Caterina Comeglio, un’Isola abitata da Jazz, Soul e Pop

Oggi ritorno con una nuova cantautrice. Si chiama Caterina Comeglio, è milanese, classe 1990, ha una voce molto sofisticata, con la quale può fare tutto, dal jazz al pop al R&B. Ha pubblicato a ottobre un Ep dal titolo Isola (via Hukapan) sei brani composti da lei, nei testi e nella musica, con gli arrangiamenti del pianista Mirko Puglisi.

Gli studi musicali di Caterina sono di grande rispetto: Jazz Trinity College di Londra e quindi Leeds College of Music, come la sua esperienza sul palco che ha condiviso con il sassofonista Bob Mintzer, con Sarah Jane Morris, ma anche con Mika e Roby Fachinetti. Tre anni fa ha vinto il Premio Lelio Luttazzi nella categoria “cantautori”, con un brano Scheletri a Ballare, arrangiato da suo padre, Gabriele Comeglio, sassofonista e direttore d’orchestra. Continua a leggere

“Felona e Sorona”, il capolavoro prog raccontato da Aldo Tagliapietra

Sto riascoltando un disco bellissimo uscito nel 1973. Il prossimo anno compirà cinquanta primavere, un lavoro atemporale, profondamente progressive nella musica e nei testi. Si tratta di Felona e Sorona de Le Orme, una delle pietre miliari del rock prog non solo italiano. In quegli anni nacquero centinaia di gruppi che si dedicavano a questo nuovo genere musicale, impegnato nella musica e nei testi, di rottura, che richiedeva – come volevano i tempi – una certa complessità, considerata una delle virtù per poter cambiare la società di allora. Anni proficui dove la creatività viaggiava a mille e le avventure sonore erano praterie sterminate.

Settimana scorsa ho proposto su Musicabile due uscite importanti, il nuovo lavoro del Banco del Mutuo Soccorso, Orlando: Le Forme dell’Amore e quello di Franco Mussida, ex chitarrista e cofondatore della PFM, Il Pianeta della Musica e il viaggio di Iòtu. Due album prog, distanti tra loro, il primo opulento, ricco, un vero proprio poema d’armi e d’amore (si rifà all’Orlando Furioso dell’Ariosto), il secondo minimalista, una sofisticata sottrazione in cerca della purezza del suono. Oggi vi voglio parlare – e lo farò tramite uno degli autori, Aldo Tagliapietra – del terzo Moloch-prog italiano, Le Orme. Allora, Banco, PFM e Orme erano le tre band prog italiane più famose del mondo, la musica italiana stava vivendo uno dei suoi momenti più alti, concerti negli States, in quel’Inghilterra patria del genere, ovunque tournée trionfali.  Continua a leggere

Interviste: il “prossimo passo” di Roberto Occhipinti…

The Next Step. Il Prossimo Passo. È il titolo di un album uscito venerdì scorso firmato da Roberto Occhipinti. Una frase, oserei, lapidaria, che significa molto nella musica. Avanzare, trovare nuove sonorità, raccontare un futuro in note, evolvere, rischiare, rispettare.

Roberto Occhipinti è un canadese, nato a Toronto 66 anni fa, figlio di genitori siciliani di Modica emigrati in cerca di lavoro dall’altra parte dell’Oceano. È un grande contrabbassista e bassista. Viene dalla musica classica – che suona tutt’ora – è passato per la musica contemporanea, ha suonato con i Gorillaz di Damon Albarn e, da sempre, ha una grande passione per il jazz. Compositore e musicista, aperto e gioviale come il sole di quell’isola che considera il suo paradiso. Ha un fratello, Michael, chitarrista jazz di fama mondiale, 54 anni, e un cugino, David, stessa età, altro abile chitarrista. Tutti nati in Canada, cittadini canadesi ma con anche, in mano, il passaporto italiano.

The Next Step è suonato in trio. Assieme a lui, Adrean Farrugia al pianoforte e Larnell Lewis alla batteria. Per un musicista che ha frequentato le grandi orchestre, il trio è il modo migliore per esprimersi come compositore e arrangiatore. In trio Roberto ha suonato molto, per lo più con musicisti cubani, a partire dal grande Hilario Duran con cui ha condiviso per oltre vent’anni i palchi di mezzo mondo.

Prima di leggere l’intervista telefonica che ho fatto a Roberto, qualche annotazione sul disco. Un lavoro molto bello, appassionato, dove il contrabbasso viene suonato con grande tecnica perché Occhipinti passa dall’archetto alla percussione con grande naturalezza, anzi li suona contemporaneamente: la formazione classica e contemporanea viene fuori di prepotenza. L’improvvisazione non è mai esasperata, tutto calibrato tra il pianoforte di Farrugia e la batteria di Lewis che si dedica a un complesso lavoro ritmico.

Nove brani, in tutto (54 minuti e 65 secondi), sei di questi scritti da Roberto e tre riarrangiati. Il primo è di Alessandro Scarlatti, il musicista barocco con natali siciliani (sarà un caso?): O Cessate di Piagarmi, trasposto in jazz, con la voce di Ilaria Crociante, un adagio trasformato in un piccolo capolavoro “smooth” ricco di sfumature, con un evocativo assolo al contrabbasso. Il secondo è la rivisitazione di Opus Pocus, brano del mitico Jaco Pastorius, pubblicato sul primo, omonimo disco solista del bassista degli Weather Reports, uscito nel 1976. Un pezzo piuttosto difficile per tecnica di esecuzione che Roberto ha arrangiato senza snaturare la linea di basso. D’altronde Jaco amava suonare il fretless che gli permetteva certe escursioni sonore che Roberto bene interpreta nel contrabbasso… Sempre in Opus Pocus, complimenti ad Adrean Farrugia per come ha sostituito con il pianoforte l’immensa bravura di Herbie Hancock e pure la partitura al sax di Wayne Shorter.

The Peacocks, il terzo, brano, di Jimmy Rowles, è la sintesi della tecnica di Occhipinti di cui vi parlavo prima, corde suonate con l’archetto e percosse per esaltare al massimo il suono poliedrico del contrabbasso, simile a una sezione d’archi. Three Man Crew è il titolo della sesta traccia, ed è un omaggio al  concetto di trio jazz, inteso come luogo fisico e artistico, la perfezione musicale: pianoforte, basso e batteria, cosa volete di più? E i tre non fanno di certo fatica a spiegarne il concetto. Un’intesa complice e divertita di tre amici affiatati che se la raccontano davanti a un buon bicchiere di rosso morbido dai caldi tannini.

