Disco del mese/ Here It Is: A Tribute to Leonard Cohen

Fra le tante uscite di ottobre mi ha colpito un lavoro che, dalla sua pubblicazione, è diventato per me un ascolto quotidiano. Si tratta di Here It Is: A Tribute to Leonard Cohen, edito dalla Blue Note Records e dato all’ascolto il 14 del mese scorso. 

Non sono un amante dei dischi che in qualche modo sfruttano il lavoro di artisti scomparsi. Ma qui, accidenti, siamo davanti a ben altra cosa. Un vero tributo, un omaggio in punta di piedi ma potente, ricco e fedele, dove non prevale l’identità del singolo artista che interpreta ma dell’autore. Che risponde all’immenso nome di Leonard Cohen, uno dei più grandi cantautori che hanno calcato questo pianeta, ammirato, imitato, seguito. 

L’idea del disco – come probabilmente avrete già letto – è di Larry Klein, bassista stranoto, vincitore di Grammys, compositore e turnista d’eccellenza (da Bob Dylan a Peter Gabriel, da Herbie Hankock a Joni Mitchell (della quale è stato anche marito), amico di Cohen fin dai primi anni Ottanta. Il quale ha pensato a un parterre di artisti da brivido: Norah Jones, Peter Gabriel, Gregory Porter, Sarah McLachlan, Luciana Souza, James Taylor, Iggy Pop, Mavis Staples, David Gray e Nathaniel Rateliff.  Continua a leggere

10 febbraio 1971: Carole King fa la storia del pop

Mentre l’America piange la scomparsa di Mary Wilson, 76 anni, l’ex The Supremes (gruppo fondato insieme a Flo Ballard, che morì a 32 anni nel 1976, e a Diana Ross), oggi la musica festeggia il cinquantesimo anniversario dell’uscita di un disco dirimente nella storia del rock/pop. Sto parlando di Tapestry. L’autrice è Carole King. Il disco va nei negozi il 10 febbraio 1971: il giorno prima Carole compiva 29 anni ed era già considerata una delle artiste più influenti del panorama musicale americano, sulla scia di Joni Mitchell. Un album di successo, che ha venduto milioni di copie in tutto il mondo, 10 milioni solo negli States, ed è stato in vetta alle classifiche per mesi. Insomma, il disco perfetto, che ogni artista vorrebbe scrivere e pubblicare.

Tapestry è il suo secondo album. Il giorno dell’uscita, dalle pagine di Rolling Stone, il mitico Jon Landau attaccava così il suo lungo pezzo di recensione al disco: «Il secondo album di Carole King, Tapestry, ha mantenuto la promessa del suo primo (Writer, pubblicato nel maggio del 1970, ndr) e ha confermato che lei è una delle figure più creative di tutta la musica pop. È un album di incredibile intimità personale e fattura musicale e un lavoro proteso a uno scopo artistico. È anche facile da ascoltare e altrettanto facile da godere».

Chi non ricorda I Feel The Earth Move, brano che apre l’album, con quell’attacco al piano pulito, deciso, ritmico molto R&B? Il dialogo tra piano e chitarra elettrica è da manuale. E poi, a scendere, It’s To Late, o la struggente Way Over Yonder e, subito dopo, You’ve got a Friend, uno dei brani più famosi di sempre. Carole la regalò all’amico James Taylor che la rese immortale. E ancora, Where you Lead, brano che, molti anni dopo, ha fatto da colonna sonora a una fortunata serie tv,  Gilmore Girls, in Italia Una mamma per amica, dove la stessa musicista è apparsa in qualche puntata. Continuando, anche il brano che dà il titolo all’album, Tapestry, è uno dei pezzi “storici” del pop, per chiudere con (You Make Me Feel Like) A Natural Woman, canzone che la King scrisse per Aretha Franklin e che diventò uno dei cavalli di battaglia di Lady Soul.

