosi de campagna?
«Era il titolo di un format che ci eravamo inventati su una televisione locale (noi pagavamo gli spazi) nello stesso studio allestito per registrare una trasmissione di liscio, tutto tende e paillettes… I tosi de campagna è il nostro modo di essere, di vivere. Un modo semplice, come cantiamo in Made in Veneto, dove ti ritrovi con gli amici, senti che c’è un forte legame fra te e il luogo in cui sei nato e cresciuto».

Amicizia, semplicità, divertimento sano, non essere schiavi di mode e social. Siete di un’altra epoca…
«Abbiamo l’impressione che ci sia una parte della cultura veneta che non sia rappresentata. Prevale l’idea del Veneto legato alla politica, agli affari, all’economia e poco, a una visione più… artistica, la parola giusta è più… napoletana. Eppure la nostra è una regione bellissima a livello estetico, di paesaggio. Offre tante opportunità, non solo economiche, di socializzazione. La gente del Veneto è molto inclusiva…».

L’idea, invece, è quella di una regione poco ospitale, che non vuole immigrazione straniera… insomma capisaldi di certi partiti politici che hanno fatto fortuna da queste parti…
«Sì brontolano contro gli immigrati ma poi ci vanno d’accordo, diventano amici, si ritrovano al bar».

Quindi, tornando al concetto di tosi de campagna
«Noi lo sentiamo davvero. Abbiamo avuto la fortuna di nascere e crescere in paesini di campagna. Certo anche qui è arrivato un certo “poserismo”, chiamiamolo globalizzazione per comodità di linguaggio, ovvero l’assunzione di modelli culturali che non ci appartenevano. Ciò ha portato a far sentire i giovani inadeguati nel loro modo di vivere, a vedere come giusti quei modelli e, di conseguenza, a sentirsi… sbagliati. I tosi de campagna, invece, sono quelli “resistenti”; quando vedono un “poserista” gli dicono: Ma dove votu ‘ndar? (tradotto: ma dove vai così conciato?)».

La band in concerto – Foto Davide Carrer

E il vostro modo di fare musica…
«Abbiamo attinto da certa musica americana, l’abbiamo reinterpretata parlando delle nostre storie. Anche in questo ci riconosciamo come tosi de campagna. Raccontare le nostre differenze è una sorta di resistenza artistica, che poi è quello che fanno a Napoli. Su questo sono inarrivabili».

Tornando ai modelli, cosa pensi della musica prevalente, penso alla trap, al rap italiano degli ultimi anni…
«Trap e rap sono tendenze diffuse, dobbiamo farne i conti. Possiamo discutere se siano un’evoluzione o un’involuzione, una cosa è sicura: sono il segno dei tempi. Ci sono più artisti singoli che band tradizionalmente intese. Però questi ragazzi si organizzano ugualmente in gruppo, uno canta, l’altro prepara le basi, l’altro fa le foto, un altro ancora i video. Sono una crew, una compagnia, appunto. Questo lavoro di gruppo per me è l’aspetto positivo, il riuscire a relazionarsi con altra gente».

Siete degli animali da palco, i vostri concerti sono esperienze di coinvolgimento, avete un seguito fedele come le band degli anni Settanta…
«Suonare con gli strumenti sul palco per noi è come chiacchierare tra amici, è una magia, una cosa fisica, corpi che si muovono a ritmo, intesa che riusciamo a trasmettere a chi ci ascolta. Abbiamo fan in tutto il Triveneto, ma anche in Lombardia e in Piemonte».

Avete citato anche un must della disco Simbaweda di Lady Brian…
«Brian è un vocalist di culto transgenerazionale. Assieme a Igor S. è stato per anni dj resident a Jesolo e in altre grosse discoteche del Veneto ma non solo. Pensa, da giovane, metallaro fino all’osso che odiava le discoteche, sono finito a suonare con lui, siamo diventati amici, suoniamo insieme».

I Rumatera sono andati a finire persino a Los Angeles…
«È stato nel 2015, quando Rocky Giò ha deciso di uscire dalla band. Rimasti senza un chitarrista abbiamo pensato a come trovarne uno, ma a modo nostro…».

Capovolgendo l’ovvietà!
«Sì, Abbiamo deciso di andare a Los Angeles, creare un talent e cercare un chitarrista americano che avesse le qualità per suonare con noi. Siamo rimasti in California tre mesi».

Quali erano i requisiti richiesti, se non sono indiscreto?
«Prove di “italianità” basate su stereotipi: saper fare la pasta, sedurre una persona di sesso opposto, una prova in lingua italiana orale e scritta e preparare uno spritz come si deve. L’abbiamo messo a punto con un titolo, The Italian Dream, abbiamo trovato un regista, il mitico Jako, Andrea Giacomini, il nostro manager s’è attivato dall’Italia e ha contattato la Campari e così abbiamo ottenuto lo sponsor. È stato davvero divertente»…

Ma il concorso ha avuto un vincitore?
«Certo! Una davvero tosta, Jen Razavi, musicista di origini iraniane, chitarrista delle The Bombpops, band californiana di punk rock. È stata con noi in tour dalle nostre parti per cinque mesi. Una gran bella esperienza, siamo diventati molto amici. A Los Angeles ci siamo tornati un altro paio di volte, poi la pandemia ha chiuso tutto».

Interviste: Dan Costa, la pace e la musica di Randy Brecker

Dan Costa – Foto Alon Levin

Non so quanti di voi conoscano Dan Costa. Per chi non lo ha mai sentito suonare, sarà una bella scoperta. Non solo perché è un pianista di gran talento, e già questo basterebbe a segnalarne l’ascolto. Ma soprattutto perché ha quel modo curioso e romantico di approcciarsi alla musica, quella sana ingenuità di chi riesce a tradurre in note le sensazioni e gli attimi.

Poi, ha un atout in più, permettetelo, molto soggettivo. È un appassionato di musica brasiliana, l’ha studiata a fondo, e il suo modo di comporre e ricercare quelle giuste pause e quelle armonie sapide che hanno fatto la fortuna della musica brasileira da Heitor Villa-Lobos in poi, è una delle sue cifre compositive. Nel suo Suite Três Rios, album pubblicato nel 2016, c’è il Brasile di Tom Jobim, lo Choro di Villa-Lobos ma anche quello di Jacob do Bandolim, di Pixinguinha, Noel Rosa e, in tempi più recenti del Trio Madeira Brasil e di quel geniaccio intemperante di Yamandu Costa. Con lui hanno suonato – tenendo conto anche del successivo lavoro del 2018, SkynessJaques Morelembaum, Teco Cardoso, Roberto Menescal (uno dei padri della bossanova), Romero Lubambo, Nelson Faria. Per lui ha cantato Leila Pinheiro, rarissima eccezione, visto che le sue composizioni sono quasi esclusivamente strumentali.

Conosciamo, dunque, un poi meglio Dan, prima di leggere la bella chiacchierata che ho fatto con lui un sabato mattina di qualche settimana fa. Trentadue anni, mamma sorrentina, papà portuense (portoghese di Porto), nato a Londra, vissuto nella Francia Meridionale, dove ha iniziato seriamente lo studio del pianoforte all’Académie de Musique Rainier III nel principato monegasco, quindi di nuovo in Gran Bretagna, per frequentare il Liverpool Institute for Performing Arts di Paul McCartney. Poi a Porto, nell’Escola Superior de Música e Artes do Espectáculo. Da qui, oltreoceano in Brasile, all’Unicamp di Campinas per un anno di perfezionamento sulla musica brasiliana. E, ancora, negli States, a Boston, per un corso di perfezionamento in music business al Berklee College of Music… Senza mettere in conto le frequenze ai tanti workshop e corsi tenuti da musicisti del calibro di Gary Burton, Kevin Hays, Scott Colley, Kurt Rosenwinkel, Jorge Rossy, Chick Corea e César Camargo Mariano.

Dan ha arricchito – musicalmente e culturalmente – questo suo lungo peregrinare per il mondo. Ha vissuto in otto Paesi diversi, ne parla correttamente tutte le lingue, si sente apolide nel significato più pregnante del termine, ovvero cittadino del mondo.