Di Occhipinti vi consiglio anche un bellissimo album del 2018 titolato Lei: Music for Solo Bass (2018), dove il musicista sfrutta al massimo la conoscenza dello strumento, per un lavoro iconografico. Altro album da tenere nella vostra collezione di ascolti è A Bend in the River del 2008, in quartetto con David Virelles, pianoforte, Luis Deniz, sax, e Dafnis Prieto alla batteria, dove trovate una bella versione di Naima di John Coltrane. Vi lascio anche un terzo disco che vale la pena ascoltare, ed è Stabilimento (2016), dove c’è un pezzo che mi ha colpito molto, ed è Dom de Iludir, bellissimo brano di Caetano Veloso

Roberto sei un contrabbassista, un compositore, hai un’etichetta discografica (Modica Music), suoni classica, contemporanea, musica latina, afrocubana, jazz e anche rock e hip hop sperimentale, vista l’esperienza con Damon Albarn e i Gorillaz…
«(Ride, ndr). È vero, mi dice in un ottimo italiano con inequivocabile inflessione sicula. Dopo il conservatorio ho iniziato a suonare musica classica nelle grandi orchestre sinfoniche, ho suonato anche in ensemble di musica contemporanea, con Luciano Berio e Salvatore Sciarrino. Però mi piace molto anche il jazz. Ho suonato tanto con musicisti cubani: con Dafnis Prieto e Horacio “El Negro” Hernández, due virtuosi batteristi, sono stato per vent’anni in trio con Hilario Durán, pianista cubano che vive a Toronto… Sono fortunato, perché grazie a tutte queste esperienze ho creato il mio linguaggio musicale».

Apriamo una parentesi: sei nato a Toronto, dove vivi, ma sei figlio di italiani. Così anche Durán, nato a Cuba ma cittadino canadese…
«Credo che Toronto sia la città più multiculturale del mondo. È un luogo effervescente, dove vivono tante etnie diverse, si parlano altrettante lingue diverse. Toronto ha una ricca popolazione di origine italiana che continua a parlare italiano. I miei genitori sono partiti da Modica agli inizi degli anni Cinquanta, per venire qui a lavorare. I Canadesi sono diversi dagli americani: qui praticamente tutti si sentono orgogliosamente canadesi ma anche inglesi, francesi, italiani… C’è sempre un piede in due mondi e credo sia per questo che abbiamo doppie, triple mentalità.  Anche riguardo al cibo siamo così: io mangio a mezzogiorno italiano, la sera tailandese, il giorno dopo cinese, l’altro ancora indiano. Mi piace cambiare, è naturale per me. E come per il cibo è così per la musica. Siamo un popolo cortese, siamo neutrali, c’è da aver paura solo quando giochiamo a hockey!».

Perché il contrabbasso?
Da ragazzo nella biblioteca della scuola ho ascoltato Oscar Peterson (mitico pianista, ndr). Suonava in trio con Ray Brown al contrabbasso ed Ed Thigpen alla batteria. Il contrabbasso di Ray Brown mi ha incantato e grazie a lui ho deciso cosa volevo suonare e cosa sarei diventato».

Hai dedicato un disco al tuo strumento, Lei: Music for Solo Bass
«Tutto è nato perché avevo affittato una casa a Ortigia, Siracusa. Nella chiesa di San Cristoforo c’era una mostra dell’artista romagnolo Mauro Drudi, chiamata “Lei”: (Drudi è un artista che, partito da un volto, quello della Vergine Annunciata di Antonello da Messina, lo ha reinterpretato in diversi modi, tonalità, colori, dipinti su tavola e su tela, ndr). In quella chiesa avevo fatto un concerto e ne ricordavo l’acustica. Così, una volta tornato a casa, a Toronto, ho acquistato un nuovo microfono e l’ho provato da solo, suonando un’oretta, nella cantina di casa mia. Quel lavoro, riascoltandolo, l’ho visto bene come sottofondo alla mostra di Drudi. L’ho inciso e l’ho mandato a Mauro dicendo che poteva usarlo come colonna sonora. Se ascolti bene, c’è anche, a tratti, il rumore di sottofondo della caldaia (ride, ndr)».

Un disco che ho apprezzato molto! La Sicilia, comunque, ce l’hai sempre nel cuore. In Stabilimento, l’immagine di copertina sono le rovine della Fornace Pennisi, sempre di Siracusa…
«Vero, ci andavo a fare il bagno da bambino. Ho iniziato a frequentare la Sicilia da quando avevo sei anni! Scherzo sempre con i miei amici siciliani. Dico loro che sono l’Ultimo dei… Modicani! Allora era sconosciuta, oggi è famosissima perché è diventata uno dei simboli della saga del commissario Montalbano. Mio padre e mia madre se ne andarono da Modica nel 1953. Non perché volevano andare all’estero, ma perché costretti. Non avevano nemmeno il pane per mangiare…».

Rispetto a Toronto l’isola ha un clima più… mite!
«Sono di Toronto ma non ho mai sopportato il freddo! Per questo amo la Sicilia, è una terra ricca di cultura, calda!».

Sei un artista affermato. Hai all’attivo numerosi premi vinti per la tua professione, tra cui ben 5 Juno Awards. Anche tuo fratello Michael ne ha vinti tre…
«Pensa che a un’edizione dei Juno Awards eravamo entrambi candidati, uno contro l’altro. È stato divertente: lui per aver lavorato a un progetto, diventato un disco, sulla musica tradizionale siciliana, basato sul viaggio in Sicilia dell’etnomusiocologo Alan Lomax fatto tra il 1953 e il 1954, The Sicilian Jazz Project, io per il disco A Bend in the River! Siamo una famiglia musicale, è vero! Ma siamo stati anche fortunati di essere nati in Canada. Ai miei tempi, in Ontario, i college avevano l’orchestra sinfonica, la banda e il coro. C’era la possibilità di studiare, e bene, la musica. In Ontario ci sono molte altre famiglie musicali oltre alla nostra! Se fossi nato in Sicilia in quegli anni, sarei finito a fare il mestiere di mio padre, di mio nonno e del mio bisnonno, e cioè, il muratore… Il sistema di studio che avevamo in Ontario era fantastico. Nel corso degli anni, colpa della crisi economica, di altri modi di pensare, i tagli alla cultura sono stati sempre più sostanziosi, con i risultati che vediamo ora, un appiattimento musicale e culturale…».

Comunque in famiglia la musica doveva avere un ruolo importante!
«È chiaro che nella famiglia Occhipinti ci fosse già una propensione allo studio della musica. Ho cugini a New York che fanno i musicisti. Mio padre, come sai, faceva il muratore, scalpellino, ma conosceva l’opera e la cantava! A Modica lavorava anche per il Teatro cittadino, un vero gioiello, contribuiva alla manutenzione e così si ascoltava le opere in cartellone. Sono cresciuto ascoltando tanta musica. Mio papà comprava molti dischi… Ho anche un “figlio musicale” che però non ha avuto le stesse opportunità nostre. Purtroppo non c’è valore oggi per la musica e la cultura…».

C’è molto appiattimento, tanta banalità nel mainstream…
«Vero, però in Canada, Stati Uniti e Gran Bretagna sto vedendo una generazione preparata e colta, con un livello musicale altissimo che sta cercando di uscire allo scoperto. Io, mio fratello, mio cugino abbiamo frequentato l’Humber College, istituto prestigioso, l’equivalente del Berklee College of Music di Boston. Questi ragazzi vengono dalle stesse scuole… In più, i giovani, grazie alla tecnologia, hanno informazioni che noi non avevamo prima, tutto gira molto più velocemente».

