Novità: Gullfoss e la magia di Nadje Noordhuis

Da un album politico ed elettronico come quello di Jerusalem In The Heart a uno sognante e “acustico”. Oggi voglio sottoporvi all’ascolto un altro disco che mi è piaciuto molto. Si tratta di Gullfoss, l’ultimo lavoro di Nadje Noordhuis. Australiana, 41 anni, da molti anni a New York, suona la tromba e il flicorno. Quello che riesce a ottenere è un suono pieno, caldo, struggente e anche… estremamente rilassante.

Il disco, uscito in cd venti giorni fa, ma in vinile nel 2019 e solo a tiratura limitata, è la registrazione di un live suonato dalla Noordhuis nel 2018 al Musig im Pflegidach di Muri, in Svizzera, accompagnata dall’arpista Maeve Gilchrist che, per inciso, è stata per un periodo anche sua coinquilina a New York, il chitarrista Jesse Lewis e il bassista Ike Sturm più i tappeti sonori con i sintetizzatori, la batteria e le percussioni di James Shipp, polistrumentista che ha suonato anche con Sting.

Insieme fanno il Nadje Noordhuis Quintet, un gruppo affiatato che riesce a trasmettere sensazioni non scontate, in un lavoro ispirato alla Natura e alle sue molteplici forme d’espressione.

Nadje Noordhuis Quintet – Frame dal concerto al Musig im Pflegidach di Muri, in Svizzera

Nadje ha deciso di essere musicista e trombettista dopo aver ascoltato Doo-Bop, disco di Miles Davis uscito nel 1992, «una fusione di jazz e rap», come ha ricordato lei stessa in un’intervista di qualche tempo fa, che l’ha introdotta al mondo del grande jazzista americano. Ha suonato, quindi, nella Maria Schneider Orchestra, uno dei suoi successi personali a cui tiene di più, fa notare spesso. Essere parte dell’orchestra della Schneider è stato «un privilegio e una fortuna», sostiene la Noordhuis. Di Maria Schneider ricorderete la collaborazione con David Bowie nel lungo brano Sue (Or in a Season of Crime) pubblicato nel 2014, un anno e mezzo prima della scomparsa del mitico artista.

E veniamo al disco. Un lavoro estremamente raffinato, che fa viaggiare la mente, la stimola in modo positivo. Il classico album da mettere in cuffia, luci basse e un buon bicchiere di whisky da sorseggiare. Musica contemplativa, grazie anche alle magie all’arpa della scozzese Gilchrist e dei synt impercettibili ma pieni di Shipp.

Ascoltatevi Indian Pacific, un arpeggio continuo e fluido come onde del mare di Maeve Gilchrist e della chitarra di Jesse Lewis che fa da base a una struggente melodia che riporta all’emisfero  d’origine della Noordhuis. In Silverpoint, altro brano parecchio interessante, la musicista riesce a fondere atmosfere alla Pat Metheny con una chitarra che, nel finale, assume toni decisamente rock. Gullfoss, la composizione che dà il titolo all’album e che ricorda la famosa cascata islandese, è l’ultimo “messaggio”: attacca con il basso a cinque corde di Ike Sturm, martellante, per poi portarci in un mondo fatto di magici momenti. Un lungo viaggio di emozioni. Ascoltatelo, ne vale proprio la pena…

Tre dischi per il weekend: St. Vincent, Joe Barbieri, Vijay Iyer

1 – Daddy’s Home – St. Vincent

Come consuetudine, vi propongo tre dischi da ascoltare nel fine settimana. Parto subito con un’uscita fresca fresca, di giornata: Si tratta di Daddy’s Home, ultimo lavoro di St. Vincent, nome d’arte dietro cui si cela la brava Annie Clark, musicista e produttrice americana che vanta collaborazioni importanti, una a cui sono particolarmente legato, è quella con David Byrne in Love This Giant, album del 2012 (ricordate Who?). Dadd’ys Home è un disco irriverente e autobiografico (Annie racconta il periodo, dieci anni, in cui suo padre è stato rinchiuso in prigione per aver partecipato a una truffa azionaria pump & dump di oltre 43 milioni di dollari).

Inevitabili i ricordi dei dischi che giravano in casa, quella musica anni Settanta (lei è nata nel 1982), dove gli artisti amavano sperimentare. E lei reinterpreta quell’ansia quasi nevrotica di cambiare il presente mutando a sua volta la musica di quegli anni. Live in the Dream, per esempio, ricorda tanto Us and Them dei Pink Floyd, che poi si evolve in una forma altra, quasi una parodia del brano originale, con quegli effetti di sitar elettronico, molto usati in quegli anni da quasi tutte le band rock, ma con l’aggiunta dei suoi assoli di chitarra acidi e della batteria che scandisce secca, quasi apatica, in netto contrasto con i suoni avvolgenti di Gilmour e Mason. Sotto questi aspetti, un lavoro originale, non banale, uno spaccato della sua vita non solo di artista. Viene in mente quello che proprio St. Vincent, alle battute finali di What drives Us, docufilm di Dave Grohl che consiglio vivamente, dice: «Alla fine, suonare e scrivere fottute canzoni è ciò che amo fare, la cosa che mi piace di più in assoluto!».

