Dario Sansone: Napoli, i Foja, i miracoli e le tante rivoluzioni

Esce oggi per l’etichetta indipendente Full Heads Miracoli e Rivoluzioni, ultimo lavoro dei Foja. La band rock folk partenopea capitanata da Dario Sansone ha all’attivo tre album e una peculiarietà: canta in napoletano. Il 1 aprile, su al Nord, nel profondo Veneto da cui provengo, un’altra rockband, anch’essa da anni in azione, i Rumatera, ha pubblicato Made in Veneto, album ironico e istrionico con la medesima caratteristica: cantato rigorosamente in veneto.

Entrambi i lavori sono pieni di energia, ricchi di contenuti, affascinanti. Dei Rumatera parlerò venerdì prossimo, ora è il tempo dei Foja e del loro album che, a partire dal titolo, Miracoli e Rivoluzioni, racchiude tutta la napoletanità più autentica. 

Nel capoluogo campano ci sono molte realtà musicali interessanti, il binomio Napoli-Musica è vivo e profondo, oserei, “tradizionale”. Non sto pensando ai grandi interpreti della musica napoletana, ma a un rinnovato parterre di artisti che ha attinto da questa lunga storia, innovando. D’altronde, ai tempi, anche Renato Carosone, ora nell’Olimpo della napoletanità in musica, è stato un artista “contaminante”. Per non parlare di Pino Daniele! Nuove strade musicali, stesso spirito. Su Musicabile nei mesi scorsi vi avevo presentato Fede ’n’ Marlen, due brave e interessanti artiste con il loro Terre di Madonne, e i Little Pony, band capitanata da un eclettico americano di Minneapolis, musicista e pittore, che ha trovato la sua ragione d’espressività in Italia e in Napoli, usciti recentemente con il disco Vodoo We Do.

Miracoli e Rivoluzioni è un lavoro che si pone a pieno titolo su questa scia: usare paradigmi sonori differenti senza intaccare quella musicalità che ha fatto grande Napoli. Un disco dove i Foja si fanno molte domande sulla vita, il concetto di libertà, l’immigrazione, le guerre, l’amore. Alcuni esempi? Il valore di comunità che è stato travisato sui social (A cosa stai pensando?: Ma tu magni ‘o si magnato? Sí ‘nu giudice ‘o sí giudicato? Sí ‘o veleno o sí l’avvelenato? Manna ‘nu signale o sí signalato…); la fiducia nell’umanità, nonostante tutto (Nunn’è ancora fernuta: A furia ‘e rirere d’e guaje d’a gente/ c’allantunamme sempe/ e tu nun daje ‘na mano a chi vene ‘a luntano/ ‘sta guerra è pure ‘a toja/ ‘a terra è comme ‘a musica nunn’è ‘e nisciuno/ ma tu te futte ‘e paura/ e nun truove ‘na ragione/ ca te fa sta’ buono…). C’è posto per ballate struggenti come Santa Lucia e per un brano famoso, composto dall’argentino Alejandro Romero, che lega inesorabilmente Buenos Aires a Napoli, dedicato al famoso goal di mano che Maradona infilò all’Inghilterra ai Mondiali in Messico, e che i Foja hanno tradotto, con la partecipazione dello stesso Romero, in A mano ’e D10S

Un album a cuore aperto, dunque, che vede, proprio per questo, belle collaborazioni: Davide Toffolo dei Tre Allegri Ragazzi Morti, Clementino, Enzo Gragnaniello, il pianista Lorenzo Hengeller, il già citato Alejandro Romero. 

Se dovessi sintetizzare Miracoli e Rivoluzioni in una sola parola, userei Appocundria. Che poi è un pezzo splendido di Pino Daniele da Nero a Metà (1980), dove il mitico artista ne spiegava il significato: “Appocundria me scuppij ogni minuto ‘mpietto/Pecché passanno forte e sconcecato ‘o lietto/ Appocundria ‘e chi è sazio e dice ca è diuno/ Appocundria ‘e nisciuno”. 

Appocundria è come la luso/brasiliana Saudade (ne avevo parlato due anni fa in pieno lockdown). Termine che racchiude tristezza, speranza, nostalgia, desiderio struggente. Che poi è stato – e continua a essere – inevitabilmente tradotto in musica. Tra Napoli e Salvador da Bahia, credetemi, c’è un legame fortissimo. Entrambe le città sono musicalmente magiche e portate naturalmente alla musica. È l’Appocundria/Saudade che le rende gemelle nella creatività e nella poetica. 

Ne ho parlato con Dario Sansone, frontman dei Foja. È l’autore dei testi (eccetto L’Urdema Canzone, di Alessio Lollo), cantautore nell’animo, divide ed esprime la sua creatività tra musica e disegno, i suoi sogni di bambino…

Miracoli e Rivoluzioni, bel titolo…
«Sono le due anime dell’album che rispecchiano l’essere di Napoli, città di grandi fedi e altrettante rivoluzioni sociali. Il disco si interroga sull’amore, inteso come miracolo, perché indipendente dalla nostra volontà, e su tutti quegli atti legati all’introspezione umana e sociale dovuti alle nostre decisioni».