Roberto raccontami dei Gorillaz e di Damon Albarn…
«Si parla di vent’anni fa, al primo tour dei Gorillaz in Nord America. Il loro bassista, un jamaicano che aveva avuto problemi non risolti con la giustizia americana, venne arrestato non appena misero piede a Toronto La band si trovò inguaiata e Albarn iniziò a cercare convulsamente un sostituto. Grazie a conoscenze, allora i Gorillaz e io eravamo sotto contratto della stessa casa discografica, la EMI, arrivarono a me. Per farla breve, mi ascoltarono, eseguii la partitura dei loro brani e mi ritrovai sul palco senza aver ascoltato il disco che stavano portando live. Con loro ho fatto praticamente tutta la tournée americana e tra di noi s’è creata una vera amicizia. Damon Albarn successivamente mi ha coinvolto in un progetto musicale in Mali e, grazie sempre a quest’amicizia, ho conosciuto Tony Allen, che faceva parte di un’altra band-progetto di Albarn, The Good, The Bad & The Queen. Ho suonato con Tony, ed è stato un grande onore…».

Scivolo nell’attualità: cosa pensi della guerra di Putin in Ucraina e dell’allontanamento di Valerij Gergiev dalla Scala di Milano?
«Mi ha colpito molto, e con me i canadesi, visto che il mio Paese ospita una grandissima comunità ucraina: qui a Toronto quasi tutti hanno un amico/a ucraino/a. Sono stato in Russia a suonare e incidere tre volte e ti devo dire che è un Paese stranissimo. Il mio primo maestro di contrabbasso classico, Joel Quarrington, oggi uno dei più grandi contrabbassisti classici del mondo, conosce piuttosto bene Valerij Gergiev, il direttore d’orchestra molto amico di Putin. So che in Italia s’è sollevato un caso per il suo allontanamento dalla Scala perché non s’è dissociato da questa guerra. Credo che noi musicisti dobbiamo prendere posizione, non sono d’accordo che la musica sia altro. La musica fa parte della vita e i musicisti devono dire che c’è qualcosa che non va in tutto questo, dobbiamo marcare una linea sulla sabbia oltre la quale non si deve andare. Per quello che sta succedendo oggi e per come s’è comportato, devo abbandonare tutto il rispetto che ho per Gergiev. È una questione di umanità e non di politica».

Roberto, porterai in Italia il tuo The Next Step?
«Ora è molto difficile. Vorrei venire in Europa, ci sarebbe il Jazzahead! in Germania a fine aprile (quest’anno la kermesse di Brema incontrerà il jazz canadese, ndr). Sto comunque cercando di organizzare per settembre, magari direttamente in Italia!».

Grazie del tuo tempo Roberto, spero di sentirti presto…
«Aspetta, aspetta, prima ti faccio un regalo, un secondo di pazienza…».

Rumori di sottofondo, poi arriva il suono del contrabbasso. «Lo senti?», mi urla. «Sì, sì, forte e chiaro!», rispondo. Un paio di minuti di musica, tutta per me! Che emozione… «È Chelsea Bridge di Billy Strayhorn! Ora ti lascio, stasera ho un concerto…».

Interviste: Danilo di Paolonicola, la World Music e il Saltarello abruzzese…

Danilo di Paolonicola e l’Orchestra Popolare del Saltarello – Foto di Emidio Sciannella

Un disco di World Music in Italia è sempre una benedizione. Il recupero di tradizioni sonore che si sono contaminate nei secoli grazie a scambi culturali e conflittuali, imposti o mutuati, sono la base di un’ulteriore “fusione” per chi ha la voglia, l’intelligenza e le capacità di addentrarsi in un mondo musicale che può offrire infinite combinazioni.

Danilo di Paolonicola, 44 anni, abruzzese di Teramo, fisarmonicista che ha solcato i palchi di mezzo mondo, con la sua Orchestra Popolare del Saltarello ha pubblicato il 28 dicembre scorso Abruzzo, primo disco ufficiale dell’Orchestra, che va ascoltato con molta attenzione. Perché, in otto brani, molti dei quali famosissimi anche fuori regione, ha dimostrato che la musica è un’arte senza tempo e che le canzoni popolari, quelle che si ballano alle feste paesane, possono diventare musica colta.

Voci potenti, che da un abruzzese stretto improvvisamente volano nel jazz o raggiungono accenti blues, saltarelli che si fondano in metriche jazz, escursioni balcaniche alla Bregović, strumenti mediterranei come il bouzouki greco uniti a percussioni sudamericane…

Sempre con un accento originario forte, ben marcato: d’altronde resta pur sempre una musica da ballo, canzoni che uniscono, creano comunità, condividono gioie e dolori, amori e fatica (non a caso i live dell’Orchestra sono sempre accompagnati da ballerini professionisti, a testimonianza del serio lavoro storico che sta alla base dell’operazione creativa).

Essendo molto curioso, soprattutto su dischi di questo genere, ho chiamato Danilo per farmi raccontare la genesi dell’album…

Un gran bel disco, pura Italian World Music!
«(sorride, ndr) Di base, le melodie sono rimaste le stesse, il resto è stato completamente rivisitato. Il lavoro che ho fatto nella maggior parte dei brani è stato contaminarli con i suoni e i ritmi che nascono lungo il percorso della transumanza. Siamo abruzzesi, conserviamo nel DNA l’antica tradizione dei pastori che facevano la transumanza verso la Puglia lungo il tratturo Magno (244 km da L’Aquila a Foggia, il più lungo d’Italia, ndr). Facendo questo percorso la musica popolare si trasforma: dal Saltarello diventa Ballarella, poi passa alla Tammurriata, quindi alla Tarantella del Gargano fino ad arrivare alla Pizzica…».

E qui c’è stato il primo livello di “fusion”…
«Esatto, all’interno di questo disco la prima fase di arrangiamento è stato proprio l’inserimento di altri ritmi popolari sulle canzoni abruzzesi, Oltre a questo lavoro, visto che in Abruzzo abbiamo un grande repertorio di canzoni – e di balli – ho deciso di inserire un paio di canzoni completamente rivisitate. La prima, Maria Nicola, ha un ritmo reggaeton, nella seconda, Diasill, che non è una canzone ma una litania, ho inserito una base funk su un testo rap».

Ma anche in Vola Vola Vola, che apre l’album, per esempio, hai lavorato molto, soprattutto nella coralità…
«Sì, i cori sono sempre molto curati. La mia idea di musica prende spunto anche dalla musica pop, dove c’è grande attenzione per cori e arrangiamenti. Abbiamo fatto un grande lavoro sulle voci. Su Vola Vola Vola, il mood è jazz, l’esposizione del tema della strofa mantiene l’armatura jazz con  accordi complessi; sul ritornello, invece, ritorna nella versione originale che tutti conoscono. Ho cercato di renderla più raffinata e, allo stesso tempo, riconoscibile, essendo l’unico brano popolare abruzzese famoso in tutto il mondo. Una vera particolarità, perché le canzoni popolari italiane più famose all’estero sono quelle napoletane…».

Ascoltando come hai rielaborato questi brani hai una visione diversa della canzone popolare, giustamente catalogata come World Music…
«Vengo da altri generi musicali. Sono un jazzista e, oltre al jazz e al pop/rock dove sono laureato, studio da tempo la musica etnica. Penso che le cose più interessanti uscite negli ultimi dieci anni siano venute tutte dalla World Music. Unendo suoni diversi, tipici di altre culture, si creano sonorità molto interessanti e anche, forse, innovative, se me lo permetti. Più correttamente, nuove sonorità, che miscelate con suoni “attuali”, diventano un prodotto interessante».