Lo si potrebbe definire, senza dubbi, un artista no limits, mai sazio di conoscere, imparare, sperimentare. Inevitabile che la sua musica rifletta tutta questa innata curiosità.

Lo scorso 9 marzo, in piena guerra russo-ucraina, ha pubblicato un brano inedito, Iremia, che in greco significa pace interiore, composto nel 2018, ben lontano dalla pandemia e dalle brutali impennate russe, su un’isola greca, dove in quel periodo si trovava ad abitare. Una melodia che riporta visivamente le sensazioni di un istante. Immaginate lo spettacolo di un tramonto: seduti, in religioso silenzio, davanti a voi un mare che si colora di luci e riflessi, l’eterno, misterioso passaggio dalla luce al crepuscolo, che ci emoziona ogni giorno. Con Dan c’è il mitico Randy Bracker, che, con la sua tromba ricama, sottolinea, esalta riflessivi paesaggi sonori. Un’alchimia perfetta tra i due artisti, anche perché la registrazione è avvenuta a distanza, Dan in Italia, lui negli States…

Dan, partiamo da Iremia
«Significa “pace interiore”. È un messaggio universale. Il brano coglie l’ambiente magico in cui ero inserito quando vivevo in Grecia. Dovevo lanciarlo un paio di mesi fa, ma, dovuto a dei contrattempi l’ho pubblicato a marzo, proprio in questo momento difficile per il mondo. Sarà stata una coincidenza? Chi lo sa…».

Non è stato, dunque, un caso nemmeno la collaborazione con Brecker…
«Abbiamo delle conoscenze in comune, come Ricardo Silveira e Teco Cardoso, con i quali avevo registrato altri brani in Suite Três Rios e Skyness. Ho inviato a Randy il mio brano via mail e gli ho chiesto se gli sarebbe piaciuto partecipare. Mi ha risposto in un modo entusiasta nel giro di pochi minuti. Così abbiamo registrato, lui in America io in Europa. È stato tutto molto spontaneo, e non mi aspettavo una risposta così rapida e lusinghiera».

Ne approfitto: mi piace molto il tuo album Suite Três Rios
«Grazie! È un lavoro concepito come una suite, la sua forma musicale è classica. Rispecchia il mio background, arricchito poi da studi jazz e di musica brasiliana. L’ultimo brano dell’album, l’ho chiamato apposta Aria, per riaffermare i canoni della suite, già suggeriti dai ritmi brasiliani che lo precedono…».

La tua origine di italo-portoghese cresciuto in un paese anglofono ha decisamente influito sul tuo modo di fare musica. L’antropologo Darcy Ribeiro la chiamerebbe miscigenação
«Madre italiana, padre portoghese, culture diverse ma in fondo anche simili… l’encontro das águas nell’Amazzonia mi ricorda un po’ queste mie origini. Il rio Preto e il rio Solimões scorrono paralleli senza confondere le loro acque… Mi sento così, conservo distinte le mie culture di partenza, credo che la fusione sia nell’insieme, dove ogni caratteristica rimane senza danneggiare l’altra».

Nei tuoi dischi c’è molto Brasile…
«Come in quelli di tanti altri artisti, si sente chiaramente che esiste una… brazilian conncection! Vedi George Benson o lo stesso Randy Brecker con Randy in Brasil: nel 2009 ha vinto un Grammy come miglior album di jazz contemporaneo».

Perché secondo te la musica brasiliana ha un così forte richiamo soprattutto per i musicisti jazz?
«Ad attrarre è la sua ricchezza, nonché il suo calore: l’unione di ritmi africani – soprattutto di Angola – e melodie europee provenienti dalla musica popolare portoghese e dall’opera italiana. La musica brasiliana, infatti, ha le sue origini nella Modinha e nel Lundum, a differenza del jazz americano, nato sempre da ritmi afro, mescolati però con la musica popolare proveniente dalle isole britanniche. Sono due ambienti diversi che permettono fusioni interessanti. Nella musica brasiliana c’è poi anche l’influenza india nella strumentazione, ugualmente importante».

La musica brasileira ha una struttura armonica piuttosto complessa…
«Certamente, ma dipende dal compositore. Sono stati maestri come Camargo Guarnieri, Villa-Lobos e Jobim, o più tardi, Hermeto Pascoal, a offrire al jazz i colori impressionistici dei francesi Ravel o Debussy o le progressioni che ricordano lo splendore del jazz americano».

Quando hai iniziato a suonare il piano?
«Avevo cinque, sei anni. I miei genitori volevano che studiassi pianoforte. A me non interessava molto, preferivo giocare a calcio. La svolta l’ho avuta verso i dieci, undici anni, quando ho ascoltato le canzoni di Gianni Morandi. Mi piaceva la sua grinta e il modo in cui le interpretava. Negli anni Ottanta/Novanta faceva un bel pop, italiano con influenze anglosassoni, molto positivo, solare. Volevo capire come “funzionavano” le sue canzoni, così mi mettevo al piano e cercavo di decifrarle. Mi identificavo in quella musica. Nella musica pop l’armonia è importante. Una delle prime canzoni che ho suonato al pianoforte è stata un altro classico, Imagine di John Lennon. Poi siccome mi piaceva leggere spartiti classici a prima vista iniziavo ad improvvisare quando la melodia si ripeteva. Così mi sono avvicinato al jazz, tramite In a sentimental Mood di Duke Ellington e O Barquinho di Roberto Menescal».

Dan Costa – Foto Artesuono

Cosa ascoltavi e cosa ascolti ora?
«Mi interessavano anche le mie origini partenopee. Ricordo che mio nonno, il papà di mia mamma, suonava e cantava i classici napoletani, ‘O surdato ‘nnammuratoTorna a Surriento, Funiculì Funiculà… La mia nonna materna, invece, cantava le canzoni di Amália Rodrigues, Casa Portuguesa, Cheira a Lisboa... Più tardi ho scoperto la musica di Carlos de Carmo. Anche questo ha contribuito alla mia formazione. Ascoltavo anche Elton John, i Simply Red, Sting, i Police. Mi piacevano per la loro musica ma anche per i loro testi, così come i grandi cantanti brasiliani come Emílio Santiago. Oggi come oggi ascolto molta musica strumentale, soprattutto musica classica, come ad esempio J.S. Bach, suonato da Murray Perahia (pianista americano considerato uno dei maggiori interpreti di tutti i tempi del musicista tedesco, ndr) e jazz moderno. Mi piacciono le big bands».

Finora hai abitato in otto Paesi diversi. Dove ti senti a casa?
«L’aver vissuto in molti luoghi mi ha aperto alle culture di ciascuno. Dove mi sento a casa? Dall’Inghilterra all’India, c’è sempre qualcosa ovunque io vada che mi fa sentire un po’ a casa. Se proprio mi costringi a scegliere… beh, il Brasile per motivi culturali. Quando frequentavo il master a São Paulo, quasi tutti i miei colleghi avevano discendenza italiana o portoghese, c’era quel qualcosa che ci accomunava che ci faceva sentire parte di una comunità. Anche in Grecia, dove ho vissuto alcuni anni, mi sono sentito a casa. Forse saranno le origini della mia famiglia materna che di cognome fa Greco…».

Ritorno alla tua Suite Tra Rios: l’unico brano cantato l’hai affidato a Leila Pinheiro…
«Infattioè stata la prima ospite che ho contattato. Mi piaceva molto il modo in cui interpretava la bossanova, dandogli l’eleganza timbrica che il genere meritava. Tra l’altro è una delle artisti che ascoltavo durante la mia adolescenza. Il brano che lei avrebbe poi interpretato era ancora strumentale quando le ho scritto, così mi sono messo a lavorare su un testo nel quale volevo trasmettere il messaggio dell’album, essenzialmente strumentale – fiumi naturali e culturali che sboccano in un mare senza fine…».

A cosa stai lavorando ora?
«Nella mia attività artistica sto collaborando con Roberto Menescal alla composizione di un brano. Siamo molto presi, ci sentiamo spesso per scambiarci idee, proposte… Una bella collaborazione».

