Rumatera: “Made in Veneto”, punk rock… in dialetto

I Rumatera – foto Davide Carrer

Quando ho ascoltato il disco l’effetto è stato spiazzante. Non capivo se i quattro forsennati che, con chitarre, basso, batteria e voci pompavano un classico punk californiano brillante e un po’ cazzone, mi stessero prendendo in giro o insistessero molto, ma veramente tanto, a voler essere liquidati come un banale prodotto goliardico da serate alcoliche e rutto libero.

Mi sbagliavo! Made in Veneto, settimo lavoro della band formatasi nel 2007 nella provincia veneziana, è esattamente l’opposto. Tanta ironia, passione, goliardia, per sfatare il mito di un Veneto ricco – l’operoso Nordest! – chiuso, poco accogliente, credulone. Le chitarra distorte che disegnano incrollabili riff, la batteria che carica a cento all’ora raccontano altro: la voglia dissacrante di cancellare i luoghi comuni per offrire una narrazione diversa. In queste brillanti demolizioni c’è posto anche per Fossimo nati a Napolibrano dedicato al capoluogo campano e alla sua grande cultura musicale, visto ovviamente, con gli occhi dei Rumatera – a proposito, il nome della band è quello, in dialetto, del carassio, pesce d’acqua dolce, immangiabile, che fruga nel fango in perenne ricerca di cibo… 

La parte musicale è ben costruita, un punk rock anni Novanta, alla Blink-182, Rancid, Green Day, per capirci. Sentire punk della costa Ovest degli States applicato al dialetto veneto fa ancora più effetto, ne amplifica quell’anima sarcastica e demolitrice che il genere si porta dietro. 

I testi sono espliciti, senza filtri, come d’altronde gli argomenti trattati: Daniele Russo (Bullo), Giorgio Gozzo (Gosso), Luca Perin (Sciukka) e Giovanni Gatto (Rocky Giò) quasi fossero degli esperti etologi, scavano, o meglio, “i ruma”, nella loro esegetica “venetitudine” per dar vita a personaggi che poi esistono davvero: quello che, in piena crisi di mezza età, si fa incidere tatuaggi che costano mezo million (il veneto conta ancora in lire), per poi pentirsi (Tatuajo), quell’altro che soffre di perenne priapismo fisico e mentale (Cuco Duro), i commenti nella piazza del paese al passaggio di una bella ragazza (Cueatte). Insomma, ritratti, macchiette che non è difficile incontrare al bar davanti a uno spriss. Oltre le fulminanti bordate ci sono le riflessioni: sull’amicizia Semo ancora qua, sull’amore e la nostalgia, Camponogara e il brano d’apertura, che porta il titolo dell’album, Made in Veneto, una sorta di prefazione a quello che si ascolterà… Made in Veneto/ che par sempre sarà casa mia/ anca quando so distante/ Nisun capisse niente/ E pena verzo boca i sente che mi so da qua…

Ho chiamato Daniele Russo, il Bullo, frontman della band, per una chiacchierata sul disco e la band. Assieme a Giovanni Gatto ha suonato nei Catarrhal Noise, per dirla in dialetto veneto, grupo heavy metal demensiale del Vèneto nasesto a Noałe, in provincia de Venessia, intel setenbre 1994. Ultima annotazione: è un appassionato della musica di Davide Van De Sfroos.

I Rumatera son tornati riaffermando la loro provenienza: come il Prosecco, non siete solo Doc, ma addirittura Docg!
«Made in Veneto è un punk hardcore melodico scritto da Giorgio Gozzo, Gosso (il bassista della band). È il nostro modo di dire cosa significhi il Veneto per noi. Spesso siamo visti come gente che pensa solo ai soldi, all’azienda di famiglia, non parliamo in dialetto per non farci capire ma perché siamo così, attaccati ai luoghi dove siamo nati e cresciuti…».