Foto di Emidio Sciannella

Quello che fa fatto Stweart Copeland con la Taranta…
«Il lavoro di Copeland del 2003 è l’edizione della Notte della Taranta che preferisco. Un brano che non è presente nel disco, il Saltarello Teramano, l’ho arrangiato prendendo spunto proprio dalla Pizzica degli Ucci».

A proposito: come hai scelto i brani da mettere nel disco?
«Nel repertorio dell’Orchestra che proponiamo dal vivo sono di più, ovviamente. Ho voluto prendere delle canzoni che tutti più o meno conoscono e dare loro un vestito nuovo».

Parlami dell’Orchestra, i musicisti che estrazione hanno? Come hanno preso questa idea di World Music in senso lato…
«I musicisti dell’orchestra non vengono dalla musica popolare, a parte i cantanti. Abbiamo una ritmica di jazzisti, ma chiaramente ci sono strumenti popolari come la zampogna, l’organetto, la fisarmonica, che io suono, e i tamburelli. I cantanti principali vengono, appunto, dalla musica popolare, abbiamo, per esempio, un africano – è lui che rappa in Diasill – che canta anche in abruzzese, ed è bello sentire il diverso accento che dà alle parole, poi abbiamo una italo-algerina: anche lei porta il suo bagaglio culturale… Questo ensemble produce un risultato diverso da quello che il pubblico è abituato ad ascoltare.

Gli arrangiamenti dei brani sono tutti opera tua?
«Sì. Li propongo – perché non li preparo a casa, ma lavoro in sala prove con tutti – osservando le facce dei miei musicisti. Quando li vedo tutti sorridenti, vuol dire che piace e che si divertono a suonare. È importante, così facciamo un lavoro di gruppo, dove tutti sono motivati».

L’improvvisazione c’è quasi sempre nella musica popolare, vedi lo Choro brasiliano, il Changuï di Guantanamo… Vale anche per il Saltarello?
«Abbiamo parti scritte e altre lasciate alla libera interpretazione dei musicisti, perché la musica popolare ha bisogno di questo, lo richiede, come il jazz… L’improvvisazione arricchisce un brano, lo cambia sempre, rendendolo in questo modo unico e prezioso».

Di quanti elementi è composta l’Orchestra?
«Undici o dodici. Li abbiamo ridotti, inizialmente l’organico era di diciotto, ensemble molto complicato da portare in giro. In più c’è un gruppo di ballo composto da 4/6 ballerini».

In Abruzzo come hanno preso questa tua rivisitazione popolare?
«Vabbè è normale, c’è sempre qualcuno che storce un po’ il naso, però noi le cose ce le siamo guadagnate sul campo».

La genesi dell’Orchestra?
«È nato tutto per caso, nel 2014, in una giornata di divertimento passata in montagna. In realtà era un’idea che avevo da tempo. Per realizzarla ho chiamato alcuni ignari amici musicisti, tutti provenienti dall’ambiente jazz, giustificando una session estemporanea di musica popolare per puro divertimento. Prove dalle 11 del mattino fino all’una del pomeriggio. Sembrava tutto finito, poi, dopo il pranzo, la sorpresa: un concerto, che nessuno di loro si aspettava. L’ho fatta apposta perché ero sicuro che, vista la loro provenienza artistica, non mi avrebbero seguito nel progetto che avevo in testa. C’è ancora il video sulla nostra pagina Facebook. Da allora non ci siamo più  fermati, ci hanno chiamato ovunque per suonare. Nel 2017 siamo stati invitati al Concerto del Primo Maggio a Roma. Da quel momento siamo diventati di fatto l’Orchestra dell’Abruzzo!».

Vi siete esibiti all’estero, pandemia permettendo?
«Solo a Monaco per un evento dell’ufficio del Turismo. Abbiamo, però, ricevuto molti inviti, in Canada, Stati Uniti, Sudamerica. L’idea c’è, ci stiamo attrezzando per il prossimo anno, ma il grosso scoglio, come potrai capire, sono i costi, soprattutto i biglietti aerei. Stiamo cercando di ottenere sovvenzioni dalle istituzioni, dalla Regione Abruzzo».

Il disco è stato autoprodotto…
«Sì, l’abbiamo voluto così. L’ho arrangiato e prodotto, l’abbiamo pagato di tasca nostra, perché, per il momento, non vogliamo legarci a nessuna etichetta discografica, per avere maggiore libertà di utilizzarlo come meglio crediamo. Non è un’operazione per far soldi, ma per divulgare un’idea di musica in cui crediamo. È… cultura».

Come t’è venuta la passione per la fisarmonica?
«Ho iniziato a suonare l’organetto a sei anni, andando a lezione da Fanciullo Rapacchietta, famoso musicista d’organetto abruzzese. L’elemento fondamentale che ha caratterizzato il mio percorso musicale è stata la vittoria di molti concorsi, nazionali e internazionali… ne ho vinti tantissimi, ero considerato un bimbo prodigio. Sensazione molto bella, che mi ha portato, però, un po’ fuoristrada. L’esperienza mi ha dato una facilità di stare sul palco, il saper lavorare con altri musicisti, ma in quella fase della mia vita, anziché fare il circense super virtuoso, avevo capito che mi mancavano elementi importanti per conoscere e capire bene la musica. Così, ho smesso di esibirmi è ho iniziato a studiare musica jazz, lasciando da parte l’organetto e suonando la fisarmonica. Ho fatto anche lì concorsi, vinto premi e poi ho iniziato a lavorare per ditte di fisarmoniche tra cui la Roland: mi hanno scelto per realizzare un nuovo strumento, la FR18 diatonic, una fisarmonica diatonica che ha avuto un successo planetario. Per divulgarla ho iniziato a fare concerti in tutto il mondo, presentando lo versatilità dello strumento attraverso tutti gli stili della World Music. Ora lavoro con le fisarmoniche di Paolo Soprani… Ho continuato a studiare, mi sono laureato in composizione, il Conservatorio de L’Aquila mi ha chiamato per aprire il corso di fisarmonica diatonica. Ho insegnato anche al Santa Cecilia di Roma e al conservatorio di Catanzaro. La mia soddisfazione è che, grazie a tutto questo lavoro, sono stati istituiti corsi di musica tradizionale con vari indirizzi, canto, zampogna, organetto, chitarra battente…».

E il Saltarello?
«Ho cominciato a proporlo quando ero in Giappone per Roland. Lo suonavo nei concerti e il successo è stato unanime. Da lì, vedendo il grandissimo lavoro della Taranta, mi sono convinto a organizzare un festival simile, ma fondamentalmente diverso. Quest’anno, dopo due anni di fermo, ritorneremo con grosso evento che sarà organizzato nella Valle Subequana, una spettacolare zona interna dell’Abruzzo».