Una creatività incredibile quella di Carole King, newyorkese, figlia di una insegnante di pianoforte e di un vigile del fuoco, merito anche del suo legame con Gerry Goffin, suo ex marito, con il quale, oltre a due figlie, fecero nascere brani indimenticabili per molti artisti. La ditta King&Goffin scrisse anche per i The Animals Don’t Bring Me Down, grande successo del 1966, per i The Herman’s Hermits, I’m Into Something Good, del 1964 (Carole aveva 22 anni), per i The Righteous Brothers, For Once In My Life, (1965), per i The Byrds, I Wasn’t Born To Follow

Oggi, in questa giornata piovosa (almeno a Milano), grigia e triste riandare indietro nel tempo e ascoltare l’intero album, è un esercizio di memoria e ricordi, di nostalgie e buona musica. Già, una gran buona musica…

Weekend in musica/ Tre nuovi album per una domenica “casalinga”

“È un mondo difficile, che vita intensa, felicità a momenti e futuro incerto”, recitava il mitico Tonino Carotone in Me Cago En El Amor nel lontano 1999. Dopo 21 anni il mondo è sempre più “dificile”, la “vida intensa”, quarantena a momenti e, soprattutto, futuro “incierto”. Dunque, non ci resta che la musica. Per il fine settimana condivido con voi tre album freschi di uscita, diversi tra loro, ma giusti per vivere un weekend più… leggero.

Partiamo con James Taylor. A 50 anni di distanza dal suo secondo lavoro, Sweet baby James, pubblicato il 1 febbraio del 1970, proprio ieri è uscito American Standard, suo 19esimo album in studio, 14 brani per 45 minuti di ascolto, canzoni vecchissime, diventate dei classici negli States e nel resto del mondo. Brani interpretati da grandi musicisti ed eccelse voci che il settantunenne James ha rivisitato in modo minimal, affascinante, gentile, vellutato come solo lui riesce a fare. Ascoltatelo tutto, magari mentre fate colazione, o, ancora meglio, appena svegli, quando oziate la domenica mattina nel vostro “candido lettino” (ricordi alla Francesco Guccini). Un percorso musicale d’antan reso attuale con la coerenza sintattica del magico folksinger. Ne cito tre: It’s Only a Paper Moon, brano pubblicato nel 1933 da Harold Arlen, riproposto dai grandi nomi della musica Usa, da Nat King Cole a Ella Fitzgerald, ma anche da Paul McCartney (ascoltatela qui nella versione dell’ex Beatles) e dallo stesso Taylor, alcuni anni fa. Oggi, essenziale, meno jazzata ma con il giusto ritmo. Anche Teach Me Tonight, composta nel 1953 da Gene de Paul, canzone interpretata da moltissimi artisti tra cui Al Jarreau, Liza Minelli, Stevie Wonder, Amy Winehouse (qui la sua splendida versione), trova una nuova vita negli arpeggi di Taylor. Infine, My Blue Heaven di Walter Donaldson del 1924, vero “inno” proposto da Doris Day, Jerry Lee Lewis e persino dagli Smashing Pumpkins (ascoltateli qui). Fischiettando le melodie Tayloriane potete alzarvi e dedicarvi al pranzo domenicale aumentando il ritmo…

Ed eccoci al secondo disco. Una sorta di bomba sonora, veloce, punk al punto giusto anche nella durata del lavoro, dieci brani in appena 27 minuti. Il nuovo lavoro dei Green Days, Father Of All Motherfucker – nessun riferimento al presidente Trump, assicura il frontman Billie Joe  Armstrong – uscito il 7 febbraio, è un piccolo concentrato di energia allo stato puro, un tornado che passa veloce ma che poi, alla fine, senti che ti manca e vorresti rituffarti nel vortice ancora e ancora. Carburante extra strong per orecchie e buonumore, anche se non è uno dei migliori lavori della band di Berkeley. Billie Joe, Tré Cool e Mike Dirnt sfoderano tutto il loro impegno di ottimi “manovali” del ritmo. Divertitevi con il brano che dà il titolo al disco

Quando la domenica volgerà a sera, seduti sul vostro divano, dedicate 20 minuti per assaporare le quattro canzoni di Bestiario d’Amore, EP pubblicato da quel geniaccio di Vinicio Capossela il 14 febbraio. Più che un disco, è una mini opera fantastica, un’infilata di suggestioni musicali e fonetiche che ti portano a viaggiare in mondi immaginari, scene flash che ognuno si può montare cavalcando la propria creatività e fantasia. Vinicio nelle vesti di un trovatore medievale si muove leggiadro in queste narrazioni compresse. Il titolo e i testi sono ispirati al duecentesco Bestiario d’amore del poeta francese Richard de Fornival. Animali veri e fantastici per raccontare suggestioni d’amore… «Bestiario d’amore, l’amore è un bestiario che imbestia le ore», canta il musicista d’origini irpine nato ad Hannover 54 anni fa. Ascolate  – e guardate le illustrazioni di Elisa Seitzinger – qui Bestiario d’Amore

Memento/ Febbraio 1970: oltre Sanremo, tre dischi storici

Mentre sul palco dell’Ariston lo spettacolo va avanti come previsto tra il twerking di Elettra Lamborghini (la voce non si può ricordare…), l’esibizione dei Ricchi e Poveri, di diritto gli Abba del pop italiano, e il duetto Ranieri-Ferro sulle note di Perdere l’amore, vale la pena riportare le lancette del tempo indietro di 50 anni.