2 – Tratto Da Una Storia Vera – Joe Barbieri

Passiamo a tutt’altro, veniamo a casa nostra per un’uscita di un mese fa: Tratto Da Una Storia Vera, di Joe Barbieri. Su Barbieri mi sono già espresso in questo post, è uno degli autori italiani più bravi e raffinati che possiamo vantare. A cavallo tra jazz, bossanova, arie classiche, è un artista completo. In questo album vanta, as usual, collaborazioni di rispetto, come Fabrizio Bosso nel brano che apre il disco La Giusta distanza, o Niente di Grave, con il violoncellista carioca Jaques Morelenbaum, o ancora In Buone Mani, cantata con Carmen Consoli e Promemoria, esplosione di gioia, con il grande trombonista Mauro Ottolini che ho intervistato qualche settimana fa su questo blog. Un album personale, autobiografico, dove dentro ci sono tutte le passioni musicali di Barbieri, quei generi e quegli amici che lo hanno reso l’artista che è oggi.

3 – Uneasy   Vijay Iyer, Linda May Han Oh, Tyshawn Sorey

E ora ci tuffiamo nel jazz con un pianista che per suonare non sceglie mai le strade più facili, ma ama avventurarsi in terreni affascinanti, in nuove sonorità, in fraseggi complessi che restituiscono all’ascoltare la meraviglia di una lingua, la musica, ricca di “sinonimi e contrari” senza ricadere sempre sulle solite “frasi fatte”. Lui è il newyorkese Vijay Iyer, 49 anni, per l’occasione in trio con altri due grandi musicisti, la contrabbassista e compositrice australiana Linda May Han Oh e il batterista (polistrumentista e compositore newyorkese) Tyshawn Sorey. Il risultato è Uneasy, titolo che potremmo tradurre con “A disagio”, uscito il 9 aprile scorso. A disagio per gli anni di pandemia, a disagio per le tensioni razziali in America ancora irrisolte – ascoltate Combat Breathing.

Ma anche artisti preoccupati di cercare di far capire quello che i tre stanno portando avanti in nome della creatività. Proponendo, ad esempio, anche dei superclassici, come Night and Day di Cole Porter, da ascoltare non come brano in sé ma come una trasformazione sul tema, un altro punto di vista, più complesso, appunto, per le implicazioni emotive e le storie professionali di ciascuno dei tre musicisti. Dunque, un disco da mettere in cuffia a cuore aperto, per lasciarsi conquistare da nuovi linguaggi, considerare altri orizzonti, al di là dei propri gusti personali.

Tre dischi da ascoltare e… commentare

Oggi vi propongo tre dischi di recente uscita che mi sono piaciuti. Come sempre, alla ricerca di album non banali che abbiano qualcosa da dire.

1 – Superwolves – Matt Sweeney e Bonnie “Prince” Billy

Parto subito con un disco uscito il 30 aprile scorso firmato Matt Sweeney – chitarrista americano famoso per aver fatto parte degli Zwan, supergruppo composto da Billy Corgan, frontman, e Jimmy Chamberlin, batterista, dei The Smashing Pumpkins e David Pajo, fondatore degli Slint – e Will Oldham nella sua veste di Bonnie “Prince” Billy. Nel 2005, 16 anni fa, i due artisti avevano pubblicato Superwolf, disco che è diventato un’icona underground. Il nuovo album si chiama Superwolves, l’idea del lupo è una linea guida di Oldham nella veste del suo alter ego Bonnie “Prince” Billy: nel 2003, nell’album Master and Everyone aveva scritto una canzone intitolata Wolf Among WolvesLupo tra i Lupi. Il lupo, animale simbolo, selvaggio, feroce, tutto cuore e passione. Superwolves è un disco che raccoglie quel filo che s’è interrotto 16 anni fa tra Sweeney e Oldham. Il canto e la scrittura del secondo si fonde con le chitarre del primo in una simbiosi così naturale e totale che ti fa sentire parte di qualche cosa, immerso nel mondo gentile – e drammatico – di Bonnie fin dalla prima canzone, Make Worry For Me, intreccio di voci e chitarre…

2 – We Are – Jon Batiste

Andiamo su tutt’altro genere. Lui è Jon Batiste, artista di New Orleans, famoso negli States per essere il direttore musicale del The Late Show condotto da Stephen Colbert. Jon ha pubblicato il 19 marzo scorso We Are, disco che trasmette energia allo stato puro, emozione, disperazione, commozione, gran rigore musicale nel mix stilistico ma anche impegno, sull’onda del Black Lives Matter. C’è soul, pop, hip-hop, rap, R&B, con un pizzico di maestria jazz, un’insalata condita alla perfezione. Ascoltate We Are, cantata assieme alla St. Augustine High School Marching 100 e il Gospel Soul Children’s Choir di New Orleans. Quindi si passa in un crescendo a Tell The Truth, un’intemerata alla Otis Redding e agli anni Sessanta. Per passare poi all’incontenibile I Need You, e così per 13 brani belli spessi.

3 – The Battle at Garden’s Gate – Greta Van Fleet

Dei tre fratelli Kiszka, Josh (voce), Jake (chitarra) e Sam (basso) e di Danny Wagner (batteria) ne stanno parlando tutti. In arte sono i Greta Van Fleet, due dischi all’attivo, l’ultimo, The Battle at Garden’s Gate è uscito il 16 aprile scorso, e un rock già sentito. Anzi, un gruppo già sentito, storico, immortale, i Led Zeppelin. La cosa strana – e bella – di questa band americana è che non fa nulla per nascondere l’amore incondizionato per il rock anni Settanta, periodo di massimo fulgore, e per Robert Plant & Co. Josh ne ha introiettato persino la voce. Detto ciò, ripuliti dai possibili mormorii di plagio, la chitarra di Jake in Built By Nations assomiglia, ma assomiglia proprio, al celeberrimo riff di Jimmy Page in Black Dog: è un rock per nostalgici del Rock. Ben suonato, con il giusto pathos, impeccabile, sartoriale. I quattro son proprio bravi, speriamo in un’evoluzione che prenda le distanze dai loro idoli, perché di stoffa ne hanno, eccome.