Ultima domanda: questo primo disco è solo un inizio…
«Sì, in realtà è il primo volume dedicato all’Abruzzo. Ne uscirà anche un secondo, presto. In futuro, abbiamo intenzione di lavorare allo stesso modo su altre regioni. Ho già un progetto sulle musiche del Centro Italia, che la pandemia fa frenato… Al di là dell’Orchestra ho un progetto jazz a cui tengo molto, con Nino Buonocore, e un altro disco che uscirà tra un paio di mesi, il sequel di No Gender (album pubblicato nel 2016, ndr), Volume II, dove l’aspetto virtuosistico e jazzistico rappresentano al massimo l’utilizzo dei miei strumenti. Tutte composizioni originali, ispirate alla musica balcanica, con ritmi dispari, allo swing, al bluegrass…».

Dieci dischi degni di nota del 2021 – Prima parte

Il 2021 s’è chiuso da pochi giorni. Un anno in musica che, dal mio piccolo osservatorio, ha rivelato molti lavori di buona qualità. In tutti i generi, dal rock al jazz all’alternativa, classificazione usata per dire tutto e niente. Mi sono esercitato in una mia personale classifica dei dieci album che che mi sono piaciuti di più. L’ho stilata in base ai miei gusti, alle mie aspettative, alle mie sensazioni ed emozioni. Di dischi ne ho ascoltati centinaia, molti mi hanno annoiato a morte ma altri mi hanno catturato. Questi dieci sono quelli che ascolto con rinnovato piacere quando lavoro, leggo, mi rilasso. Praticamente tutti li ho già pubblicati nel corso dell’anno, con un paio di artisti ho chiacchierato anche a lungo… Ve li propongo tutti e dieci in rigoroso ordine di pubblicazione, divisi in due post…Qui i primi cinque.

Per Aspera Ad Astra – Daniela Spalletta – 5 febbraio 2021

Daniela Spalletta, siciliana, 39 anni, è una delle voci più interessanti e complete del panorama jazzistico italiano e internazionale. Ha all’attivo tre album solisti D Birth (2015 – Alfa Music), Sikania (2017 – Jazzy Records) e Per Aspera Ad Astra (TRP Music) uscito a febbraio. Troppo poco conosciuta dal grande pubblico, e questo è una grande sfortuna per chi non l’ha mai ascoltata, visto che, con la voce che si ritrova, la Spalletta potrebbe cantare di tutto. Usa la voce come strumento, ma è una musicista che compone e arrangia e la riprova è proprio quest’ultimo lavoro, frutto della sua creatività e studio. C’è jazz, certo!, ma c’è anche world music, c’è classica e un brano che mi ha stregato, un ricordo di musica barocca rivisitata in Rosa, dove tecnica e passione si fondono “angelicamente”. Un lavoro dalla costruzione complessa, grazie anche ai musicisti che la accompagnano, persone che si conoscono da anni e che da anni suonano insieme. Dagli Urban Fabula (Seby Burgio al pianoforte, Alberto Fidone – che ha suonato nell’album ma ha anche curato la direzione della TRP Studio Orchestra, l’orchestra d’archi, e ha prodotto il progetto con la Spalletta – al contrabbasso e Peppe Tringali alla batteria) al chitarrista sloveno Jani Moder, formatosi in quella straordinaria fucina che è il Berklee College of Music di Boston, a Riccardo Samperi, ingegnere del suono, che Daniela ha definito «il quinto uomo del quartetto». Approvato a pieni voti!

Carnage – Nick Cave & Warren Ellis – 25 febbraio 2021

Nick Cave & Warren Ellis. Con questi due artisti non poteva che uscire un lavoro di altissimo livello. Carnage, carneficina, è un disco che impatta, fa male, ti rigira senza troppa gentilezza. Scritto durante il lockdown, è un lavoro di pesante riflessione sulla solitudine arrivata con la pandemia, sul credere in qualcuno o qualcosa, su quello che siamo oggi, con l’inconfondibile voce baritonale di Nick e praterie di sintetizzatori made in Warren, piccoli interventi di chitarre elettriche secche come la solitudine, il pianoforte suonato da Nick che tesse melodie, in realtà, note di speranza. In Balcony Man, ultimo degli otto brani che compongono questo mosaico baritonale, profondo, essenziale, Nick canta: This morning is amazing and so are you/This morning is amazing and so are you/ This morning is amazing and so are you/ You are languid and lovely and lazy/ And what doesn’t kill you just makes you crazier. Quest’ultima frase è epica: «Ciò che non ti uccide ti rende solo più pazzo», una sintesi perfetta per due anni di pandemia. In Hand of God, «Hand of God /Coming from the Sky», primo brano, dopo un inizio “classico”, scarica sull’ascoltatore un ritmo ossessivo, profondo. Nella splendida Old Time, dove, per inciso, alla batteria c’è un altro storico “Bad Seeds”, Thomas Wydler, Nick canta: «I sogni di tutti sono morti, ovunque tu sia andata, tesoro, non sono così indietro». Tasselli che raccontano la solitudine ma anche la speranza di ritornare un giorno a una normalità. Pregno ed epico White Elephant, un chiaro riferimento all’estrema destra americana. Parte con un’elettronica alla Peter Gabriel anni Ottanta per finire in una sorta di gospel. Qui è il primatista bianco che minaccia di uccidere tutti, si sente dio, «Una Venere di Botticelli con il pene», ma anche «Una scultura di ghiaccio che si scioglie con il sole»…

Smiling With No Teeth – Genesis Owusu – 5 marzo 2021

Smiling With No Teeth è il primo album di questo ventitreenne nato in Ghana e cresciuto a Canberra (Australia), dove i suoi genitori lo portarono all’età di due anni. La famiglia è ritornata in Ghana, lui divide la sua vita tra i due Paesi. Il fratello maggiore è un rapper noto in Australia, Citizen Kay. Premessa necessaria: Genesis adora i manga giapponesi, i videogiochi e in genere le arti visive. E ancor di più ama alla follia le musiche dei videogiochi, oltre al funk, al punk, al rap e al pop. Queste sue passioni si riversano tutte nel disco che riassume un caos di generi dove Owusu si muove a suo agio, alimentandolo a dovere. Si sente la stessa fluidità di Prince nel fare musica… A partire dal primo brano, On The Move che introduce The Other Black Dog, è un crescendo di melodie e generi che stimolano e incuriosiscono. Ti invogliano ad andare avanti per questa strada apparentemente sconnessa – vedi Waitin’ on Ya – e divorare il disco fino all’ultimo brano, By By.

We Are – Jon Batiste – 19 marzo 2021

Jon Batiste, è un artista di New Orleans, famoso negli States per essere il direttore musicale del The Late Show condotto da Stephen Colbert. Il suo lavoro, We Are, è un album che trasmette energia allo stato puro, emozione, disperazione, commozione, pur conservando un grande rigore musicale nel mix stilistico. Un album “impegnato”, sull’onda del Black Lives Matter. C’è soul, pop, hip-hop, rap, R&B, con un pizzico di maestria jazz, ingredienti di un’insalata condita alla perfezione. Ascoltate We Are, il brano che apre il disco, cantata assieme alla St. Augustine High School Marching 100 e il Gospel Soul Children’s Choir di New Orleans, dove la parola “freedom” è una costante. Freedom è anche il titolo di un altro brano… In un crescendo la creativa sequenza di Batiste si sussegue a ritmo serrato, passando per Tell The Truth, un’intemerata alla Otis Redding e agli anni Sessanta, all’incontenibile I Need You, e così per tutti e 13 i brani, belli spessi.