Disco del Mese: “Amanti, Santi e Naviganti”: la Sicilia di Antonio Smiriglia

Antonio Smiriglia – Foto Charley Fazio

Ci sono state buone uscite nel mese di febbraio. L’altro giorno i Rehab con Sand Castles, e i Caroline, otto elementi al loro primo disco, ipnotico e riflessivo, con un lavoro che porta il loro stesso nome. Quindi gli Electric Sheep Collective, anche questi artisti al primo disco pubblicato, dieci musicisti per un contemporary jazz frizzante, elaborato, complesso ma seducente (ne riparlerò sicuramente, me lo sono ripromesso!). Quindi c’è il ritorno di Hurray for the Riff Raff con un disco dai contenuti forti, Life On Earth

Ma ce n’è uno che mi ha folgorato, una World Music di marca italiana davvero interessante. E, sì: è proprio lui il Disco del Mese di febbraio. L’autore è Antonio Smiriglia, un artista siciliano, di Galati Mamertino, paese di 2700 anime sui Monti Nebrodi, vicino a Capo d’Orlando, più o meno a metà strada tra Catania e Palermo. Il disco, invece, Amanti, Santi e Naviganti, uscito il 19 febbraio per Aventino Music/Opensound Music, è un piccolo, prezioso gioiello, uno spaccato di vita raccontato in siciliano.

Smiriglia è un musicista che da anni sta dedicando buona parte della propria attività artistica alla ricerca della musica popolare sicula. È un nome affermato nel giro della musica popolare d’autore. Collabora da anni con Ambrogio Sparagna – è voce solista dell’orchestra Tavola Tonda di Palermo, e ha aperto in diverse occasioni concerti all’Auditorium Parco della Musica di Roma. Ha all’attivo quattro lavori discografici, Ventu d’amuri con i Discanto Siculo, Vinni a cantare e Susiti bedda con i Cantori Popolari dei Nebrodi. Ha collaborato anche con Franco Battiato. Grazie a questa straordinaria passione, riesce a raccontare e trasferire nella sua musica atmosfere e ritmi unici. Parliamo di World Music, quella vera.

Devo confessarvi che il lavoro di Smiriglia mi ha incuriosito e stregato non poco. C’è un che di ancestrale che attrae inesorabilmente, una sirena che ti cattura in una rete di spunti sonori, mediterraneità allo stato puro, storia, attualità. 

Arrangiamenti mai scontati, dove tamburi a cornice e bouzuki insieme agli strumenti tradizionali siculi – vedi il friscalettu di canna o il tamburo Marranzano – si amalgamo nella composizione di melodie e armonie che riportano a ritmi antichissimi ma anche a quella certa World Music colta, Peter Gabriel ne è stato un maestro, dove viene sfruttata la bellezza e la potenza melodica in un compiuto e dovuto omaggio a una terra meravigliosa, abitata e conquistata da numerose etnie che ne hanno rafforzato carattere e genio artistico.

Un lavoro pignolo, sia nella composizione sia negli arrangiamenti, una registrazione altrettanto attenta che nobilita strumenti e voce, ne fanno uno dei più belli e interessanti dell’ultimo periodo. L’attacco del primo brano, Naviganti, un contrabbasso che inizia a narrare una litania propiziatoria per la gente che esce in mare, seguito da una chitarra in arpeggio e una serie di vocalizzi di Antonio, una voce acuta e struggente, araba, valgono l’ascolto del disco. Perché lì, in quelle prime frasi sta scritto tutto quello che ascolterete nel disco. Lì, proprio lì, inizia un racconto fantastico fatto di salsedine, afrori amorosi, santi, devozioni, pescatori e migranti. Il Mediterraneo è croce e delizia, soprattutto in questi ultimi anni, vita e morte, amore e sofferenza, calore e gelo… Un disco che puoi annusare, ascoltare con tutti i sensi, e che percepisci subito come tattile.

Dentro Amori, Santi e Naviganti c’è, dunque, un piccolo grande mondo, quello della Sicilia, un’isola che ha migliaia di storie – belle e tragiche – da raccontare e noi, per fortuna, da ascoltare. La cultura musicale mediterranea rivive in preziosi accenti, nessuno prevaricante, piccoli inserti jazz – vedi la batteria in Tempu, suonata da Stefano Sgrò -, frammenti di rock prog – in alcuni punti ci sono echi dei Jethro Tull, di Ian Anderson -, ascoltate il flauto traverso di Fabio Sodano in Controvento -, quindi, il fado non convenzionale di Dulce Pontes (in Si Li Me Paroli).

Il mare porta e confonde tutto, va e viene, e in questo fluttuare galleggiano ritmi e poesie del mondo dove non manca nemmeno il Brasile, con quegli interventi nell’uso dei fiati e dei cambi di ritmo tipici della scuola mineira di Milton Nascimento. Vanno e vengono, naturalmente. L’inizio di Terra lo conferma: un bouzouki metallico suonato da Socrate Verona, a scandire, e il flauto traverso sempre di Sodano a introdurre: brano che racconta il mare degli sbarchi: “Varda la navi ca staci partennu/ Cu li migranti a sbarcari/ Varda la navi ca staci partennu/ Pi farli jri a muriri”, canta Antonio.

Permettetemi un’annotazione sulla voce e sul canto: meriterebbe un post a parte tanto è attento, complesso, teatrale, profondamente legato alla terra. Credo che la summa del canto di Smiriglia la si trovi in Donna Gintili, dove la voce dell’artista si fonde con quella della musicista messinese Oriana Civile, al punto da non percepire più quale sia una e quale l’altra. Perfettamente in sincrono, armonicamente fuse. Un piccolo capolavoro.

Sì, mi ha intrigato molto questo Amanti Santi e Naviganti. Come mi spiegava Ilaria Pilar Patassini nel post pubblicato la scorsa settimana, «quando un disco mi piace lo ascolto, riascolto e ascolto ancora…». Per questo ho chiamato Antonio, per fare quattro chiacchiere con lui.

Bello il titolo Amanti, Santi, Naviganti
«Raffigura e sintetizza la mia terra. L’aspetto amoroso viene dalla tradizione popolare a cui ho voluto dare una nobiltà propria: le serenate, l’amore cantato, contrastato, bello, fatto di passioni, dove ci sono le partenze, la nostalgia i cuori affranti. Santi, perché da sempre qui il sacro convive con il profano. Basti pensare alla commistione in tempo pasquale nel venerdì santo dove convivono riti cattolici e feste pagane. O per esempio, la festa del Muzzuni il 24 giugno, che coincide con la ricorrenza di San Giovanni e il solstizio d’estate. Il Muzzuni è una brocca mozza rivestita di tele e oro pregiati, riempita di sementi fatti germogliare. Un rito propiziatorio in onore della Madre Terra che si rifà alle feste dionisiache…».

E poi ci sono i Naviganti…
«Siamo un’isola, una terra circondata dal mare. Sono numerosi i riti devozionali, chiamati Cialome, che servivano ai pescatori, per una buona pesca, per un ritorno a casa, alla famiglia. Le invocazioni si manifestano in vocalizzi quasi da muezzin, un richiamo di voci per farsi forza durante la pesca del corallo. Invocazioni e ritmo per incitare a remare. Naviganti sono anche i migranti che arrivano sulle nostre coste, gente che spera in una vita migliore e che invece trova, nel mare, la morte».

Qui il testo di Naviganti:
E vidi comu assumma lu curallu
E vidi
E vidi comu assumma lu curallu
E tira
E lu ventu ca lu mari fà strammiari
E vidi e vidi
E vidi comu assumma lu curallu
Comu assumma lu curallu
Ca lu ventu ca sciuscia ora passerà
Ca lu ventu c’acchiana ora carmerà
Amuninni cu li santi ca passari lu fà
Pi la luna e pi li stiddi
Pi li santi piciriddi
La madonna e li santi ni pruteggirà
La madonna e li santi n’accumpagnerà
La madonna e li santi ni pruteggirà
Ca lu ventu ca sciuscia ora passerà
Ca carmerà ca passerà
La madonna e li santi
La madonna e li santi passari lu fà

 

Antonio Smiriglia – Foto Charley Fazio

Antonio cosa ti attrae della musica popolare?
«Ero militare a Caserta. Lì iniziai ad ascoltare la Nuova Compagnia di Canto Popolare, le Villanelle napoletane, Roberto De Simone. Tornato a casa ho studiato la tradizione siciliana, mi incuriosivano i riti, come quello della mietitura, le canzoni che cantavano gli anziani contadini e i pescatori. Sentivo il bisogno di registrarli. Poi… me ne sono innamorato perdutamente. Per questo scrivo e canto solo in siciliano, mi esprimo attraverso la mia lingua, che è vibrante, dagli accenti forti. Nei live mi trasformo, divento tutt’uno con la musica, la tradizione, la vocalità la gestualità, gli spettatori rimangano affascinati da tutto ciò».