Natale 2020: tre album da ascoltare…

Insomma, non poteva essere altrimenti. Almeno qui a Milano, la vigilia di Natale è scandita da un cielo grigio e torvo, una pioggia sottile che ti fa venire voglia di essere tutto, fuorché ben disposto a festeggiare. Meritato coronamento di un anno di…! In questi giorni mi sono dedicato a viaggiare tra i vari autori che, come tutti i Natali, si dilettano a pubblicare il loro album da ascoltare sotto l’albero. Ci sono un po’ tutti. Confesso, di quelle campanelle che scandiscono allegri carol, quest’anno non ne vorrei ascoltare nemmeno una.

Eppure di canzoncine scacciapensieri non ci si fa mancar niente, tra Dolly Parton, la regina del country, che a 75 anni pubblica il suo primo album natalizio con ospiti del calibro di Miley Cyrus e Michael Bublé, e Mariah Carry, artista che ha battuto ogni record con All I want for Christmas is you, e che quest’anno si è riproposta alla grande con un album dal titolo Mariah Carry’s Magical Christmas Special, che è anche uno show trasmesso da AppleTv, con ospiti big, da Ariana Grande a Jennifer Hudson a Snoop Dogg, oltre all’etoile Misty Copeland e all’attrice Bette Midler.

Vorrei, invece, concentrarmi su tre autori. Si tratta di tre bravi artisti, molto diversi tra loro, che hanno deciso di interpretare il Natale con una coerenza rigorosa rispetto al momento storico che stiamo vivendo. Tristezza, sì, ma  anche tanta nostalgia, tranquillità, riflessione…

Parto subito con un pianista che abbiamo visto – anche se in streaming – all’edizione di Piano City Milano di quest’anno. Lui è il canadese Jason Charles Beck, in arte Chilly Gonzales. Chilly ha sfornato un disco che gioca tra il classico e le escursioni jazz e blues dal titolo A Very Chilly Christmas. Come sostiene lo stesso autore, un disco per far riflettere su quanto abbiamo passato e stiamo passando, c’è poco da stare allegri, per andare dritti al punto. Sarà per questo che le canzoni sono suonate tutte volutamente in tonalità minore, più malinconica e pensierosa (guardate qui il video per un Natale bittersweet, in agrodolce). Ma la tristezza non deve prendere il sopravvento sulle sensazioni che la musica riesce a trasmettere. Ed ecco, ad esempio, l’accattivante The Banister Bough con la voce cristallina di Feist. O la classica Silent Night, che l’autore precisa, tra parentesi, la suona in versione  “after Franz Gruber”, il compositore austriaco che la compose su testo di Joseph Mohr. È così anche per Jingle Bells suonata a suo modo, corta ed efficace, ma sempre nel rispetto di chi l’aveva creata, e cioè James Lord Pierpont, nel 1857 con il titolo One Horse Open Sleigh, brano, per inciso, scritto per il giorno del Ringraziamento e poi diventato uno dei must natalizi.

Il secondo album che vi propongo è una rimasterizzazione a dieci anni dalla pubblicazione, ed è il disco natalizio di Annie Lennox, A Christmas Cornucopia. Annie ha aggiunto un brano inedito, Dido’s Lament, composto da Henry Purcell nel Seicento, e che la Lennox con Mike Stevens ha riadattato. Brano molto intenso, con l’intervento del coro dei London City Voices. Voce incredibile, intensa spettacolare. Non ho aggettivi per descriverne la bravura. Una delle poche artiste che riesce a penetrarti l’anima. I proventi del brano che apre il disco (nella precedente edizione lo chiudeva), Universal Child, ri-registrato con l’African Childrens’ Choir, andranno tutti alla Annie Lennox Foundation, fondazione che i occupa di progetti di beneficenza. Ascoltarla in questa nuova versione quasi tutta arrangiata e suonata da lei e da Mike Stevens, significa entrare senza fronzoli, campanelli, renne e babbinatali, in uno spirito più coerente del Natale…

L’ultimo disco, non abbiatene, è davvero dark. D’altronde, chi lo propone, è uno degli artisti più malinconici che il rock ricordi. Sto parlando di Mark Lanegan, ex frontman degli Screaming Trees, uno che ha pubblicato a maggio di questo 2020, Straight Songs of Sorrow, 15 brani incentrati sulla malinconia, o Blues Funeral (del 2012), titoli che la dicono lunga sul carattere e lavoro dell’artista. Mark ha completato un suo disco, pubblicato nel 2012, nella sua versione alter ego Dark Mark moniker, Mark Does Christmas, targandolo 2020, e aggiungendo quattro nuovi brani. La cover è sempre la stessa, sfondo bianco e un albero di natale che culmina in un teschio con un cappello da Babbo Natale. Musica essenziale, chitarre acustiche, drum machine, organi eterei, e la voce roca e profonda, inconfondibile, di Dark Mark. Una particolarità: l’album non lo trovate nelle classiche piattaforme streaming. Dovete comprarvelo dalla Rough Trade (quello che ho fatto!), la casa discografica, o potete ascoltarlo in streaming a questo link

Buon Natale!

Venti dischi (più uno) per raccontare un anno particolare/1

 

Frame da “Il Mondo In Testa” di Gegè Telesforo, opera dell’artista newyorkese Dominique Bloink

Il 2020 ha imboccato il suo declino. È passato in un lampo quest’anno, dove nulla o poco sarà come prima, atroce per molti versi, pensieroso per altri, comunque vacillante. Non credo di scrivere cose nuove, ma mi sono sentito come una barca in balia delle onde. Adoro il mare ma lo soffro, e tanto.