Vulture Prince – Arroj Aftab – 23 aprile 2021

La voce di Arroj Aftab ti inchioda, la sua musica, contaminata da jazz, ritmi afrocubani, dal samba e, ovviamente dalle melodie tradizionali del suo Paese d’origine, il Pakistan, è la dimostrazione di come le culture si possano fondere armoniosamente e far nascere qualcosa di nuovo e importante. Dopo Bird Under Water, primo disco uscito nel 2014 – ascoltate la ninnananna Lullaby – Sirene Islands, del 2018, quattro brani per 48 minuti e 15 secondi di ascolto, pura elettronica, musica meditativa – qui Ovid’s Metamorphoses – ecco Vulture Prince, un disco che doveva essere la naturale continuazione del precedente Sirene Islands, con un ritorno, però, all’uso di strumenti quali la chitarra, l’arpa, i violini, nella quasi totale assenza di percussioni, un forte richiamo alla musica urdu, un neo-sufi con influenze jazz, folk, persino reggae. Il tutto suona non come una semplice contaminazione di generi, ma con uno studio attento e rispettoso della musica da cui Arooj ha attinto. Doveva essere anche un disco più “sostenuto”, come lei stessa ha avuto modo di spiegare in un’intervista a NPR, emittente radiofonica americana, con iniezioni di Afrobeat, poi, una tragedia familiare, la morte di Maher, il fratello più giovane a cui era molto unita, l’ha portata a fare scelte più rispettose del lutto che si era imposta. Ne è nato un lavoro di grandi emozioni. Da Diya Hay, brano per lei significativo, perché è l’ultima canzone che ha cantato al fratello, registrato con la brasiliana Badi Assan, alla sua personale versione del Mohabbat, un ghazal, poema tradizionale (famosissimo), che parla d’amore, ma anche di dolore per la perdita della persona amata, fino a Last Night, il testo è un poema di Rumi, il grande poeta persiano vissuto nel Duecento, che lei ha messo in musica (reggae) nel 2010 e che ha deciso di incidere in questo disco.

Gianluca Lalli, letteratura in musica come atto sociale

Musica per il sociale. È il chiodo fisso di Gianluca Lalli, quarantacinquenne cantautore marchigiano di cui vi avevo parlato nel luglio di un anno fa, quando uscì il suo lavoro dedicato a Gianni Rodari dal titolo Le Favole al Telefono. Gianluca esce domani, 1 gennaio, con un altro disco legato all’arte delle note e della scrittura d’autore. Il titolo non ha voli pindarici ma vuole presentare l’album per quello che è, Letteratura in Musica. Certo, c’è buona musica, ci sono arrangiamenti suggestivi che vanno dalla dolcezza degli archi alla sfrontatezza di una chitarra elettrica distorta. Ogni frase musicale deve coincidere con quella letterale. Testi di grandi pensatori, autori famosi, poeti, scrittori, saggisti… Si tratta della summa di un progetto che l’artista sta portando avanti da anni: nel 2011 con l’album Il Tempo degli Assassini, nel 2014, con La Fabbrica di Uomini assieme agli Ucroniutopia (la sua folk band) e con la collaborazione di Claudio Lolli che, colpito dalla verve di Gianluca, fresco di vittoria del premio Hard Rock Café dell’anno prima al Festival del Cinema di Venezia, gli affidò un brano inedito, Il Grande Freddo, quindi con Metropolis del 2017.

La musica come mezzo per parlare di sociale ed educare i giovani alla bellezza e intensità della letteratura occidentale, da Virgilio a Maria Grazia Calandrone. Con Letteratura in Musica, Lalli ha deciso di mettere un punto fermo nella sua opera educativa. Ci siamo sentiti, come sempre per raccontarmi quello che sta facendo, i suoi progetti, le sue aspirazioni. Alla stregua di Cisco, la cui intervista avete letto un paio di giorni fa, anche Gianluca si pone nel cantautorato “impegnato”. 

Mi spiega: «Si tratta di un lavoro di trasposizione musicale di grandi opere della letteratura mondiale. Il fine precipuo è quello di avvicinare le nuove generazioni alla letteratura attraverso la musica, valorizzando la continuità ma anche la specificità delle due arti. È uno spettacolo animato da un desiderio di uguaglianza sociale da realizzare attraverso l’accesso indiscriminato alla cultura, come ebbe già a scrivere Gianni Rodari: Vorrei che tutti leggessero, non per diventare letterati o poeti, ma perché nessuno sia più schiavo”».

Il disco è già stato presentato in anteprima in alcuni licei, e non poteva essere altrimenti trattandosi di Lalli: «Per ora al Liceo Benedetto Croce di Palermo e all’Istituto italiano di Cultura di Montreal, in Canada. Faranno seguito altri appuntamenti in altri Istituti di Cultura italiana all’estero: sarà in Cina il prossimo aprile, attraverso l’istituto Italiano di Cultura a Shangai, presieduto dal sinologo Francesco D’Arelli».

La sua missione artistica, dunque, fare cultura perché tra i giovani non si perdano i fondamentali della letteratura e della musica, ha anche un altro fine, instillare in loro quella gioia, che poi potrebbe diventare amore, dell’avvicinarsi a grandi autori e pensatori. I libri, come le note, posso dirci tanto, soprattutto in momenti dove c’è l’alto rischio di perdere l’orientamento, incapaci di posizionarci in un mondo che troppo spesso dimentica.

Nel progetto, come racconta sempre Gianluca, «ci sono nomi importanti: da Massimo Germini chitarrista, collaboratore di lunga data di Roberto Vecchioni, a Leo Sgavetti dei Modena City Ramblers, al sassofonista napoletano Daniele Sepe». Molti altri artisti hanno accettato il “paradigma Lalli”, come Lorenzo De Angelis, il chitarrista Stefano Sanguigni, il polistrumentista Dario Romano, l’artista Caterina Pontrandolfo, la professoressa Sara Simari, docente del conservatorio di Bari e l’Associazione Arpa Viggianese, capitanata da Maria Lucia Marsicovetere. Senza dimenticare il pianista e compositore Orazio Saracino e il trio d’archi composto da Adriana Caruso, Marco Valerio Cesaretti e Matteo Mizzera.

Prosegue Gianluca: «Attraverso le canzoni del disco ho ripercorso la grande letteratura occidentale. Il filo rosso che unisce i lavori è il dialogo inesauribile tra letteratura e musica, declinato in una prospettiva sociale. Negli anni sono state musicate opere di denuncia sociale come 1984 dello scrittore britannico George Orwell, due poesie dei maggiori rappresentanti della “Scapigliatura”, Emilio Praga e Arrigo Boito, e due del poeta romagnolo Olindo Guerrini. Sono stati trasposti in musica anche Fontamara di Ignazio Silone e Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi». Non mancano poi personaggi dell’Iliade di Omero, come Tersite ed Elena ed altre opere di poeti, scrittori e saggisti come Pino Cacucci, Dino Campana, Herman Hesse, Esopo, Ernest Junger, Jack London, Foucault, Gianni Rodari… Le dieci tracce del disco racchiudono solo un po’ del lavoro di Lalli, ma sono sufficientemente esaustive per spiegarne l’intenzione.