Sei nato a Galati Mamertino, paese dei Nebrodi, e hai scelto di vivere qui…
«Sì, sono a mezz’ora dal mare, da Capo d’Orlando, e immerso nell’entroterra dei Nebrodi, un luogo meraviglioso. Sono sempre stato qui, come si dice: le battaglie si fanno sul posto. Avrei potuto andarmene a Roma o a Milano, ma ho preferito rimanere nella mia terra. Ho bisogno di questo posto, mi sento attratto, come se, dentro di me, ci fosse qualcosa che qui trova le pulsazioni giuste. Non riesco a spiegartelo, qui compongo, studio, faccio il musicista, sono me stesso, mi nutro di questo senso di appartenenza. La Sicilia, lo dico sempre, è bedda e maliditta: è un laboratorio a cielo aperto, un luogo che produce storie fantastiche. Ho un rapporto molto bello con lei, anche contrastato, ci sono le difficoltà che si conoscono. Insomma, la Sicilia o la ami o la odi. Qui ci sono molti talenti musicali completamente sommersi, che difficilmente riescono a uscire dai confini isolani. In Puglia, per esempio, è già diverso, grazie all’ormai più che decennale progetto Puglia Sounds, attraverso il quale gli artisti riescono ad avere una certa visibilità».

Oltre alla Sicilia, ti senti attratto da altri luoghi?
«Amo il Portogallo, è un altro posto dove le tradizioni sono ancora forti, ricco di storia di musica. Si Li Me Paroli ha tanto fado dentro».

È, dunque, un bel lavoro di World Music…
«Anche su questo sto molto attento. Fare World Music non significa semplicemente aggiungere uno strumento etnico. È un linguaggio che richiede la conoscenza di tempi musicali scomposti, di accostamenti fra strumenti e voce…».

Quali sono i tuoi ascolti?
«Peter Gabriel, Enzo Avitabile, David Bowie, The Smiths, Simon & Garfunkel. Poi ascolto di tutto, non ho barriere. Quello che non riesco a capire è il nuovo pop italiano. Non è nelle mie corde».

Sei laureato in legge, giusto?
«Sì ho anche fatto pratica. Poi – è un ricordo che non ho mai raccontato – un giorno in cancelleria, dove stavo depositando un atto, ho incontrato un giudice che mi aveva visto suonare e cantare in uno dei miei concerti. Mi disse: “Che ci fai qui? Questo non è il tuo posto, vai a fare Arte”. Così ho deciso una volta per tutte cosa sarei stato!».

Sanremo, Mauro Ottolini, l’Ottovolante e… “Il Mangiadischi”

Mauro Ottolini con Vanessa Tagliabue Yorke e l’Orchestra Ottovolante

È iniziato Sanremo! In buona compagnia con San Valentino, caratterizza questo febbraio graziato da un sole tiepido che annuncia l’affacciarsi di una Primavera precoce. I due “santi” hanno in comune un bel marketing oliato, il buonismo delle migliori occasioni e i cuoricini pulsanti sui social.

Lo state vedendo? (che domanda!). La musica, as usual, è un pretesto per mettere in scena uno show generalista. Un classico, saporito ragù come quello che faceva mia mamma, preparato con tutti i crismi, soffritto di cipolla, carote, sedano, tre tipi diversi di carne, aggiunta di un paio di chiodi di garofano, pomodori freschi, sale e pepe quanto basta…

A Sanremo non conta necessariamente saper cantare o conoscere la musica e nemmeno essere dotati di un guizzo armonico meno scontato. Delle 25 canzoni in concorso, ne ho annotate tre, quelle di Elisa, di Giovanni Truppi e dei siciliani La Rappresentante di Lista

Noia… ho detto noia, non gioia, per dirla alla Franco Califano…

Pensando a un Festival della canzone italiana diverso, meno scontato, ho approfittato dell’uscita recente di un doppio cd, Il Mangiadischi, firmato da Mauro Ottolini e dalla sua Orchestra Ottovolante, per un divertissement in parallelo con la kermesse ligure. Ventuno brani che ripercorrono la storia di un grande periodo della canzone italiana, tra i Cinquanta e i Sessanta del secolo scorso, con alcune escursioni addirittura negli anni Trenta e Quaranta.

Un ripasso doveroso della cultura musicale dell’epoca, tra ritmi per lo più latini, cavalcate swing, merengue e mambo a manetta, fiati che pompano come se non ci fosse un domani, scanditi dalle percussioni dell’ottimo Simone Padovani, un extra-Ottovolante che marca il ritmo latino dell’orchestra! Il bello – e attuale – della faccenda è che molte di queste canzoni hanno fatto la storia di Sanremo quando era “soltanto” un semplice Festival di musica e la costruzione dei brani era studiata con l’intento di lasciare ai posteri qualcosa, se non di “infinito”, almeno di lunga durata.

C’è Grazie dei Fior, cantata magistralmente da un’altra ospite dell’Orchestra incredibilmente brava, Vanessa Tagliabue Yorke; Mi va di Cantare, brano portato da Louis Armstrong al Festival nel 1968 assieme a Lara Saint Paul (su 14 canzoni in gara, arrivò penultimo…), con la voce dello stesso Ottolini in versione Louis… E ancora, Il tuo bacio è come il Rock, di Celentano; Tu vuo’ fa l’Americano di Renato Carosone; Consoci mia cugina del torinese Ernesto Bonino, swing di fine anni Quaranta; Mia cara Venezia, Il Dritto di Chicago e Sì sì papà di Fred Buscaglione, quest’ultima la interpretava Fatima Robin’s; Nebbia di Caterinetta Lescano, anno domini 1941… I brani si susseguono con gli interventi del trombettista Fabrizio Bosso e del pianista Stefano Zavattoni, in un coinvolgente mondo armonico senza tempo dove c’è un solo punto fermo: suonare buona musica e farlo al meglio. Un lavoro tutto registrato dal vivo, per questo ancora più coinvolgente…

E così… mi sono preparato il mio Festival di Sanremo Alternativo mettendo in gara i 21 brani de Il Mangiadischi. Unico spettatore, seduto comodo comodo sul divano, volume in cuffia per non esser linciato dal resto della famiglia e dai vicini, un bicchiere di Rum, qualche quadretto di cioccolato fondente… In questo personale Sanremo atemporale ho previsto anche la giuria, anzi, Il giurato. Lo ammetto, uno un po’ di parte: è lo stesso Mauro Ottolini, in grande spolvero, pronto a raccontarmi il disco e, quindi, a votare il vincitore del mio Personal Festival.

Con il musicista veronese sono andato a colpo sicuro a prescindere: conosce bene la macchina di Sanremo – quello vero – per aver collaborato con alcuni cantanti saliti sul palco dell’Ariston, uno per tutti, Rafael Gualazzi…

Mauro, eccoci. Mi sono stancato delle canzoni di Sanremo…
«Dammi retta, visto che anche noi ne stiamo parlando vuol dire che la manifestazione ha comunque raggiunto il suo scopo. Il suo successo sta proprio nel catalizzare l’attenzione».

Ok, ma… possibile che – parlando sempre di musica – l’encefalogramma del festival sia praticamente piatto?
«Ricordati che il Festival va di pari passo con la cultura, lo sviluppo e i gusti delle persone».

Quindi, l’ascolto attuale s’è livellato su una musica di facile presa?
«Ripassa la storia della manifestazione: Sanremo è nato come un vero Festival, cioè come un contenitore nel quale doveva esserci il meglio del meglio della canzone italiana di quel periodo. Oggi si è inesorabilmente adattato a un pubblico digitale, dove tutto deve essere veloce, arrivare subito, non deve far riflettere perché non c’è tempo né voglia di pensare… Un pubblico a cui la canzone deve subito piacere, dunque».