Passo subito a Fossimo nati a Napoli: cosa significa?
«Sembra una presa in giro, ma non lo è. Anzi, è l’esatto contrario. Siamo partiti da questo pensiero comune: se fossimo nati in America, ora saremmo dei musicisti milionari? E se fossimo nati a Napoli, sarebbe stato lo stesso? In quella città si sente che c’è qualcosa di diverso. Se fossimo nati a Napoli… probabilmente avremmo avuto più successo. Perché la canzone napoletana è affermata nel mondo, è riconosciuta e riconoscibile, un marchio. Noi veneti ci dobbiamo accontentare. E poi, per inciso, di cognome faccio Russo, mio nonno era campano!».

Chi canta con accento napoletano?
«Enzo Savastano, ha voluto cimentarsi in una parodia del cantante neomelodico napoletano…».

Vivete di musica?
«Giorgio e io lavoriamo nel settore; ho una casa di edizioni musicali, Giovanni si occupa di informatica, Luca è un videomaker».

Curiosità: chi sono i tosi de campagna?
«Era il titolo di un format che ci eravamo inventati su una televisione locale (noi pagavamo gli spazi) nello stesso studio allestito per registrare una trasmissione di liscio, tutto tende e paillettes… I tosi de campagna è il nostro modo di essere, di vivere. Un modo semplice, come cantiamo in Made in Veneto, dove ti ritrovi con gli amici, senti che c’è un forte legame fra te e il luogo in cui sei nato e cresciuto».

Amicizia, semplicità, divertimento sano, non essere schiavi di mode e social. Siete di un’altra epoca…
«Abbiamo l’impressione che ci sia una parte della cultura veneta che non sia rappresentata. Prevale l’idea del Veneto legato alla politica, agli affari, all’economia e poco, a una visione più… artistica, la parola giusta è più… napoletana. Eppure la nostra è una regione bellissima a livello estetico, di paesaggio. Offre tante opportunità, non solo economiche, di socializzazione. La gente del Veneto è molto inclusiva…».

L’idea, invece, è quella di una regione poco ospitale, che non vuole immigrazione straniera… insomma capisaldi di certi partiti politici che hanno fatto fortuna da queste parti…
«Sì brontolano contro gli immigrati ma poi ci vanno d’accordo, diventano amici, si ritrovano al bar».

Quindi, tornando al concetto di tosi de campagna
«Noi lo sentiamo davvero. Abbiamo avuto la fortuna di nascere e crescere in paesini di campagna. Certo anche qui è arrivato un certo “poserismo”, chiamiamolo globalizzazione per comodità di linguaggio, ovvero l’assunzione di modelli culturali che non ci appartenevano. Ciò ha portato a far sentire i giovani inadeguati nel loro modo di vivere, a vedere come giusti quei modelli e, di conseguenza, a sentirsi… sbagliati. I tosi de campagna, invece, sono quelli “resistenti”; quando vedono un “poserista” gli dicono: Ma dove votu ‘ndar? (tradotto: ma dove vai così conciato?)».

La band in concerto – Foto Davide Carrer

E il vostro modo di fare musica…
«Abbiamo attinto da certa musica americana, l’abbiamo reinterpretata parlando delle nostre storie. Anche in questo ci riconosciamo come tosi de campagna. Raccontare le nostre differenze è una sorta di resistenza artistica, che poi è quello che fanno a Napoli. Su questo sono inarrivabili».

Tornando ai modelli, cosa pensi della musica prevalente, penso alla trap, al rap italiano degli ultimi anni…
«Trap e rap sono tendenze diffuse, dobbiamo farne i conti. Possiamo discutere se siano un’evoluzione o un’involuzione, una cosa è sicura: sono il segno dei tempi. Ci sono più artisti singoli che band tradizionalmente intese. Però questi ragazzi si organizzano ugualmente in gruppo, uno canta, l’altro prepara le basi, l’altro fa le foto, un altro ancora i video. Sono una crew, una compagnia, appunto. Questo lavoro di gruppo per me è l’aspetto positivo, il riuscire a relazionarsi con altra gente».