Il coronavirus mi ha attaccato. Ne sono uscito bene, ma con una fatica immensa. In mezzo alla malattia, alla paura che mi è rimasta a distanza di mesi, oltre alla perdita del gusto e dell’olfatto (cosa che per un veneto, amante del buon vino, considero un inconveniente davvero disastroso!), al lavoro sempre più precario che richiede doti impensabili di equilibrismo, una delle poche cose che mi ha aiutato a trovare delle ragioni di piacere è stata la musica.

In quest’anno ho intervistato artisti incredibili, ho cercato di tenermi lontano dal mainstream perché lì fuori c’è un mondo di note eleganti, creative, sincere, ho parlato con professionisti e docenti che mi hanno spiegato il valore di quest’arte antica quanto l’uomo, ma soprattutto ho ascoltato, ascoltato e ascoltato.

Tra le centinaia di album che sono passati in cuffia ne ho scelti venti (più uno – poi vi spiegherò il perché). Li dividerò in quattro post, cinque per ognuno. E per ciascun album vi racconterò perché quelle canzoni/brani hanno catturato la mia attenzione, quali sensazioni mi hanno dato. Noterete che in questi dischi c’è un inconsapevole filo comune, il viaggio inteso come integrazione, conoscenza, scoperta, intreccio.

C’è di tutto, rock, pop, soul, jazz, blues, indie, world, americana, classica contemporanea. Brani e canzoni che mi hanno accompagnato nel corso di questo 2020 con dolcezza, rabbia, amore, pace, euforia, voglia di viaggiare e ansia di conoscere.

Ultima annotazione: li presento in rigorosa sequenza di uscita.

1Caetano VelosoCaetano Veloso & Ivan Sacerdote (uscito il 16 gennaio)
Caetano, dall’alto dei suoi 78 anni portati con l’allegra saggezza di un artista completo, si diverte, come in una serata tra amici musicisti, a suonare alcune delle sue canzoni più belle e interessanti affidandosi all’improvvisazione di Ivan Sacerdote, un clarinettista poco più che trentenne, carioca di nascita ma cresciuto a Salvador da Bahia, terra di Veloso. C’è jazz, choro, paz e alegria nei suoi interventi, mai prevaricanti ma sempre necessari. Si dice che Caetano sia rimasto colpito del suo talento. E noi con lui. Da Peter Gast a Onde o Rio é mais Baiano, da Trilhos Urbanos a Desde que o Samba é Samba è un percorso carico di ricordi, un altro cameo della MPB (la Música Popular Brasileira). Per me, mezzo brasileiro acqusito, ogni ascolto equivale a obbligarmi a scavare nei ricordi, un modo sincero e aperto di fare i conti con gli anni che passano…

 

2MorabezaTosca (uscito il 14 febbraio)
Se c’è un’artista italiana che stimo incondizionatamente è proprio lei, Tosca, al secolo Tiziana Donati, romana, 53 anni. Oltre ad avere la fortuna di avere una voce semplicemente bellissima, si sente – e qui sta il valore di un vero artista – il lungo e faticoso studio per perfezionare un talento naturale. Una formazione continua, si potrebbe dire, che l’ha portata a curiosare nella musica del mondo. Incontro fortunato con Joe Barbieri, musicista e produttore saggio, che ha saputo far emergere le doti di Tosca. Non manca il Brasile con Lenine, La Bocca sul Cuore, Mio Canarino, canzone tradotta dal portoghese in italiano di Marisa Monte o Naturalmente, brano di Barbieri in duetto con un altro geniaccio della musica colta brasiliana, Ivan Lins. C’è anche un brano in francese Sérénade de Paradis, tradotto da una canzone in romanesco da Enrico Greppi della Bandabardò e uno cantato in arabo tunisino, Ahwak, con Lofti Bouchnak, e una splendida Giuramento, con un grande Gabriele Mirabassi al clarinetto. Non manca un duetto con Arnaldo Antunes, un tempo nei Titãs, band rock di São Paulo, e poi nel progetto Tribalistas con Marisa Monte e Carlinhos Brown (João). Ascoltarlo mi ha fatto viaggiare proprio quando il primo lockdown ci ha chiuso a doppia mandata. Grazie!

3 – ForeignerJordan MacKampa (uscito il 13 marzo)
È stato una bella scoperta questo ragazzo di 25 anni, nato in Congo e trasferito con la famiglia da piccolo a Coventry, Inghilterra. Due EP all’attivo, più qualche singolo, ha pubblicato finalmente il suo primo vero lavoro. Ed è un piacevole percorso di 42 minuti per undici brani dove senti tutta l’energia che si è impegnato a trasmettere. Parte forte con Magic, come lui stesso lo definisce, un brano di bossa nova, infuso di samba, una di quelle canzoni che non ti escono più dalla testa. A MacKampa piace contaminare, le radici ritmiche d’origine ci sono tutte, come la leggerezza di un mix di generi che costruiscono un genere tutto suo. La voce aiuta certo, e si capisce che tra i suoi punti di riferimento c’è quel gran istrione di Michael Kiwanuca, oserei definirlo uno dei suoi padri putativi. Me lo sono goduto questo disco, più e più volte, coinciso nel mio “periodo Covid”. Se dovessi etichettarlo, direi, un album pieno di speranza…

4 – Il Mondo in TestaGegè Telesforo (uscito il 27 marzo)
Che dire di Gegè, una delle voci jazz (trasversali) più belle che possiamo vantare in Italia, oltre che polistrumentista. 
Conosciuto molto più all’estero che in Patria, ma questo è un canone rispettato… Gegè ha la musica nel cuore, insegna a viaggiare tra le note del mondo dal suo programma radiofonico Sound Check, e questo disco ne è la prova più evidente. Un po’ la “summa” di quello che significa essere un artista come lui. Ha anche un particolare fiuto nella ricerca di giovani talenti, che coopta nei suoi lavori per far emergere quel sound inconfondibile che gli permette di usare la voce nelle sue improvvisazioni virtuose (scat). Se volete rileggervi l’intervista che ho fatto a Gegè, qui il link. Se Jordan MacKampa rappresentava la speranza, Gegè Telesforo è stato per me l’allegria, la bellezza delle contaminazioni, di un mondo a disposizione incredibilmente aperto e ricettivo, nonostante ne potessi guardare solo un piccolo quadrato dal mio terrazzo (qui Il Mondo in Testa).