Certo, a Sanremo non va la musica d’avanguardia perché sarebbe un flop, ma almeno un po’ di sostanza…
«L’eccellenza, la sperimentazione sono visti come un rischio. Comandano gli affari e non la cultura, ma per questo non incolpo gli artisti. Ripeto, in un mondo dove tutto è veloce, superficiale sono sufficienti personaggi alla Achille Lauro che non sanno cantare, né suonare, né parlare… Sono personaggi utili al momento, costruiti per uno show che deve essere confortante. In questo comfort ci stanno anche le pseudo-provocazioni, ma coloro che hanno provocato veramente, per andare indietro nel tempo, l’hanno pagata… ricordo Xavier Cugat e la moglie Abbe Lane, attrice e cantante americana, donna tutta sensualità e décolleté, considerata troppo scandalosa per i censori della Rai, che la tagliarono».

La struttura dei brani è cambiata di conseguenza
«Di solito le canzoni avevano una introduzione suonata più o meno lunga, serviva a preparare l’ingresso della voce. Ora il cantato arriva subito e così anche l’inciso, formula che, comunque, vale per tutto il mondo pop! Sono scomparse le grandi melodie. Pensa a Il Cielo di Renato Zero, ai brani di Mia Martini, per me l’Aretha Franklin italiana, a Riccardo Cocciante, Luigi Tenco, Umberto Bindi, che cantò anche con Chet Baker, Domenico Modugno… Ma quanti ne abbiamo avuti!».

Mauro Ottolini – Foto Roberto Cifarelli

Perché un doppio disco su una musica lontana anni luce da oggi?
«Mi piace molto lavorare su questo genere di brani e anche sul jazz anni Venti. Sulle 21 tracce dell’album ho cercato di proporre arrangiamenti innovativi. Le introduzioni, ad esempio, sono sviluppate in maniera certosina. Ho inserito delle sorprese, dei cambi di tonalità e ritmo come in Grazie dei Fior (cantata da Nilla Pizzi che vinse, nel 1951, la prima edizione del Festival di Sanremo, allora al Salone delle Feste del Casinò della città ligure, ndr).

Non vorrei fare l’antipatico e il pensionato disfattista seduto in panchina ai giardinetti di quartiere, ma… non ci sono più le canzoni di una volta!
«Mi faccio spesso una domanda: nella musica c’è stata un’evoluzione, nel bene o nel male? La mia risposta è che semplicemente la musica si adatta alla società. Alla fine della Seconda guerra mondiale, quando si iniziò a ricostruire, c’era una voglia di fare enorme che portò al benessere degli anni Sessanta. Una crescita economica a cui è corrisposta anche una crescita culturale. Quando c’è fermento sociale anche l’arte è sublime. Nel periodo attuale non c’è quella spinta a migliorare e i livelli si sono abbassati vertiginosamente. La musica richiede passione, conoscenza, sviluppo, bisogna avere voglia di studiarla».

Il discorso vale anche per chi la ascolta: ci si “accomoda” su facili canoni espressivi, evitando complessità sonore perché non si hanno gli strumenti per capirle…
«Io stesso ho apprezzato certi dischi dopo averne ascoltati altri. Prendi ad esempio il Quartetto Cetra: lì c’era divertimento, c’erano arrangiamenti incredibili, studio dell’impostazione della voce, altissimi livelli musicali».

A proposito di canto: ma sei tu la voce maschile nel disco?
«Ebbene sì sono io! Ti confesso che all’inizio, da adolescente quando formavamo i primi gruppi per suonare, io facevo il cantante. Sarà per questo che amo la musica e la canzone italiana…».

Ottima l’imitazione della voce di Louis Armstrong!
«Basta fumarsi un pacchetto di sigarette al giorno e bere una generosa dose di whisky…».

Tra le 21 in gara c’è anche una versione di Brava della mitica Mina (1965) cantata da Vanessa Tagliabue Yorke…
«(ride, ndr) Ho voluto inserirla nel disco perché nasce da uno scherzo che mi ha fatto Vanessa. Non voleva cantare Brava, la sua erre moscia, sosteneva, glielo impediva. Alle prove mi ha fatto una sorpresa: invece del testo originale cantato da Mina, ne ha scritto uno alternativo, dove ironizzava sulla sua pronuncia. Un pezzo intelligente! Abbiamo chiesto alla casa editrice che detiene i diritti di Bruno Canfora, l’autore, di inciderla così, ma non ci è stato autorizzato. Ormai avevo già pronto l’arrangiamento, una settimana di lavoro. E dunque, eccola qua!».

Un brano fantastico, potrebbe essere lui il vincitore, che ne dici Giurato Unico?
«Potrebbe ma…».

Vabbè, andiamo oltre. L’Orchestra Ottovolante se non sbaglio quest’anno festeggia un bel traguardo?
«Facciamo i vent’anni di attività insieme. Nella formazione base siamo in undici elementi. In aggiunta c’è Vanessa. Su Mambo 5 c’è l’incredibile Vincenzo Vasi, che suona un numero indefinito di strumenti giocattolo».

Mauro, dobbiamo chiudere, mica aspettiamo sabato! Deciditi! Devi scegliere la canzone vincitrice del primo Festival di Sanremo Alternativo Il Mangiadischi, sennò mi devo far fuori la bottiglia di Rum e il cioccolato l’ho finito…
«Sono tutti grandi brani, hanno arrangiamenti frizzanti. Però, uhmm, beh… a una ci sono davvero affezionato, sì mi piace proprio… credo che…».

E dai, non farmi stare sulle spine, non abbiamo interruzioni pubblicitarie!
«Ok ok. Il vincitore della prima edizione del Sanremo Alternativo Il Mangiadischi con un voto su uno è… Nebbia, di Caterinetta Lescano, arrangiamento di Pippo Barzizza, cantato da Vanessa Tagliabue Yorke, arrangiamento di Mauro Ottolini. È un gran brano; il genovese Barzizza era un compositore del livello di Armando Trovajoli ed Ennio Morricone. Ha una poetica pazzesca, un testo magnifico!».

Noi la finiamo qui, sotto una liberatrice e purificatrice pioggia di note swing in Conosci Mia Cugina e Tu vuo’ fa l’americano. Fiati in crescendo, musica a bomba, irrefrenabile, afrori coloniali, corpi che roteano… Che festival, gente! Whisky’n’soda’n’rock’n’rollWhisky’n’soda’n’rock’n’roll…

Interviste: Claudio Fasoli, il jazz e la cura per l’armonia

La teoria della spugna, ma anche la pratica dell’uvaggio e la pazienza dell’ascolto. Da un’intervista, generalmente, si impara sempre qualcosa. Ti fissi dei punti fermi, delle sensazioni che poi ti riservi di approfondire. Ma, raramente, ti segnano. Nella mia – ormai – lunga vita prestata al giornalismo ho parlato e scritto di centinaia di persone. Ma vi confesso che solo tre mi sono rimaste impresse a distanza di anni, una dall’altra.

La prima è stata con lo scrittore brasiliano Jorge Amado, che mi ha parlato della sua Bahia, la seconda con un altro brasiliano immenso, l’architetto Oscar Niemeyer, la terza oggi, con Claudio Fasoli, compositore, sassofonista, uno dei miti del jazz. Il motivo della mia chiamata a Claudio è stato un premio prestigioso che ha vinto a gennaio: il miglior disco italiano del 2021, con Next, assegnatogli dalla rivista Musica Jazz nel suo annuale “award” Top Jazz. Un premio importante perché il lavoro di quest’album – tra poco ne parlerò più approfonditamente – premia la ricerca oltre che la qualità.