Quando avete iniziato a scriverlo?
«Prima della pandemia e rivisto praticamente… fino a oggi! È stato come attraversare un mare profondo con tutto quello che è successo».

Nel disco c’è, molto forte, il concetto di comunità, convivenza, pace, rispetto…
«Sono canzoni che non danno risposte, piuttosto si pongono tante domande. Che hanno a che fare con l’umanità, una riflessione su dove stiamo andando, su cosa sta succedendo, partita prima del Covid e della guerra in Ucraina. Ci troviamo su una strada molto complicata. Oggi è necessario parlare molto più di pace che di guerra. Siamo in mezzo a una lotta che non vede la fine: no vax, sì vax, no Russia sì Ucraina. Dobbiamo imparare a osservare e stare calmi, perché l’odio va più veloce dell’amore».

A proposito di convivenza e contaminazioni: ci sono belle “featuring” nell’album…
«Sì, e ne siamo contenti. C’è un intervento prezioso di Michele Signore, della Nuova Compagnia di Canto Popolare, con la sua Lira Pontiaca in Nunn’è ancora fernuta; il pianoforte di Lorenzo Hengeller in Stella, la partecipazione di Davide Toffolo in A cosa stai pensando, quella di Clementino che ha voluto rappare su Santa Lucia, il grande Enzo Gragnaniello in ‘Nmiezzo a niente, una canzone “denudata”, quasi brasiliana. Sono orgoglioso: lui è Napoli fino all’osso e ha cantato le parole scritte da me!».

E poi c’è anche Alejandro Romero…
«Quando gli abbiamo chiesto l’autorizzazione di cantare il suo brano, non solo ha acconsentito, ha voluto esserci anche lui…».

Dario, sei sempre stato a contatto con la musica…
«Mio nonno ha sempre cantato, mio papà suona la chitarra in una cover band di Santana, musicisti operai… Ieri eravamo insieme dal liutaio, lui con la sua Stratocaster, io con la mia Martin. Ci confrontiamo musicalmente, non pensavo di arrivare, un giorno, a fare tutto ciò. A casa non pensavano che questa mia passione diventasse realtà. Mio padre m’ha trovato a fare concerti in piazza San Carlo completamente piena di gente… In famiglia siamo molto sereni, mia madre è la più severa, è lei che giudica le mie canzoni, èfatta così, rigida anche con se stessa».

E il disegno, l’arte visuale?
«È l’altra mia grande passione assieme alla musica. Sono fortunato perché di entrambe ne ho fatto un lavoro».

A Napoli come vi vedono?
«Più che altro non ci vedono proprio e da un bel po’ di tempo! C’è ancora una confusione burocratica che non permette di sbloccare i concerti. Siamo una band di palco, per questo molto seguita, perché i nostri concerti sono comunione, festa, contatto».

Quando avete iniziato come eravate considerati?
«Come degli alieni! Fare rock-folk cantato in napoletano non è stato capito subito. Per noi era naturale e sincero esprimerci nella nostra lingua. Ora s’è capito che non era ardito ma coerente. D’altronde, Renato Carosone è stato il primo a miscelare musica americana e napoletanità. Penso anche al grande Pino Daniele, a James Senese, sono stati il modo di comunicare di una generazione».

Napoli è particolarmente attiva in ambito musicale…
«È una città artisticamente vivissima. Credo che si leghi alla precarietà in cui siamo abituati a vivere da sempre. La nostra creatività, nella musica, nell’arte, nella cucina è conseguenza di questo nostro vivere. E sai qual è la ragione? ‘O Vesuvio! Il simbolo fisico di Napoli. Può esplodere da un momento all’altro, può distruggerci. Questo vivere sempre sul filo, questa schizofrenia fatta anche di miracoli e rivoluzioni dipende dal vulcano, credimi!».

A proposito, la cover è molto bella!
«È un disegno di Alessandro Rak, disegnatore e regista. Collaboriamo insieme da anni, siamo molto amici. Nel film d’animazione di Alessandro, Yaya e Lennie – The Walking Liberty, che uscirà il prossimo novembre nelle sale, ho scritto la colonna sonora, c’è anche un brano che abbiamo inserito in Miracoli e Rivoluzioni, Pe’ te sta’ cchiu’ vicino, che nel film è cantato da Ilaria Graziano».

Saudade, ecco il rimedio per la quarantena

Saudade. Parola sulla quale si è discusso – e si discute ancora – molto. Solo pochi ne comprendono il significato, in buona sostanza, portoghesi e brasiliani. Aggiungo, per dovere di storia, anche un’altra parola, Banzo, eh sì, una sorta di Saudade ma dei popoli africani che si sono ritrovati schiavi in Brasile e in altri paesi occidentali, prede di mercanti e di tratte. Il banzo lo avvertirono, soffrirono, rielaborarono i neri della diaspora, come sono stati definiti in Brasile. Ma qui ci inoltriamo in ragionamenti psico-sociologici che meriterebbero ben più di un semplice post su un blog.