Il 1970 è stato un grande anno per la musica. Furono pubblicati, infatti, molti dischi che fecero la storia del rock e pop internazionale (avremo modo di parlarne in altri post). Oggi ci concentriamo su febbraio, con una divagazione –  doverosa – a fine gennaio.

Tanto per inquadrare il periodo storico, dal 26 al 28 febbraio a Sanremo al Salone delle Feste del Casinò si stava tenendo la ventesima edizione del festival. Vinsero Adriano Celentano e Claudia Mori, con Chi non lavora non fa l’amore. Al secondo posto si classificarono i Ricchi e Poveri con La prima cosa bella di Nicola di Bari, mentre al terzo, Sergio Endrigo con un altro brano che, più o meno tutti, hanno fischiettato per anni, L’Arca di Noè.

Iniziamo con la “doverosa divagazione temporale”: il 26 gennaio 1970 la Columbia Records rilascia Bridge Over Troubled Water, quinto e ultimo album del duo Simon/Garfunkel. Disco fortunato, 25 milioni di copie vendute nel mondo, 11 tracce, tre delle quali scolpite nella memoria collettiva, Bridge Over Troubled Water, The Boxer, El Condor Pasa (If I Could), oltre a Cecilia, Bye Bye Love

Veniamo a noi: il 1 febbraio James Taylor pubblica Sweet Baby James, secondo album in studio e primo con l’etichetta Warner Bros. Un disco scritto quando il ventiduenne James, in preda all’eroina e alla disperazione, si barcamenava per sfondare nel mondo della musica, inventandosi quel genere rock folk, con quel modo gentile di pizzicare la chitarra in fingerpicking e quella voce nasale che tanto piaceva alle fan, vista anche la prestanza del ragazzone, 1 metro e 90 d’altezza, lunghi capelli e sguardo perso… Oltre al brano che dà il titolo all’album, una sorta di ninnananna folk dedicata al nipote, il disco contiene anche  Fire and Rain uno dei suoi più grandi successi. L’ultimo brano dell’album, Suite for 20 G, è una canzone composta da tre abbozzi di canzoni, uniti da James per avere i 20mila dollari di bonus promessi alla chiusura dell’album.

Il 9 febbraio esce un altro lavoro, considerato “spartiacque”. È Morrison Hotel dei Doors, quinto e penultimo album del gruppo con Jim Morrison (morirà a Parigi il 3 luglio del 1971). Il disco annuncia il ritorno della band californiana a quel garage blues degli inizi che culminerà nell’ultimo album con Jim, L.A. Woman. Roadhouse Blues, canzone che apre il disco, è un classico blues bello e potente, mentre Peace Frog, brano più politico, attacca con una chitarra acida su cui si inserisce la batteria, quindi il basso, il Vox Continental di Manzarek e infine la voce arrabbiata di Jim:

There’s blood in the streets, it’s up to my ankles
She came
Blood in the streets, it’s up to my knee
She came
Blood in the streets in the town of Chicago
She came
Blood on the rise, it’s following me
Think about the break of day…

Il 13 febbraio, invece, arriva sugli scaffali il primo album di una band inglese che farà parlare molto di sé. Il titolo porta il nome della band: Black Sabbath. Inizia l’avventura di Geezer Butler, Bill Ward, Ozzy Osbourne e di Tony Iommi, amico/nemico di Ozzy. In un’intervista di qualche giorno fa Ozzy ha dichiarato che ancora oggi Tony gli mette soggezione. Torniamo al disco: non accolto benissimo dalla critica (Rolling Stone lo troncò di brutto) ha trovato invece il favore del pubblico. Disco e band sono stati l’ispirazione per numerosi gruppi, soprattutto di doom metal. La campana e la pioggia sulla prima traccia Black Sabbath, sono diventate famose… Piccola nota: tra pochi giorni, il 21 febbraio, uscirà il nuovo disco di Ozzy, Ordinary Man. Ma questa è altra storia…