Torno un attimo indietro, a Niemeyer. L’ho intervistato nel suo studio a Rio de Janeiro, a Copacabana, una calda mattina di fine primavera, con il cielo azzurro terso e il sole che rendeva l’oceano scintillante. Di lì a un mese avrebbe compiuto 100 anni. Nel suo ufficio mi colpirono tre cose, un cavaquinho, che lui stesso suonava, una foto in bianco e nero raffigurante tre donne nude, distese (rappresentavano il flessuoso panorama di Rio, ma anche la fissazione dell’architetto per le linee curve) e un enorme televisore che cozzava con la stanza piccola, raccolta. Lì il geniale professionista che disegnò Brasília e lasciò le sue tracce in tutto il mondo, Italia inclusa, componeva la sua arte. Un anziano signore con una creatività fanciullesca accompagnata da una saggezza dovuta ad anni d’esperienza sul campo, tracciava con il carboncino sulla parete che faceva imbiancare ogni mese, veloci linee che guardavano il futuro, spazi che nascevano modellando il cemento, curvandolo, rendendolo armonico con la natura circostante, grazie anche a giochi d’archi e d’acqua e a soluzioni estreme. L’architettura come mezzo per diffondere cultura e bellezza, aiutare la gente comune a guardare oltre i propri limiti (tempo, censo, educazione) e le difficoltà della vita.

Parlare con Claudio Fasoli mi ha ricordato proprio tutto questo. Nonostante suoni da anni, il musicista continua a ridisegnare il pentagramma con la sua musica intuitivamente fresca, guardando al futuro, cercando di non ripetersi, creando suoni diversi… Fare arte e cultura, appunto…

Ho iniziato ad apprezzare Fasoli, poco più che adolescente, negli anni Settanta quando faceva parte di quella band, per me mitica, che furono i Perigeo. Ricordate Azimut? Era il 1972. E anche Abbiamo tutti un Blues da piangere (1973), o La Valle dei Templi (1975). Una band che sancì l’inizio della fusion in Italia. Certo, c’erano anche gli Area, come mi fa notare lo stesso musicista. Ma il sax di Claudio, le tastiere di Franco d’Andrea, la chitarra elettrica di Tony Sidney, il basso di Giovanni Tommaso e la batteria di Bruno Biriaco sono un capitolo importante della musica d’avanguardia italiana.

Per questo ho voluto intervistare Fasoli. Milanese d’adozione e veneziano di nascita racchiude l’essenza delle due città, la prima seria, riflessiva, intraprendente, rispettosa dei tempi e dei silenzi, la seconda aperta da sempre alle contaminazioni, elegante, leggiadra. Riunire armonia ed efficenza è una fortuna per chi la sa cogliere…

Ultima precisazione prima di leggere l’intervista: in Next, disco pubblicato dalla Abeat Records il 5 agosto dello scorso anno, che vi raccomando di ascoltare attentamente perché entra poco a poco, sottilmente persuasivo, per poi conquistare, Claudio ha dei meravigliosi compagni di viaggio: il chitarrista Simone Massaron, il contrabbassista Tito Mangialajo Rantzer e il batterista Stefano Grasso, tutti milanesi. Un quartetto incredibile…

Claudio, partiamo dal Top Jazz per Next, miglior disco 2021…
«È un riconoscimento importante, che dà soddisfazioni, perché indica che abbiamo intrapreso una strada giusta, riconosciuta e riconoscibile. Un premio apprezzato visto che viene assegnato da una giuria composta da critici specializzati».

Un lavoro dove proponi forme innovative nel linguaggio jazz.
«Seguo la mia curiosità. Per me era importante riuscire a realizzare un progetto con una realtà sonora caratterizzata da suoni diversi da quelli fatti finora. Fissare un’idea di progetto aprendo una nuova strada rispetto alle ultime produzioni. Questo non vuol dire che abbia chiuso con le esperienze precedenti. Next è un disco fondamentale per verificare il mio lavoro».

Una prova del tuo “Inner Sound”, il suono interiore di cui parli spesso? (Il musicista ha pubblicato anche un libro sul tema, Inner sounds nell’orbita del jazz e della musica libera, 2016, oltre a un album, Inner Sounds, dello stesso anno, con il Double Quartet, ndr)…
«È l’idea giusta. Il musicista jazz, che ha la responsabilità e l’opportunità di caratterizzare la sua musica, lo fa in base ai suoi ascolti. Deve comportarsi come una spugna, e cioè assorbire, ascoltare, tanto e di tutto, partendo dalla musica classica. L’ascolto è importante, perché solo così si ha la possibilità di ampliare le possibilità espressive. Inner Sound significa anche comportarsi come un bravo enologo, saper dosare uve diverse e miscelarle in una botte dove l’uvaggio riposerà per diventare un’altra cosa, ricca, intrigante, soprattutto diversa. Senza il primo passo non ci sarà il secondo. Se ascolti King Oliver, Chopin, Debussy, Keith Jarret, Jan Garbarek e Miles Davis otterrai di sicuro un suono che non è quello dei singoli musicisti ma un altro, elaborato dalla tua conoscenza e creatività».

Buona parte del tuo lavoro, dunque, è ascoltare…
«Dedico molto tempo, perché la musica è fatta di tante cose, entri in contatto con varie esperienze. Non è detto che tutto ciò che si ascolta sia necessariamente buono o apprezzato».

Scivolo sui ricordi, tenendo il tema Inner Sound: i Perigeo sono stati una delle band che, negli anni Settanta, hanno contribuito ad accendere la mia passione per la musica. Siete stati i primi in Italia a inserire il concetto di Fusion…
«Quello che caratterizzava i Perigeo era l’uso del rock come elemento ritmico in un’architettura  jazzistica. Non facevamo jazz ortodosso, era piuttosto la ricerca di qualcosa di nuovo, ma il linguaggio dei Perigeo era jazzistico. Non eravamo i soli, anche gli Area lavoravano più o meno in quel senso».

Elementi ritmici presi da hip hop o rap non sono nelle tue corde?
«Herbie Hancock ha spesso usato questo materiale con risultati più o meno discutibili. Non sono nelle mie corde, non li ho mai studiati seriamente e, a dire il vero, non interessano alla maggior parte dei musicisti jazz, sia americani sia europei».

Ciò significa che…
«Nella mia musica cerco di essere integerrimo. Preferisco rispettare le mie valenze facendo musica onesta che ha in sé delle verità. Non faccio musica per gli altri, non seguo le mode per vendere. È una musica autentica, vera. Pop e Hip Hop sono generi che non conosco e non sento il bisogno di approfondire. Sarebbe come chiedere a Debussy perché non ascolta Stravinskij. Ti confesso che tanti ritmi africani non li ho coltivati a lungo. Sono più per la cura dell’armonia e della melodia».

Come nascono le tue composizioni?
«(ride, ndr) Mi hanno fatto addirittura un docufilm (Claudio Fasoli’s Innersounds di Angelo Poli e Carlodavid Mauri, 2018, ndr). In tempi normali, in modo del tutto occasionale. Sono un po’ evasivo. Ogni giorni mi assalgono tante idee, certe volte, per strada, mi viene in mente un brano perfettamente congegnato. Se trovo qualcosa su cui scrivere me lo appunto, altrimenti, dopo dieci minuti me lo sono già dimenticato. Quando, invece, ho bisogno di comporre perché non ho musica pronta, mi metto a strimpellare al pianoforte… Recentemente ho trovato un faldone di appunti dove avevo già preparato alcuni brani completi, che mi ero totalmente scordato di aver scritto. Due di questi li ho uniti in un unico brano, Mix, che ho pubblicato su Next».

Com’è il tuo rapporto con la musica elettronica?
«Negli ultimi dischi ho usato solo strumenti fisici, ma la trovo estremamente scenografica, evocativa, seduttiva, sensazioni che non necessariamente gli strumenti normali sanno trasmettere. Usare l’elettronica per me è come imparare una lingua straniera: vieni a conoscenza di altri mondi sonori e amplii, così, le tue possibilità. Il jazz è il mio italiano, ma posso imparare il mio francese, il mio russo, che è l’elettronica».

Il jazz è un po’ come l’Esperanto, un insieme di lingue diverse…
«Di bello ha la disponibilità ad aprire la mente a ogni tipo di esperienza e rendere “jazz” ciò che non lo è. Se ascolti Wayne Shorter ci trovi Chopin, Debussy, la cultura della musica in senso lato. Il jazz ha sempre assorbito e/o arricchito, è sempre disponibile all’apertura, un linguaggio straordinario».

Però non è di massa. È per pochi privilegiati?
«Il Jazz è una musica di nicchia, ma non per sua scelta. Non viene presentato come meriterebbe, è praticamente uno sconosciuto, come la musica contemporanea. La verità è che non lo si fa mai ascoltare. Il jazz esiste nei vinili, nei Cd, ma non nelle radio. Non ci sono spettacoli diffusi. Fanno ascoltare il gospel passandolo per jazz».