Torno alla Saudade e sul perché ho deciso di parlarvene oggi. Siamo chiusi nelle nostre case ormai da quasi un mese, o forse più, accidenti ecco il rischio, perdere la cognizione del tempo. Ci si arrabatta, si lavora in smart working, si fanno vari giri pensosi per la casa, cosa mi accadrà dopo, ma quando è il dopo?, nulla tornerà come prima… cosa che potrebbe persino essere eccitante: pensare di ripensare un modo di vivere. Per lo più si pensa a quello che di bello si faceva fuori e che davi per scontato, piccoli atti che facevano parte dell’esistenza di ciascuno di noi. Ecco questa è la… Saudade. Credo che questa parola, intraducibile, sia riduttiva pensarla solo come “nostalgia”, come la intese il creatore di questo neologismo, un giovane medico svizzero, Johannes Hofer, nel 1688 quando pubblicò la propria tesi di laurea sulla depressione dei militari svizzeri lontani da casa perché impegnati in guerra, unendo due parole greche, νόστος (ritorno a casa) e άλγος (dolore, sofferenza). Sì, certo, è anche questo, ma è quel qualcosa d’altro che hai dentro, quella sensazione profonda che fa parte di te, ereditata geneticamente mi spingo a dire, una piccola parte nella catena del DNA… Ed eccoci: sì ho Saudade, una “deslumbrante” (fulgida) Saudade. Di una strada che percorrevo tutti i giorni, di persone che si incontravano, di un respiro a pieni polmoni in piazza Duomo, di uno spritz (col Campari, rigorosamente!) dalla mia amica Silvia alle Biciclette, di un concerto, di una sera a teatro o a un cinema che ti apriva la testa.

Jô Soares, drammaturgo, scrittore, presentatore televisivo e raffinato intellettuale brasiliano, in un post su Facebook di qualche anno fa sulla Saudade scriveva: «Não importa: a saudade arde. Mas serve para nos mostrar como o outro é importante. Serve para mostrar como pequenas coisas fazem falta. A saudade faz a gente prestar mais atenção no outro. E, principalmente, a saudade mostra o que é de verdade», “Non importa: la saudade brucia. Ma serve a ricordarci come l’altro sia importante. È utile a indicarci come si senta la mancanza delle piccole cose. La Saudade ci obbliga a focalizzarci sull’altro. E soprattutto, la Saudade mostra ciò che conta davvero”.

Dunque, questa è la Saudade? Il rimpianto e il desiderio di avere o rivivere, una cosa, come canta con quella sua voce incredibilmente carnosa Maria Bethânia, sorella di Caetano Veloso, nell’album Tua del 2009, brano scritto da Chico César e Paulo Moska. Negli ultimi versi Maria dice:

A casa da saudade é o vazio
O acaso da saudade, fogo frio
Quem foge da saudade
Preso por um fio
Se afoga em outras águas
Mas do mesmo rio

La casa della saudade è il vuoto
La casualità della saudade, un freddo fuoco
Chi scappa dalla saudade
Tenuto per un filo
Si affoga in altre acque
Ma dello stesso fiume…

Nel 2014 persino i Thievery Corporation, al secolo Rob Garza ed Eric Hilton, pionieri di una gran sofisticata musica elettronica di qualità, hanno dedicato alla bossa nova e alla Saudade un intero disco, con collaborazioni di musicisti e cantanti di tutto rispetto, con un brano strumentale, che dà il titolo al disco: solo musica per esprimere uno stato d’animo intenso.

Ci sono anche i Saudade, super band fondata di Chino Moreno dei Deftones con Dr. Know e Mackie Jayson dei Bad Brains, il bassista Chuck Doom e il tastierista jazz John Medeski. Moreno ha reinterpretato il senso della Saudade addirittura incarnandolo nel nome della band. Chino con la musicista californiana Chelsea Wolfe, ha publicato l’anno scorso Shadows & Light, bella sintesi. 

Ho tanti amici brasiliani, persone meravigliose, che, non appena mettono piede a Milano sentono la Saudade della loro città d’origine, del caldo, della spiaggia, della “cervejinha ben gelada” da sorseggiare nei sonnolenti sabati pomeriggio o per ringraziare “Deus” dei tramonti meravigliosi sul mare, e persino dell’odore dell’aria o della “batucada” di qualche ragazzino che fa samba su tamburi di latta. Quando si riappropriano di tutto questo, lei è ancora lì in agguato, questa volta perché mancano le amicizie milanesi, quella serata, i vecchi tram che sferragliano rumorosi…

Insomma, nati per soffrire, sempre e comunque. In realtà, e l’ho appreso dopo anni di contatti con i popoli di origine lusitana, la Saudade serve a sentirsi vivi, desiderare ancora passione, felicità, amore. Ma anche tristezza, essenziale per migliorarsi in una sorta di catarsi necessaria per arrivare alla soddisfazione della propria esistenza. Non ho Saudade di uno spritz ma di quello che lo spritz (rigorosamente col Campari, ripeto!) significa: relazione, amicizia, vita. Ecco perché la Saudade è più che mai necessaria in questi momenti duri. Resistere, resistere, resistere…