Un’ultima annotazione per la cover dell’album, che trovo molto bella: opera della pittrice ligure Federica Orsini, raffigura Gianluca alle prese con il suo magico mondo letterario.

Conclude il cantautore: «Con questo disco ho messo un punto importante nella mia carriera, come se fosse un raccolta di pensieri ventennali con le dovute trasformazioni…».

Tre dischi per difendersi dal freddo…

Scrivo da una Milano fredda e senza sole. Per scaldarmi il cuore sono andato a cercare un po’ di dischi che mi aiutassero a vivere questa giornata uggiosa. Ne ho scelti tre, usciti tutti lo stesso giorno, il 12 novembre scorso. Ve li consiglio, perché si spazia da melodie made in “new” Brazil a brani scritti 50 anni fa e mai pubblicati fino a una sensuale e grande voce sudafricana.

1 – Leonardo Marques Presents: Ilha do Corvo Sounds, Vol. I – Artisti Vari

Un Brasile diverso quello di Leonardo Marques, 43 anni, musicista, produttore, discografico, ingegnere del suono di Belo Horizonte, Minas Gerais. Se lo avete già ascoltato,  si sente nitida l’influenza della scuola mineira, quella di cui vi ho già parlato in altri post, che trova in Milton Nascimento (mineiro di adozione), Lô Borges, Beto Guedes e molti altri musicisti un modo molto particolare, ricercato, intimista di interpretare la MPB. Leonardo è il patron della Ilha do Corvo, uno studio di registrazione famoso per la grande attenzione di Marques all’uso di strumenti e attrezzatura “vintage”, la firma sonora che caratterizza le sue produzioni. In questo primo volume ha raccolto dieci brani di artisti della regione che hannoåc inciso in quello studio molto particolare. Un collage di brani arioso, molto anni Settanta: c’è Gui Hargreaves con Pra Ela, Bernardo Bauer con Coragem, lo stesso Marques con due brani, Acordei e Ilha do Corvo, Douglas Scalioni Domingues con Saideira

2 – Antoher Side – Leo Nocentelli

Chitarra acustica e voce. Brani “vecchi” di cinquant’anni che solo una ventina di giorni fa hanno visto  la luce sotto forma di disco. Leo Nocentelli, 75 anni, di New Orleans, il  chitarrista del gruppo funk The Meters, nel 1971 in una pausa con la band, aveva deciso di darsi al “cantautorato”. Folk e funk, una chitarra e un incedere che seguiva i sui punti di rifermento, James Taylor, ma anche Crosby Still & Nash, è riuscito a confezionare brani da roots rock che, per uno di New Orleans, crocevia dove si dice siano nati blues, jazz e rock’n’roll, è pressoché pleonastico. Comunque sia, questo disco è un bel tuffo nei Settanta che riesce a rendere brillante anche una opaca giornata autunnale. Divertitevi con brani come Give Back My Loving, Thinking of a Day, You’ve Become a Habit, dove Taylor è la stella polare… Ultima gemma, una versione di Your Song di Elton John, che ricorda negli assoli di chitarra acustica il grande Jim Croce…

3 – Thetha Mama – The One Who Sings

Dietro The One Who Sings si nasconde Zolani Mahola, 40 anni, cantante, narratrice, attrice molto famosa in Sudafrica e non solo. Lei è stata per diciassette anni la frontwoman dei Freshlyground, band importante e di rottura in quella parte d’Africa. Conosciuta dai fan con vari nomi – nessuno scelto da lei, piuttosto mutuati dai personaggi che ha interpretato – ha deciso di adottare il nome con cui la ricordano ultimamente, e cioè, il semplice “Quella che Canta”. Focus su se stessa, sulla necessità di collegarsi alla famiglia, agli antenati, alla natura. Il lavoro per lei che ha cantato con Stevie Wonder, Robbie Williams, BB King, Shakira, è una ricerca su se stessa come donna e come artista. Thetha Mama è tutto ciò, l’album della rinascita. Da Wawundithembisile, brano che ha lanciato il disco, alla stessa Thetha Mama cantata con l’accompagnamento alla chitarra di Derek Gripper. Un gran bel lavoro!

Xenia Rubinos, Una Rosa e il “no gender” della musica

Non so se l’avete sentita nominare o ne avete già ascoltato qualcosa. La musicista in questione, polistrumentista, si chiama Xenia Rubinos ha 36 anni ed è nata nel Connecticut da madre portoricana e padre cubano. Studi alla Berklee School of Music di Boston, una formazione jazz ma anche una passione per la musica elettronica, definire il genere della Rubinos è praticamente impossibile. In questo “no gender”, anzi, “full gender” album, si sentono accenni punk, jazz, folklore latino – rumba in testa – beat hip hop, una sequenza e sovrapposizione che disorienta l’ascoltatore, perso tra mille sentieri di note, ma che poi finisce per ritrovarsi in un ambiente sonoro che ha del familiare, attira, ha un senso compiuto.

Una Rosa è il terzo lavoro di Xenia, i primi due sono Magic Trips del 2013 e Black Terry Cat del 2016. Ci sono voluti cinque anni per pubblicare il nuovo lavoro uscito a metà ottobre per Anti. In questo lungo periodo, dove di mezzo si è messo pure il Covid, Xenia s’è fermata, come da lei stessa dichiarato (il The New York Times le ha dedicato un lungo articolo firmato dalla critica musicale Isabelia Herrera), sentendosi disorientata dopo la serie di concerti per promuovere Black Terry Cat e varie vicissitudini personali, che l’avevano mentalmente prosciugata. Aveva bisogno di pace e riflessione. È persino andata da un curandero che le ha diagnosticato una “perdita di spirito”…

Un lavoro che ha della drammaticità intrinseca, che tratta temi importanti, per lei la musica e il messaggio devono coesistere, altrimenti la sequenza di note perde valore. Un brano, Ay Hombre, inizia con un auto-tune sostenuto (non sopporto l’auto-tune, lo trovo un insulto alla voce, però in questo caso, dopo il primo urto di nervi, la Rubinos ha sconvolto lo spartito, piazzando un synt, con un uso quasi “scolastico”, per introdurre, con una voce densa, il dondolare latino, in contrasto con l’essenzialità elettronica del brano.

Anche Una Rosa, la canzone che dà il titolo all’album, un danzón portoricano di José Enrique Pedreira di settant’anni fa, è stato rivisto come un momento struggente di pathos, con un tappeto di synt e un basso che gira cupo e solenne. Era un motivo che aveva sentito uscire da una lampada che apparteneva alla bisnonna, fatta di fiori di fibre ottiche che si illuminavano con il suono di un carillon, la stessa della cover dell’album. Alla giornalista del New York Times, ha raccontato che ci ha messo un paio d’anni per capire chi fosse l’autore del brano, alla fine lo ha trovato, ma ha deciso di eseguire quello che lei aveva filtrato nei ricordi di bambina. Una nenia che diventa quasi aulica…

Ascoltatelo  questo disco! Il primo brano Ice Princess, dura 56 secondi ed è un ingresso al mondo di Xenia. Il testo è breve: There she is, There she is. No, wait! There she is, There. Tre interventi musicali di pochi secondi e il resto è silenzio assoluto. Quando la pausa diventa musica.