Siete degli animali da palco, i vostri concerti sono esperienze di coinvolgimento, avete un seguito fedele come le band degli anni Settanta…
«Suonare con gli strumenti sul palco per noi è come chiacchierare tra amici, è una magia, una cosa fisica, corpi che si muovono a ritmo, intesa che riusciamo a trasmettere a chi ci ascolta. Abbiamo fan in tutto il Triveneto, ma anche in Lombardia e in Piemonte».

Avete citato anche un must della disco Simbaweda di Lady Brian…
«Brian è un vocalist di culto transgenerazionale. Assieme a Igor S. è stato per anni dj resident a Jesolo e in altre grosse discoteche del Veneto ma non solo. Pensa, da giovane, metallaro fino all’osso che odiava le discoteche, sono finito a suonare con lui, siamo diventati amici, suoniamo insieme».

I Rumatera sono andati a finire persino a Los Angeles…
«È stato nel 2015, quando Rocky Giò ha deciso di uscire dalla band. Rimasti senza un chitarrista abbiamo pensato a come trovarne uno, ma a modo nostro…».

Capovolgendo l’ovvietà!
«Sì, Abbiamo deciso di andare a Los Angeles, creare un talent e cercare un chitarrista americano che avesse le qualità per suonare con noi. Siamo rimasti in California tre mesi».

Quali erano i requisiti richiesti, se non sono indiscreto?
«Prove di “italianità” basate su stereotipi: saper fare la pasta, sedurre una persona di sesso opposto, una prova in lingua italiana orale e scritta e preparare uno spritz come si deve. L’abbiamo messo a punto con un titolo, The Italian Dream, abbiamo trovato un regista, il mitico Jako, Andrea Giacomini, il nostro manager s’è attivato dall’Italia e ha contattato la Campari e così abbiamo ottenuto lo sponsor. È stato davvero divertente»…

Ma il concorso ha avuto un vincitore?
«Certo! Una davvero tosta, Jen Razavi, musicista di origini iraniane, chitarrista delle The Bombpops, band californiana di punk rock. È stata con noi in tour dalle nostre parti per cinque mesi. Una gran bella esperienza, siamo diventati molto amici. A Los Angeles ci siamo tornati un altro paio di volte, poi la pandemia ha chiuso tutto».

Dario Sansone: Napoli, i Foja, i miracoli e le tante rivoluzioni

Esce oggi per l’etichetta indipendente Full Heads Miracoli e Rivoluzioni, ultimo lavoro dei Foja. La band rock folk partenopea capitanata da Dario Sansone ha all’attivo tre album e una peculiarietà: canta in napoletano. Il 1 aprile, su al Nord, nel profondo Veneto da cui provengo, un’altra rockband, anch’essa da anni in azione, i Rumatera, ha pubblicato Made in Veneto, album ironico e istrionico con la medesima caratteristica: cantato rigorosamente in veneto.

Entrambi i lavori sono pieni di energia, ricchi di contenuti, affascinanti. Dei Rumatera parlerò venerdì prossimo, ora è il tempo dei Foja e del loro album che, a partire dal titolo, Miracoli e Rivoluzioni, racchiude tutta la napoletanità più autentica. 

Nel capoluogo campano ci sono molte realtà musicali interessanti, il binomio Napoli-Musica è vivo e profondo, oserei, “tradizionale”. Non sto pensando ai grandi interpreti della musica napoletana, ma a un rinnovato parterre di artisti che ha attinto da questa lunga storia, innovando. D’altronde, ai tempi, anche Renato Carosone, ora nell’Olimpo della napoletanità in musica, è stato un artista “contaminante”. Per non parlare di Pino Daniele! Nuove strade musicali, stesso spirito. Su Musicabile nei mesi scorsi vi avevo presentato Fede ’n’ Marlen, due brave e interessanti artiste con il loro Terre di Madonne, e i Little Pony, band capitanata da un eclettico americano di Minneapolis, musicista e pittore, che ha trovato la sua ragione d’espressività in Italia e in Napoli, usciti recentemente con il disco Vodoo We Do.