5 – INFERNVUMClaver Gold & Murubutu (uscito il 31 marzo)
L’Inferno di Dante Alighieri trasposto in rap. Niente di più azzeccato per il momento che il mondo stava (e sta ancora) vivendo. I due musicisti romani, novelli Dante e Virgilio, hanno messo in rap con grande bravura e un’attenta ricerca dei testi, una trasposizione della prima delle tre cantiche del divino poeta. Ascoltatevi Caronte.

Ed eravamo nudi come appena nati

Soli dove il mondo ci ha dimenticati

Sporchi, raffreddati, tesi e spaventati

Nell’attesa d’esser traghettati, presi e giudicati

Conati, bile, sangue e lacrime si fan vapore

La dura voga del traghettatore peccatore

Un’eco d’onda sopra l’Acheronte fa rumore

Ora è il momento di pregare forte il tuo Signore

Stringevo forte due monete per pagare il pegno

Per pagare il legno, soprattutto per sentirmi degno

Di traversare il fiume nero e poi scordare l’eros

Sono solo un passeggero in fuga verso il nuovo regno

Ed ora vieni, occhi di fuoco, vieni al tuo lavoro

Vieni ancora per fermare il gioco, poi torna per loro

Torna per l’oro sopra gli occhi con i remi rotti

Torna per chi in certe notti si è sentito sempre solo

Un gran bel lavoro, non facile. Soprattutto nel mondo del rap italico. Di grande sensibilità, giusta rabbia, destini inevitabili. La colonna sonora perfetta di questi mesi. Tutto, dalla superbia all’avarizia, dalla lussuria all’invidia, dalla gola all’ira, all’accidia viene cantato e riportato con cristallina lucidità a oggi, un’attualità sconcertante. Per me il più bel lavoro hip-hop (italiano) dell’anno.

“Power Up”, a voi il nuovo disco degli AC/DC!

Ed eccoli, son tornati… Dopo sette anni di silenzio dall’ultimo album pubblicato il 28 novembre del 2014, Rock Or Bust. Lì, a suonare la chitarra ritmica, non c’era già più Malcolm, ammalato e poi passato per sempre nelle praterie del Rock il 18 novembre 2017.

Gli AC/DC son tornati. Riapparsi plasticamente con Power Up, ve ne avevo parlato lo scorso ottobre, quando misero on air il brano di anticipazione del disco, Shot in the Dark, uscito, per una strana coincidenza, lo stesso giorno della morte di Eddie Van Halen. Oggi, 13 novembre ecco l’album in gran spolvero. In tanti lo aspettavano, anche il mio amico Andrea, avvocato di professione e collezionista seriale di vinili e cd di hard rock, punk e metal (17mila dischi e 14mila cd, mi inchino dinanzi a tanta potenza!).

A questo punto dovrei tentare una recensione. Fossi un critico, direi che i grandi maestri dell’hard rock ora sono dei ricchissimi pensionati pieni di acciacchi, sopravvissuti alle vicende di una band immolata al più puro istinto Rock. Brani più o meno simili e via discorrendo. Ma non voglio farlo, perché sarebbe sommamente ingiusto. La Young Family e i loro cari fratelli di palco sono degli strepitosi, potenti, onesti, indefessi lavoratori Rock. Si muovono all’unisono, non sono una band ma un uomo solo, un Mazinga perfetto, che esiste grazie al cuore e al sangue di tutti, anche di Stevie, nipote di Malcolm e Angus (detta così, può sembrare un ragazzino, ma  in realtà il figlio di Stephen Crawford Young Sr, fratello di Malcolm e Angus, morto a 56 anni nel 1989, l’11 dicembre prossimo compirà 64 anni, uno in meno di Angus…).

Lo ha confermato più o meno così lo stesso Angus, il boss del gruppo: gli AC/DC sono un palazzo con fondamenta profonde, ben costruito che difficilmente crollerà. Brani nuovi e ripresi da vecchie canzoni composte anche con Malcolm. Angus ci tiene a dirlo al mondo. Malcolm era duro, critico con se stesso e gli altri. È così che si sono mossi anche per Power Up. Lo spirito di Malcolm aleggiava a Vancouver dentro lo studio di registrazione…

Questo nuovo lavoro suona forte e chiaro. L’ho messo in cuffia e ho chiuso gli occhi. Sono loro, gli AC/DC, inconfondibili. Angus risolve i brani con riff che riescono ancora a sorprendere, Brian Johnson il cui canto suona, come ricorda il critico di Rolling Stones nella review del disco, come il tubo di scarico di un camion incazzato, ce la mette tutta e, credetemi, non è facile fare quel falsetto all’acido puro, soprattutto se l’anglo-italiano annovera 73 primavere.