Weekend in musica: tre album da ascoltare

Per il fine settimana ho “preparato” tre dischi di recente uscita, uno freschissimo di giornata, visto che è stato pubblicato solo da poche ore. Tre lavori diversi, per generi e provenienza, ma – ovviamente secondo i miei gusti – ricchi, riflessivi, ammalianti.

1Talk MemoryBadBadNotGood – uscita 08/10/2021
I BBNG sono una band canadese, di Toronto, composta dal sassofonista Leland Whitty, il bassista Chester Hansen e il batterista Alexander Sowinski. Fanno fusion, genere che loro declinano navigando tra jazz, soul, R&B, hip hop. A cinque anni dal loro ultimo lavoro, IV, dove c’erano molte featuring vocali, ora sono arrivati con un disco solo strumentale, dove la complessità della loro musica viene esaltata da interventi di grandi artisti come Arthur Verocai (uno dei loro idoli), il re dell’ambient Laaraji, il sassofonista di Kendrick Lamar, Terrace Martin e il dj Floating Points, al secolo Sam Shepherd. Grande bel disco, né asettico, né piattamente tecnico, piuttosto un crogiolo di note che “parlano di ricordi”. Basta ascoltare Beside April (con Arthur Verocai – si sente e parecchio l’intervento del musicista brasiliano) per rendersene conto. Il tema centrale viene sviluppato romanticamente all’inizio per poi crescere e diventare più corale e allo stesso tempo deciso, meno etereo. C’è anche il batterista Kariem Riggins che, per l’occasione ha suonato solo un rullante usando le spazzole, creando suoni molto particolari, come raccontano gli stessi BBNG. In un crescendo di chitarra in assolo e batteria che pompa nel miglior prog si assiste al passaggio dal dolce al deciso per poi sfumare insieme nella chiusa finale. Gran bel lavoro!

2B-Side & Rarities Part IINick Cave & The Bad Seeds – uscita 22/10/2021
Cosa dire che non sia già stato detto di Nick Cave e dei suoi compagni di viaggio da ormai 28 anni? Che per gli affezionati dell’artista australiano qui dentro non c’è niente di nuovo. Tutto recuperabile sul web. Ma un cofanetto con doppio cd con la scelta dei “B-Side” curata niente meno che da Warren Ellis, il gran profeta del gruppo, tutti fiori rari, risulta ancora una volta un evento. Nonostante si sia già ascoltato tutto. La sequenza dei brani, le incertezze e gli eccessi di vita trasposti in note e parole raggiungono alte vette. Un lavoro da ascoltare e riascoltare, e non solo per chi è fan “senza se e senza ma” di Cave&Co e ha aspettato 16 anni dal B-Side Part I (2005). Pezzi come Earthlings (contenuto in Ghosteen del 2019, uno degli album di percorso nell’elaborazione del lutto per la perdita del figlio Arthur avvenuta nel 2015) o Fleeting Love, la canzone sull’amore passeggero – Everybody needs some fleeting love, canta – dall’album Dig, Lazarus, Dig!!!, sono pennellate di note che toccano l’animo nel profondo.

3 Love and Highlife The Cavemen. – uscita 29 ottobre 2021
The Cavemen., ovvero i fratelli nigeriani Kingsley Okorie e Benjamin James, rispettivamente bassista e percussionista, hanno dato vita a un album uscito oggi dal titolo Love and Highlife, da ascoltare con doverosa attenzione. Raggiunto il successo con Roots nel 2020 album che ricorda tanto il re dell’Highlife, Cardinal Rex (Rex Lawson, morto nel 1971 ad appena 33 anni) hanno sfornato un disco che è programmatico dal titolo, Amore e Highlife, omaggio al genere musicale nato in Sierra Leone e Ghana nell’Ottocento sotto il dominio inglese che ha attecchito con enorme successo anche in Nigeria. Più che un genere musicale l’Highlife è uno stile di vita, una musica di evasione e danza. Tenetelo presente quando lo metterete in cuffia…

Novità: Gullfoss e la magia di Nadje Noordhuis

Da un album politico ed elettronico come quello di Jerusalem In The Heart a uno sognante e “acustico”. Oggi voglio sottoporvi all’ascolto un altro disco che mi è piaciuto molto. Si tratta di Gullfoss, l’ultimo lavoro di Nadje Noordhuis. Australiana, 41 anni, da molti anni a New York, suona la tromba e il flicorno. Quello che riesce a ottenere è un suono pieno, caldo, struggente e anche… estremamente rilassante.

Il disco, uscito in cd venti giorni fa, ma in vinile nel 2019 e solo a tiratura limitata, è la registrazione di un live suonato dalla Noordhuis nel 2018 al Musig im Pflegidach di Muri, in Svizzera, accompagnata dall’arpista Maeve Gilchrist che, per inciso, è stata per un periodo anche sua coinquilina a New York, il chitarrista Jesse Lewis e il bassista Ike Sturm più i tappeti sonori con i sintetizzatori, la batteria e le percussioni di James Shipp, polistrumentista che ha suonato anche con Sting.

Insieme fanno il Nadje Noordhuis Quintet, un gruppo affiatato che riesce a trasmettere sensazioni non scontate, in un lavoro ispirato alla Natura e alle sue molteplici forme d’espressione.

Nadje Noordhuis Quintet – Frame dal concerto al Musig im Pflegidach di Muri, in Svizzera

Nadje ha deciso di essere musicista e trombettista dopo aver ascoltato Doo-Bop, disco di Miles Davis uscito nel 1992, «una fusione di jazz e rap», come ha ricordato lei stessa in un’intervista di qualche tempo fa, che l’ha introdotta al mondo del grande jazzista americano. Ha suonato, quindi, nella Maria Schneider Orchestra, uno dei suoi successi personali a cui tiene di più, fa notare spesso. Essere parte dell’orchestra della Schneider è stato «un privilegio e una fortuna», sostiene la Noordhuis. Di Maria Schneider ricorderete la collaborazione con David Bowie nel lungo brano Sue (Or in a Season of Crime) pubblicato nel 2014, un anno e mezzo prima della scomparsa del mitico artista.

E veniamo al disco. Un lavoro estremamente raffinato, che fa viaggiare la mente, la stimola in modo positivo. Il classico album da mettere in cuffia, luci basse e un buon bicchiere di whisky da sorseggiare. Musica contemplativa, grazie anche alle magie all’arpa della scozzese Gilchrist e dei synt impercettibili ma pieni di Shipp.

Ascoltatevi Indian Pacific, un arpeggio continuo e fluido come onde del mare di Maeve Gilchrist e della chitarra di Jesse Lewis che fa da base a una struggente melodia che riporta all’emisfero  d’origine della Noordhuis. In Silverpoint, altro brano parecchio interessante, la musicista riesce a fondere atmosfere alla Pat Metheny con una chitarra che, nel finale, assume toni decisamente rock. Gullfoss, la composizione che dà il titolo all’album e che ricorda la famosa cascata islandese, è l’ultimo “messaggio”: attacca con il basso a cinque corde di Ike Sturm, martellante, per poi portarci in un mondo fatto di magici momenti. Un lungo viaggio di emozioni. Ascoltatelo, ne vale proprio la pena…