Miracoli e Rivoluzioni è un lavoro che si pone a pieno titolo su questa scia: usare paradigmi sonori differenti senza intaccare quella musicalità che ha fatto grande Napoli. Un disco dove i Foja si fanno molte domande sulla vita, il concetto di libertà, l’immigrazione, le guerre, l’amore. Alcuni esempi? Il valore di comunità che è stato travisato sui social (A cosa stai pensando?: Ma tu magni ‘o si magnato? Sí ‘nu giudice ‘o sí giudicato? Sí ‘o veleno o sí l’avvelenato? Manna ‘nu signale o sí signalato…); la fiducia nell’umanità, nonostante tutto (Nunn’è ancora fernuta: A furia ‘e rirere d’e guaje d’a gente/ c’allantunamme sempe/ e tu nun daje ‘na mano a chi vene ‘a luntano/ ‘sta guerra è pure ‘a toja/ ‘a terra è comme ‘a musica nunn’è ‘e nisciuno/ ma tu te futte ‘e paura/ e nun truove ‘na ragione/ ca te fa sta’ buono…). C’è posto per ballate struggenti come Santa Lucia e per un brano famoso, composto dall’argentino Alejandro Romero, che lega inesorabilmente Buenos Aires a Napoli, dedicato al famoso goal di mano che Maradona infilò all’Inghilterra ai Mondiali in Messico, e che i Foja hanno tradotto, con la partecipazione dello stesso Romero, in A mano ’e D10S

Un album a cuore aperto, dunque, che vede, proprio per questo, belle collaborazioni: Davide Toffolo dei Tre Allegri Ragazzi Morti, Clementino, Enzo Gragnaniello, il pianista Lorenzo Hengeller, il già citato Alejandro Romero. 

Se dovessi sintetizzare Miracoli e Rivoluzioni in una sola parola, userei Appocundria. Che poi è un pezzo splendido di Pino Daniele da Nero a Metà (1980), dove il mitico artista ne spiegava il significato: “Appocundria me scuppij ogni minuto ‘mpietto/Pecché passanno forte e sconcecato ‘o lietto/ Appocundria ‘e chi è sazio e dice ca è diuno/ Appocundria ‘e nisciuno”. 

Appocundria è come la luso/brasiliana Saudade (ne avevo parlato due anni fa in pieno lockdown). Termine che racchiude tristezza, speranza, nostalgia, desiderio struggente. Che poi è stato – e continua a essere – inevitabilmente tradotto in musica. Tra Napoli e Salvador da Bahia, credetemi, c’è un legame fortissimo. Entrambe le città sono musicalmente magiche e portate naturalmente alla musica. È l’Appocundria/Saudade che le rende gemelle nella creatività e nella poetica. 

Ne ho parlato con Dario Sansone, frontman dei Foja. È l’autore dei testi (eccetto L’Urdema Canzone, di Alessio Lollo), cantautore nell’animo, divide ed esprime la sua creatività tra musica e disegno, i suoi sogni di bambino…

Miracoli e Rivoluzioni, bel titolo…
«Sono le due anime dell’album che rispecchiano l’essere di Napoli, città di grandi fedi e altrettante rivoluzioni sociali. Il disco si interroga sull’amore, inteso come miracolo, perché indipendente dalla nostra volontà, e su tutti quegli atti legati all’introspezione umana e sociale dovuti alle nostre decisioni».

Quando avete iniziato a scriverlo?
«Prima della pandemia e rivisto praticamente… fino a oggi! È stato come attraversare un mare profondo con tutto quello che è successo».