Sono loro, certo, Angus stretto nel suo costumino infantile, Brian con la coppola British, Cliff Williams, 70 anni, con i suoi jeans attillati e un basso che ha l’effetto del martello di Polifemo, Phil Rudd, 66 anni, la faccia da duro e la cassa simile a un metronomo. E poco importa che il riff di Code Red assomigli decisamente a quello di Back in Black (album storico di cui si sono festeggiati i 40 anni in luglio, il vero grande successo planetario della band scritto per ricordare Bon Scott, l’allora cantante della band,morto per eccessi d’alcol, ufficialmente), o che la potente Demon Fire ricordi particolarmente Whole Lotta Rosie (brano tratto dall’album Let There Be Rock del 1977). La musica degli AC/DC è questa. Non si pretenda altro.

Una macchina oliata che esegue alla perfezione quel Rock incazzato e battuto che, partito dal Blues è diventato Hard Rock e che è stato imitato da generazioni. Questi sono e questi rimarranno, consapevoli di essere, nonostante gli anni e gli acciacchi, sempre i migliori. Pochi possono permetterselo. Forti dei milioni e milioni di dischi venduti, della potente presenza sul palco e dei riff di Angus che hanno fatto studiare centinaia di chitarristi o aspiranti tali.

Ascoltare e – si spera – andare anche a vedere gli AC/DC è come entrare in un Luna Park dove sai quello che trovi, persino le emozioni che proverai. O come degustare un invecchiato e buon whisky delle Highlands. I sapori, i retrogusti, l’esplosione dell’alcol in bocca… tutto quello che ti aspetti. Anzi, meglio!

America, l’intervista: musica, live, pandemia e ottimismo

Gerry Beckley e Dewey Bunnell – Foto di Henry Diltz

Quando si dice America – intesa come band – più o meno a tutti gli appassionati di quel sound West Coast che ha fatto fortuna negli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso, viene in mente una canzone, A Horse With No Name: On the first part of the journey, I was looking at all the life, There were plants and birds and rocks and things… Ricordate? Le voci che riecheggiavano quella di Neil Young, le chitarre acustiche leggere e sognanti, il raccontare quell’America “freedom style” con quella punta di sana nostalgia per chi ascoltava… Gerry Beckley, Dewey Bunnel e Dan Peek, i tre adolescenti che si sono incontrati nel college a Londra perché i loro padri lavoravano per l’USAF, l’areonautica militare americana, diventati amici inseparabili, hanno marcato il territorio della musica internazionale con brani diventati dei “classici”: Ventura Highway, Sister Golden Hair, You Can do Magic, All My Life, I Need You, tanto per citarne alcuni.

Dan nel 1977, ha deciso di cambiar strada, pur rimanendo amico di Gerry e Dewey, poi un infarto se l’è portato via a 60 anni, nel 2011. Gerry e Dewey hanno continuato il loro lavoro artistico, entrando nel club delle band Over Fifties in attività, con un enorme lavoro live. Tour continui, concerti su concerti, soprattutto in Europa e in Italia dove hanno un buon numero di appassionati fan. Il Covid19 ha bloccato anche gli America. Di spettacoli dal vivo se ne parlerà nell’estate 2021. Gerry e Dewey sono stati tra i primi a mandare il loro contributo video a supporto dell’associazione Dietro le Quinte, di cui ho ampiamente parlato in vari post precedenti. Così li ho chiamati, per sapere come stanno gestendo lo stop forzato…

Gli America in concerto – Foto di Christie Goodwin

Ciao Dewey, ciao Gerry, come state vivendo questo strano periodo? Dove vi trovate?
Gerry: «Ciao Beppe, bello sentirti! In questo momento mi trovo a Sidney con mia moglie Sally e i suoi bimbi. I miei due ragazzi sono rimasti a Los Angeles. Lei era partita prima per l’Australia, a metà aprile, dopo cinque settimane di lockdown a Los Angeles».
Dewey: «Stiamo cercando, come la maggior parte delle persone nel mondo, di limitare la nostra potenziale esposizione al virus. La band e tutta la crew si trovano nelle loro rispettive case, vivendo questa situazione giorno per giorno.

Componete, vi scambiate idee per nuovi progetti?
Dewey: «In occasione del cinquantesimo anniversario della band abbiamo realizzato vari progetti  (come l’uscita di 50th Anniversary: The Collection, album celebrativo uscito nel luglio 2019, n.d.r.) e molti altri sono in fase di sviluppo. Abbiamo trascorso molti mesi con il nostro archivista, Jeff Larson, a rivedere scatole di nastri, cassette, dischi rigidi, video, film Super 8… Il cofanetto più grande si chiama Half Century e include molte canzoni e immagini inedite. Di recente abbiamo pubblicato la nostra biografia autorizzata America-The Band scritta da Jude Warne (con prefazione di Billy Bob Thornton, n.d.r.).
Gerry: “Mi sono finalmente allestito il tanto agognato studio di registrazione a casa, a Sidney. Un normale banco e un Mac da 16 pollici, collegati e funzionanti… E il risultato è che sto realizzando, dopo anni, delle registrazioni davvero nuove… tutto ciò è molto divertente!».

Credo che il lockdown, sia stato anche un’opportunità: ripensare la propria vita, riconsiderare le priorità, un momento di meditazione…
Dewey: «Sono d’accordo. Nella mia vita non mi è mai capitato tutto quello che sto vivendo ora, che è, in egual misura, liberatorio e frustrante. Siamo stati costretti a rallentare e a lasciare passare i giorni con una nuova velocità».
Gerry: «Hai ragione Beppe… ci è stata data la possibilità di trovare quello che davvero conta nelle nostre vite. Tutti in questo settore hanno perso il lavoro “dal vivo”, ma so anche che non possiamo farci niente per ora. Dispiace dirlo, ma è così…».