Perché, secondo te?
«Per lo stesso motivo per cui in Italia non esiste che ti vedi al cinema un film in lingua originale. Non ci abituiamo a sentire suoni e parole pronunciati in maniera diversa dalla nostra. Dovremmo, invece, addestrarci ad ascoltare altre lingue. Lo stesso vale per il jazz. È una questione culturale e un’emarginazione razziale, vale anche per la musica classica: le poche volte che viene trasmessa alla radio o in televisione, se non sei avvezzo ad ascoltarla, cambi subito canale, reputandola noiosa! Abituandosi a sentirla, come fai con una lingua straniera, entri nel suono, la capisci, la riconosci, la acquisisci come linguaggio. Se i mezzi audiovisivi fanno ascoltare solo il festival di Sanremo, fatto bene non lo metto in dubbio, ma pompato solo per scopi commerciali, si crea di fatto una discriminazione, impedendo a molte persone di ampliare i propri orizzonti culturali. Il risultato è che c’è un grande timore ad ascoltare ciò che è diverso dal mainstream perché è ignoto, e l’ignoto spaventa».

Come ti sei avvicinato alla musica?
«Nell’infanzia e in gioventù sono sempre stato immerso nella musica. Ai tempi, la radio trasmetteva molta più musica classica di oggi. Ho ascoltato anche arrangiamenti di orchestre che mimavano il jazz. Poi… mi sono innamorato del sassofono. Ho vissuto cinque anni ascoltando solo Lee Konitz. Mi piaceva anche Charlie Parker, ma Konitz aveva un linguaggio e un suono proprio, una sua identità. Geni, erano dei geni, gente che inventava cose che non esistevano».

Quindi, tornando alle “lingue straniere”, questo analfabetismo di ritorno è dovuto a una “settorialità” commerciale dei mezzi di comunicazione?
«Se trasmetti un concerto di Keith Jarret o il bellissimo docufilm su Michel Petrucciani (Body&Soul, 2011, ndr) alle 2:30 del mattino, di fatto impedisci di approfondire e imparare. Il Jazz non viene fatto conoscere. Era così anche negli anni Novanta nei Conservatori, quando insegnavo composizione jazz… Avevano aperto opportunisticamente le porte al jazz, ma, in realtà, questo veniva ostacolato. Poi c’erano anche invidie accademiche: io avevo 12 allievi e facevo lezioni singole di un’ora, altri docenti avevano un solo alunno… Oggi abbiamo Stefano Bollani che, nei suoi programmi televisivi, tenta di proporre il jazz come può. Per il resto, silenzio assoluto».

Ultima domanda: ti ha mai attratto la bossanova?
«La musica brasiliana mi piace tantissimo, mi commuovo ogni volta che ascolto quel capolavoro di Tom Jobim che è Retrato em Branco e Preto. È devastante la bellezza di quella musica che Stan Getz ha poi diffuso negli Stati Uniti. È un genere con grandi testi, un ritmo intelligente, una bella armonia. Jobim e Gilberto sono stati musicisti incredibili. E Ivan Lins è… straordinario!».

Interviste: Paolo Fresu, la musica? Non ha etichette

Paolo Fresu – Foto Tommaso Le Pera

Se c’è un artista che, nonostante tutte le difficoltà dettate da due anni di pandemia, ha sempre guardato alla musica come un rimedio salvifico per l’anima e per il cuore, questo è Paolo Fresu. In quel terribile 2020 è stato uno dei pochi a continuare a proporre il suono della sua tromba, squillante o sussurrato, allegro o malinconico.

Artista prolifico, mai banale, creativo, pignolo, anche nella scelta delle copertine degli album pubblicati dalla sua Tǔk Music, label che ha fondato nel 2010 e che l’anno scorso a festeggiato i suoi primi dieci anni, con cui continua a promuovere giovani musicisti talentuosi o affermati jazzisti internazionali.

È uno che cento ne pensa e cento ne fa, tuffandosi nei continui progetti come se fosse Indiana Jones alla ricerca del suono perduto. Fresu ama la musica e fare musica. Non importa etichettarla, in fin dei conti per lui non è così essenziale. La musica ha tante facce, tante strade, tanti linguaggi, tutti hanno uno scopo e un valore.

Guardando al suo percorso artistico al numero di dischi che ha pubblicato, alle “enne” collaborazioni con jazzisti di tutto il mondo, si vede un musicista onnivoro, uno che non ha mai avuto paura di cambiare, che guarda sempre oltre, in preda a una curiosità infinita. Da Ostinato, il suo primo disco del 1985 con il Paolo Fresu Quintet, in attività dal 1984 (a proposito i cinque, oltre a Fesu Tino Tracanna al sax, Roberto Cipelli al pianoforte, Attilio Zanchi al contrabbasso ed Ettore Fioravanti alla batteria si esibiranno il 20 dicembre prossimo al Blue Note di Milano), passando per Inner Voices (1986) con il flautista Dave Liebman e sempre il Paolo Fresu Quintet, allo sperimentale e bellissimo Anaglifo (1997) con Nello Toscano e Rosanna Bentivoglio, A Mare Nostrum (2007), lavoro altrettanto interessante con Jan lundgren e Richard Galliano, ad Alma (2012) dove dialoga con un grande Jaques Morelenbaum e il cubano Omar Sosa, fino agli ultimi lavori, come la rivisitazione in chiave jazz della Norma di Vincenzo Bellini (2019) con l’Orchestra Jazz del Mediterraneo e Paolo Silvestri, In Origine: The Field of Repetance (2020) con SaffronKeira, un mito della musica elettronica, al secolo Eugenio Caria, sardo pure lui, al disco celebrativo dei suoi 60 anni, è tutto un cambiare, modificare, capire, reinterpretare.

L’ho incontrato a Milano a teatro dopo il suo Tango Macondo. Gli ho chiesto se aveva voglia di fare quattro chiacchiere con me per Musicabile. Ha acconsentito e dopo alcuni giorni ho ricevuto un appuntamento telefonico, da Monfalcone, dove si trovava per la tournée, spettacolo che, per inciso, ha appena aggiunto due date a Foggia, il 26 e 27 novembre, al Teatro Giordano. Il 4 dicembre sarà a Rovereto (Teatro Zandonai) per terminare a Roma dal 7 al 12 dicembre (Teatro Quirino).

Paolo, partiamo subito con Tango Macondo, oltre allo spettacolo, anche un disco, dove ci sono tre perle, Alguien Le Dice Al Tango, cantato da Malika Ayane, El Día Que Me Quieras, da Tosca e Volver, da Elisa…
«Tango Macondo è un esperimento, sinceramente non so cosa sia, se jazz o world music o qualcosa d’altro, non mi interessa. Con Malika, Tosca ed Elisa, artiste che provengono da mondi musicali diversi abbiamo dimostrato che ci sono tanti modi per unire la musica»

In fin dei conti, Tango Macondo è un viaggio nella fantasia e nella creatività…
«Anche se il libro da cui è stato ricavato  è quello di Salvatore Niffoi, peraltro grande appassionato di musica, l’idea di un collegamento tra la Sardegna e l’America Latina mi era venuto leggendo un libro di Giovanni Maria Bellu, L’uomo che voleva chiamarsi Perón, dove si narrava che a Mamoiada vivesse un ragazzo di nome Giovanni Piras, partito per l’Argentina e che lì fosse diventato Juan Domingo Perón. Storia bellissima che provocò per un periodo la leggenda metropolitana di un sardo diventato il padrone politico del paese sudamericano. Alcuni finirono per credere davvero che Perón provenisse da Mamoiada. Ricordo che lessi il libro in un viaggio dalla Sardegna a Buenos Aires. Però il romanzo non aveva quel tipo di racconto tale da trasformarlo nella pièce teatrale che avevo in mente».

Con te sul palco ci sono Daniele Di Bonaventura, bandeonista, altro musicista che ascolto sempre con piacere, e Pierpaolo Vacca, un prodigio nell’organetto…
«Daniele è un grande bandeonista, ma non suona il tango. Il bandoneon è uno strumento che può fare di tutto: nasce in Germania, nelle chiese dove non potevano permettersi l’acquisto di un organo, come strumento sostitutivo. In Argentina con il bandoneon s’è suonato il tango. Pierpaolo è un grande esperto di musica tradizionale sarda: potrebbe suonare per ore senza mai fermarsi….».