Nel disco c’è, molto forte, il concetto di comunità, convivenza, pace, rispetto…
«Sono canzoni che non danno risposte, piuttosto si pongono tante domande. Che hanno a che fare con l’umanità, una riflessione su dove stiamo andando, su cosa sta succedendo, partita prima del Covid e della guerra in Ucraina. Ci troviamo su una strada molto complicata. Oggi è necessario parlare molto più di pace che di guerra. Siamo in mezzo a una lotta che non vede la fine: no vax, sì vax, no Russia sì Ucraina. Dobbiamo imparare a osservare e stare calmi, perché l’odio va più veloce dell’amore».

A proposito di convivenza e contaminazioni: ci sono belle “featuring” nell’album…
«Sì, e ne siamo contenti. C’è un intervento prezioso di Michele Signore, della Nuova Compagnia di Canto Popolare, con la sua Lira Pontiaca in Nunn’è ancora fernuta; il pianoforte di Lorenzo Hengeller in Stella, la partecipazione di Davide Toffolo in A cosa stai pensando, quella di Clementino che ha voluto rappare su Santa Lucia, il grande Enzo Gragnaniello in ‘Nmiezzo a niente, una canzone “denudata”, quasi brasiliana. Sono orgoglioso: lui è Napoli fino all’osso e ha cantato le parole scritte da me!».

E poi c’è anche Alejandro Romero…
«Quando gli abbiamo chiesto l’autorizzazione di cantare il suo brano, non solo ha acconsentito, ha voluto esserci anche lui…».

Dario, sei sempre stato a contatto con la musica…
«Mio nonno ha sempre cantato, mio papà suona la chitarra in una cover band di Santana, musicisti operai… Ieri eravamo insieme dal liutaio, lui con la sua Stratocaster, io con la mia Martin. Ci confrontiamo musicalmente, non pensavo di arrivare, un giorno, a fare tutto ciò. A casa non pensavano che questa mia passione diventasse realtà. Mio padre m’ha trovato a fare concerti in piazza San Carlo completamente piena di gente… In famiglia siamo molto sereni, mia madre è la più severa, è lei che giudica le mie canzoni, èfatta così, rigida anche con se stessa».

E il disegno, l’arte visuale?
«È l’altra mia grande passione assieme alla musica. Sono fortunato perché di entrambe ne ho fatto un lavoro».

A Napoli come vi vedono?
«Più che altro non ci vedono proprio e da un bel po’ di tempo! C’è ancora una confusione burocratica che non permette di sbloccare i concerti. Siamo una band di palco, per questo molto seguita, perché i nostri concerti sono comunione, festa, contatto».

Quando avete iniziato come eravate considerati?
«Come degli alieni! Fare rock-folk cantato in napoletano non è stato capito subito. Per noi era naturale e sincero esprimerci nella nostra lingua. Ora s’è capito che non era ardito ma coerente. D’altronde, Renato Carosone è stato il primo a miscelare musica americana e napoletanità. Penso anche al grande Pino Daniele, a James Senese, sono stati il modo di comunicare di una generazione».

Napoli è particolarmente attiva in ambito musicale…
«È una città artisticamente vivissima. Credo che si leghi alla precarietà in cui siamo abituati a vivere da sempre. La nostra creatività, nella musica, nell’arte, nella cucina è conseguenza di questo nostro vivere. E sai qual è la ragione? ‘O Vesuvio! Il simbolo fisico di Napoli. Può esplodere da un momento all’altro, può distruggerci. Questo vivere sempre sul filo, questa schizofrenia fatta anche di miracoli e rivoluzioni dipende dal vulcano, credimi!».

A proposito, la cover è molto bella!
«È un disegno di Alessandro Rak, disegnatore e regista. Collaboriamo insieme da anni, siamo molto amici. Nel film d’animazione di Alessandro, Yaya e Lennie – The Walking Liberty, che uscirà il prossimo novembre nelle sale, ho scritto la colonna sonora, c’è anche un brano che abbiamo inserito in Miracoli e Rivoluzioni, Pe’ te sta’ cchiu’ vicino, che nel film è cantato da Ilaria Graziano».