America – Foto di Christie Goodwin

Già, non si fanno più concerti, la “cultura attiva” come l’abbiamo conosciuta stenta a ripartire. Si tornerà alla vecchia maniera o ci sarà un’evoluzione nel modi di divulgare la cultura e soprattutto la musica?
Gerry: «Penso che la maggior parte di noi voglia tornare il più presto possibile a quello che era la  normalità; ma che cosa significhi ciò e quando ci si arriverà sono grosse domande che non hanno risposte certe. Noi dovremmo fare un lungo tour in Europa nell’estate del 2021… lo speriamo e preghiamo per questo!».
Dewey: «È difficile prevedere come la nostra cultura verrà cambiata dalla pandemia. Penso che le persone mature, come noi, dovranno impegnarsi a cambiare molto più delle generazioni più giovani, per il solo fatto che noi abbiamo più esperienza di vita da confrontare. Comunque, sono convinto che ci adatteremo e apporteremo tutte le modifiche necessarie per stare fisicamente bene. Resteranno per molto tempo le preoccupazioni sugli assembramenti, il ritrovarsi in molti in uno stesso luogo. Avremo, certo, sempre accesso alla musica e all’arte, in una forma o nell’altra perché viviamo in un’era di comunicazione di massa».

Che tipo di musica state ascoltando ultimamente?
Dewey: «A esser sinceri, non ne sto ascoltando molta in questo periodo. Passo la maggior parte delle mie giornate all’aperto, in mezzo alla natura. Quando cerco musica di solito è per guardare una performance dal vivo su YouTube di un vecchio artista o una band che mi piace… chiamala pure reminiscenza!».
Gerry: «Ne sto ascoltando un sacco, la mia musica preferita. Come Wilco, uno che va a mille, non si scollega mai! E poi… ripasso le colonne sonore di Ennio Morricone, scomparso recentemente. Lui ha molto influenzato le mie composizioni. Le sue musiche per Bugsy, The Mission, Nuovo Cinema Paradiso restano le mie favorite».

Ho visto le vostre dichiarazioni spontanee in favore delle maestranze dello spettacolo attualmente senza lavoro (per ascoltarle cliccate sulle foto qui sotto). Un tour è un grande spettacolo, state insieme per giorni, diventate tutti una grande famiglia…
Dewey/Gerry: «È vero, ci manca l’aspetto “fisico” del tour, lo stare insieme con i nostri amici, il viaggiare in posti nuovi e in quelli già conosciuti, suonare la nostra musica…».

L’anno scorso avete raggiunto un anniversario importante, mezzo secolo di America. Una vita di lavoro, musica e amicizia…
Dewey: «Sono invecchiato nel business della musica. Abbiamo iniziato l’avventura America da adolescenti e per me è stato straordinario aver raggiunto i 50 anni di registrazioni e tournée in tutto il mondo. Significa molto: abbiamo stretto molte amicizie, collaborato con altrettanti musicisti e tecnici in questi decenni. Non vedo l’ora di riprendere da dove avevamo interrotto il 12 marzo 2020!».
Gerry: «Cinquant’anni sono qualche cosa che vale chiaramente la pena celebrare. Dewey e io siamo stati molto fortunati in questo nostro lungo “viaggio” e, ovviamente, entusiasti al pensiero che l’Italia abbia giocato un ruolo così importante della nostro storia».

Qual è il vostro album favorito degli America?
Gerry: «Ne ho due: Homecoming, il nostro secondo lavoro, credo sia molto forte e coerente, perché riassume le nostre migliori caratteristiche. Adoro anche Here&Now disco prodotto per noi dal compianto Adam Schlesinger (dei Fountains of Wyne, mancato lo scorso primo aprile a 52 anni per colpa del Covid19, n.d.r.) e il grande, grande James Iha (chitarrista dei The Smashing Pumpkins, n.d.r.): penso che abbia rappresentato uno dei nostri migliori lavori degli ultimi anni».
Dewey: «Continuo a pensare e ne sono sempre più convinto che sia stato il nostro primo album, America. Un altro disco che davvero mi piace molto è Human Nature (14esimo in studio della band, uscito nel 1998, n.d.r.)».

America – Foto di Christie Goodwin

Avete voglia di parlarmi un po’ di Dan Peek, della sua scelta di lasciare la band all’apice del successo in cerca di altri valori?
Dewey: «Dan è stato uno dei membri fondatori della band. Eravamo tre grandi amici che hanno condiviso le esperienze della vita insieme fin dall’adolescenza. Ed era un musicista di talento, intelligente che sapeva anche essere divertente. Credo che il grande successo della band abbia schiacciato Dan. Ci siamo tutti dovuti adeguare alle fatiche dei tour, alla necessità di scrivere nuove canzoni, fare nuovi album. E, allo stesso tempo, stavamo anche sviluppando le nostre vite personali, sposandoci oppure creando relazioni “off the road”. Nel 1977 Dan ha deciso che non voleva più tenere quel ritmo. Così ha iniziato un nuovo viaggio che includeva il seguire le sue credenze religiose…».
Gerry: «Onoriamo l’immenso contributo che Dan Peek ha dato ogni singola notte (quando suonavamo insieme nei concerti). Io e Dew abbiamo bei ricordi di Dan, lui era un uomo davvero divertente».

In Italia avete tanti fan. Cosa vi piace del nostro Paese? Avete spesso dichiarato che vi piace venire a suonare qui…
Dewey: «Fin dalla prima volta che abbiamo girato l’Italia in tour abbiamo concordato che è un Paese bellissimo. Le magnifiche città e i borghi storici adagiati su terreni e coste meravigliose lo rendono geograficamente attraente. Poi le persone, le tradizioni, la cucina danno una buona energia a tutti noi. Ci divertiamo sempre durante i nostri viaggi in Italia e non vediamo l’ora di tornare di nuovo nel 2021…».
Gerry: «L’Italia è e rimarrà sempre una delle nostre tappe favorite durante i nostri viaggi e tour. Anche se adoriamo il cibo e la storia, la gemma più preziosa sono le persone, gli italiani: hanno così tanto amore per la vita!».