Il rapporto tra l’Italia e l’America Latina è stretto…
«C’è un filo diretto tra il Sud Italia e il Sud America, un filo che unisce la musica brasiliana, il tango argentino e la musica italiana. La versione di Tosca di El día Que Me Queiras potrebbe essere benissimo una canzone napoletana di fine Ottocento! Non a caso anche Caetano Veloso è molto attratto dall’Italia e dalla sua cultura. Sono due mondi che si toccano di continuo, anche nell’idea melodica della musica. La migrazione è sempre a doppio senso, è normale che ciò avvenga».

Andiamo in Sardegna: sbaglio o l’isola ha molti bravi musicisti, una media altissima?
«È vero, la Sardegna ha una predisposizione per la musica, ma anche per il jazz! È un’isola musicale. Ha una storia ricca: tutti sono passati di qua per portarci via qualcosa, anche in tempi molto recenti, ma hanno pure lasciato qualche cosa. I sardi hanno imparato: abbiamo le launeddas (strumento a fiato tradizionale ad ancia semplice costituito da tre canne, ndr), il canto  a cuncordu (simile a quello a tenore, tradizionale soprattutto nelle rappresentazioni della Settimana Santa, ndr), la musica monodica, la poesia orale dei poeti improvvisatori. Questa tradizione è stata reinventata dagli anni Ottanta in poi, e qui si arriva al jazz e ai numerosi appuntamenti sull’isola, dal festival di Cagliari (Festival Internazionale Jazz in Sardegna, ndr) al Calagonone Jazz Festival al Time in Jazz di Berchidda (creato dallo stesso Fresu nel 1988, ndr). Il jazz è musica di origine popolare e non a caso ha attecchito in Sardegna, dove ci sono musicisti, poeti, scrittori… Adesso questa musica e queste forme di poesia si muovono in direzioni nuove come Nanni Gaias, Salmo, i Menhir o Pierpaolo Vacca».

Paolo fresu – Foto Michele Stallo

Time in Jazz esiste da 34 anni, è un appuntamento irrinunciabile per chi ama jazz e contaminazioni…
«È un festival creato sostanzialmente per promuovere nuovi talenti. Attorno all’idea forte del festival continuano a nascere iniziative, tutte volte a diffondere la cultura musicale. L’ultima è Sa banda sa musica sa festa (qui su Facebook, ndr), progetto partito ai primi di ottobre che culminerà a dicembre. La banda di Berchidda ha incontrato la Funky Jazz Orchestra. Con l’aiuto di Corrado Guarino che segue la banda ogni 15 giorni, e di Dario Cecchini stanno preparando un grande concerto per il 28 dicembre a Sassari».

Berchidda è diventata, grazie a te, un centro culturale dove si fa musica e non solo.
«Senza la banda di Berchidda io non sarei qui. Ho iniziato a suonare la tromba da bambino nella banda. È lì che mi sono appassionato alla musica e sono diventato un musicista».

Time in Jazz e tutta l’attività che svolgi per il jazz e la cultura sono, dunque, il ringraziamento al tuo paese e alla tua terra…
«Pur vivendo a Bologna da anni, ho un grosso legame con Berchidda. Sul terreno dove mio padre allevava le bestie e coltivava la terra ho costruito il mio buen retiro. Mio padre era un pastore, della mia infanzia ricordo le pecore e la vigna. Il podere si chiama Tucconi. La mia etichetta discografica l’ho battezzata Tǔk, il toponimo di questo luogo rivisitato. Tutto torna, sempre: la banda, la casa discografica, il festival, la ricerca di nuovi talenti… Quest’anno il tema del festival non era Dante ma le stelle, care al poeta. Pietro Casu, poeta berchiddese, tradusse la Divina Commedia in sardo, molti passi li declamavano a memoria i pastori. Erano tradizioni orali. I poeti ottocenteschi, parole per la musica, vedi i Tenores di Bitti, il sottoscritto, Nanni Gaias, tutto si deve tenere…».

A proposito di Gaias: a gennaio l’ho presentato su Musicabile come uno dei giovani più promettenti, in occasione dell’uscita per la Tǔk Music del suo Ep T.O.T.B., Think Outside The Box assieme a un altro giovane chitarrista, Giuseppe Spanu…
«Nanni è di Berchidda ed è un bravo e promettente artista, anche lui si è formato nella banda del paese. Vedi, con lui tutto torna, è il motivo per cui in questi anni ho lavorato per la musica e per formare nuovi artisti. La Tǔk Music è stata creata perché tanti giovani musicisti mi inviavano i loro master da ascoltare o chiedevano consigli su come muoversi. Così mi son detto: “Perché non creare una label dedicata soprattutto a loro?”».

PAolo Fresu – Foto @seda

La Tǔk conta circa 170 artisti, un bel numero per una casa discografica…
«Siamo una grande famiglia, sono tutti artisti che hanno un pensiero simile al mio, oltre a essere bravi musicisti. Credo che un artista non sia solo lo strumento che suona ma il pensiero che ha dietro».

Di giovani musicisti portati al talento ce ne sono tanti in Italia, ma difficilmente emergono…
«Ce ne sono anche di importantissimi che non hanno la fama che meriterebbero. Forse siamo in tanti per un palco come l’Italia. In questo mondo complesso non c’è spazio, ma a volte manca quel coraggio per programmare altro. Se si investe bene i risultati si vedono, vedi il nostro Festival di Berchidda. La gente viene a vederci a prescindere dall’artista famoso, perché ci siamo conquistati la credibilità di proporre sempre musica interessante. Viene perché di noi si fida ed è curiosa di scoprire nuovi talenti. E poi il festival non è solo musica ma anche cinema, scoperta del territorio, letteratura. Alla Tǔk pubblichiamo i dischi che ci piacciono per una direzione comune, che, giuro, non so quale sia. Ritorno sulla tua osservazione: in Italia c’è poco coraggio nel fare scelte diverse dalle solite, finendo così per avere più o meno gli stessi artisti che girano, me incluso».

Dove sta andando al musica?
«Sono positivo. La musica si muove, punto. Ci sono cose molto belle in giro. Ciò che è importante è che la musica ci sia, avere una certa curiosità per gli altri linguaggi. Coloro che sostengono che il jazz sia morto con Coltrane sono morti dentro. Il jazz per sua definizione è apertura. Il nostro compito, quello che dovremmo fare ora, è cercare di aiutare il jazz e gli altri mercati musicali. Mi sforzo di aprire un po’ la mente. Ognuno di noi artisti deve farsi strada nel mercato musicale usando anche nuove tecniche e linguaggi. Lo spettacolo teatrale Tempo di Chet, a teatri chiusi per il Covid, ha avuto sul digitale una risposta incredibile, quasi 12 milioni di visualizzazioni. Occorre dare risposte creative e concrete rispetto al mercato. Bisognerebbe che anche la politica se ne rendesse conto, ad esempio per aiutare i jazz club».

Cosa ti spinge nel tuo lavoro, di musicista e discografico?
«Una grande creatività. Attingo da tutto, mi piace ascoltare tutto, rispondo sempre a tutti. Quando un giovane ti manda un master devi rispondere, perché le persone attendono sempre una tua risposta. Sono stato educato così. Poi, vicino a me ho persone come Luca Devito, grandissimo appassionato di musica, che mi propone di tutto. A tal proposito, mi appassiona moltissimo, per esempio, Venerus. Poi ho mio figlio che, da adolescente, mi fa scoprire cose straordinarie. La mia non è bulimia, ma attenzione. Mi piace provare, sperimentare anche se poi, come in cucina, non tutte le ciambelle escono col buco! Nonostante i miei 60 anni l’idea dell’ascolto la reputo fondamentale, altrimenti si finisce col paraocchi. Come a tavola, se non assaggi un cibo non sai se sia cattivo o buono, così nella musica, se mi arriva un disco lo ascolto, se non mi va non mi faccio del male e lo lascio perdere, se mi colpisce, beh, allora, l’ascolto ne è valso davvero la pena!».