La situazione negli Stati Uniti, con l’esplosione della pandemia, le rivolte, un razzismo dilagante, non è delle migliori. Cosa sta succedendo?
Gerry: «Siamo tutti rattristati per la dura situazione in tutto il mondo, in modo particolare per i nostri amici e familiari negli States. Anche se io e mia moglie la stiamo vivendo dalla nostra casa di Sidney ogni giorni ci informiamo sull’andamento e i numeri della pandemia. È una tragedia in evoluzione. Ci troviamo tutti nel mezzo della storia oggi, che lo vogliamo o meno…».
Dewey: «Gli Stati Uniti stanno certamente attraversando un grande momento di transizione. La pandemia e lo stop della vita economica e sociale hanno focalizzato l’attenzione delle persone su problemi già esistenti nella nostra società, che ora richiedono dei cambiamenti. Penso che il nostro Paese sia ancora molto giovane rispetto a un luogo come l’Italia. Abbiamo molte questioni sociali ancora aperte, come il razzismo e il diritto all’uguaglianza. Fino a quando non saranno risolte, le tensioni non cesseranno».

Memento/ Febbraio 1970: oltre Sanremo, tre dischi storici

Mentre sul palco dell’Ariston lo spettacolo va avanti come previsto tra il twerking di Elettra Lamborghini (la voce non si può ricordare…), l’esibizione dei Ricchi e Poveri, di diritto gli Abba del pop italiano, e il duetto Ranieri-Ferro sulle note di Perdere l’amore, vale la pena riportare le lancette del tempo indietro di 50 anni.

Il 1970 è stato un grande anno per la musica. Furono pubblicati, infatti, molti dischi che fecero la storia del rock e pop internazionale (avremo modo di parlarne in altri post). Oggi ci concentriamo su febbraio, con una divagazione –  doverosa – a fine gennaio.

Tanto per inquadrare il periodo storico, dal 26 al 28 febbraio a Sanremo al Salone delle Feste del Casinò si stava tenendo la ventesima edizione del festival. Vinsero Adriano Celentano e Claudia Mori, con Chi non lavora non fa l’amore. Al secondo posto si classificarono i Ricchi e Poveri con La prima cosa bella di Nicola di Bari, mentre al terzo, Sergio Endrigo con un altro brano che, più o meno tutti, hanno fischiettato per anni, L’Arca di Noè.

Iniziamo con la “doverosa divagazione temporale”: il 26 gennaio 1970 la Columbia Records rilascia Bridge Over Troubled Water, quinto e ultimo album del duo Simon/Garfunkel. Disco fortunato, 25 milioni di copie vendute nel mondo, 11 tracce, tre delle quali scolpite nella memoria collettiva, Bridge Over Troubled Water, The Boxer, El Condor Pasa (If I Could), oltre a Cecilia, Bye Bye Love

Veniamo a noi: il 1 febbraio James Taylor pubblica Sweet Baby James, secondo album in studio e primo con l’etichetta Warner Bros. Un disco scritto quando il ventiduenne James, in preda all’eroina e alla disperazione, si barcamenava per sfondare nel mondo della musica, inventandosi quel genere rock folk, con quel modo gentile di pizzicare la chitarra in fingerpicking e quella voce nasale che tanto piaceva alle fan, vista anche la prestanza del ragazzone, 1 metro e 90 d’altezza, lunghi capelli e sguardo perso… Oltre al brano che dà il titolo all’album, una sorta di ninnananna folk dedicata al nipote, il disco contiene anche  Fire and Rain uno dei suoi più grandi successi. L’ultimo brano dell’album, Suite for 20 G, è una canzone composta da tre abbozzi di canzoni, uniti da James per avere i 20mila dollari di bonus promessi alla chiusura dell’album.

Il 9 febbraio esce un altro lavoro, considerato “spartiacque”. È Morrison Hotel dei Doors, quinto e penultimo album del gruppo con Jim Morrison (morirà a Parigi il 3 luglio del 1971). Il disco annuncia il ritorno della band californiana a quel garage blues degli inizi che culminerà nell’ultimo album con Jim, L.A. Woman. Roadhouse Blues, canzone che apre il disco, è un classico blues bello e potente, mentre Peace Frog, brano più politico, attacca con una chitarra acida su cui si inserisce la batteria, quindi il basso, il Vox Continental di Manzarek e infine la voce arrabbiata di Jim:

There’s blood in the streets, it’s up to my ankles
She came
Blood in the streets, it’s up to my knee
She came
Blood in the streets in the town of Chicago
She came
Blood on the rise, it’s following me
Think about the break of day…

Il 13 febbraio, invece, arriva sugli scaffali il primo album di una band inglese che farà parlare molto di sé. Il titolo porta il nome della band: Black Sabbath. Inizia l’avventura di Geezer Butler, Bill Ward, Ozzy Osbourne e di Tony Iommi, amico/nemico di Ozzy. In un’intervista di qualche giorno fa Ozzy ha dichiarato che ancora oggi Tony gli mette soggezione. Torniamo al disco: non accolto benissimo dalla critica (Rolling Stone lo troncò di brutto) ha trovato invece il favore del pubblico. Disco e band sono stati l’ispirazione per numerosi gruppi, soprattutto di doom metal. La campana e la pioggia sulla prima traccia Black Sabbath, sono diventate famose… Piccola nota: tra pochi giorni, il 21 febbraio, uscirà il nuovo disco di Ozzy, Ordinary Man. Ma questa è altra storia…