Un paio di dischi per l’estate di San Martino

Siamo in piena estate di San Martino, quel periodo dell’anno dove il tardo autunno regala un tepore ingannevole prima dell’inverno. Ascoltando due dischi usciti durante il mese, mi è venuto normale associarli a queste giornate: niente di nuovo, piuttosto di rivisto e rivissuto con gli occhi di oggi, due lavori che emozionano, mettono allegria, voglia di evasione e un pizzico di nostalgia. Gli artisti in questione sono bravi e famosi, Van Morrison e Cat Power. Il primo, il 3 novembre scorso, a pubblicato Accentuate the Positive, la seconda, il 10, Cat Power sings Dylan: The 1966 Royal Albert Hall Concert. Ve li consiglio “caldamente” entrambi, per chi ha voglia di rivangare e per chi, invece, di scoprire… Continua a leggere

Torna Bob Dylan, meraviglia analogica

Sei giorni fa Bob Dylan, 82 anni compiuti il 24 maggio, ha pubblicato, via Columbia Records, il suo 40esimo album in studio, Shadow Kingdom. Quattordici brani suonati da vecchio cantautore folk, senza pianoforte, né violino, né batteria, né percussioni. Chitarre acustiche ed elettriche, contrabbasso e basso, fisarmonica. E la sua voce, che alla sua età è addirittura migliorata, più pastosa e smussata.

Si tratta di composizioni completamente riscritte su brani degli anni Sessanta con tre eccezioni: Forever Young, contenuto in Planet Waves, album pubblicato nel 1974, What Was It You Wanted, da Oh Mercy del 1989, e l’ultimo, Sierra’s Theme, strumentale, un brano cinematografico che ricorda un tramonto, la palla infuocata del sole che scende e lui, il menestrello di Duluth, chitarra in spalla che si avvia in controluce verso la sera. Continua a leggere

Bob Dylan, una biografia per i giovani scritta da giovani

Mi è capitato sotto mano un libro che mi ha incuriosito: Bob Dylan, Sixty Miles of Ways, edito dalla piccola casa editrice indipendente romana Elemento115. Un testo breve, dalla scrittura densa, che si divora in poche ore. Soprattutto perché parla di un artista che non è più un essere umano, ma è asceso al cielo diventando una figura mitologica, una divinità nella trimurti della musica del Novecento, essere imprevedibile, furbo, ossessivo, caparbio, innovatore. Dylan è Dylan. Su di lui è stato scritto tutto e il suo contrario. Saggi, biografie, romanzi. Vi domanderete: c’era bisogno di un altro libro su di lui?

Ho guardato gli autori, due trentenni. E mi sono domandato perché due giovani adulti, nati agli inizi degli anni Novanta, si fossero decisi a scrivere un libro su un artista-monolite, alla 2001: Odissea nello spazio per intenderci! 

Marta Fieramonti e Simone Pitti, romani, entrambi una laurea in lettere in tasca, hanno una passione solida per la musica. Anzi, per certa musica. Quella degli anni Sessanta e Settanta, periodo di grandi scontri e creatività, di rivoluzioni e innovazioni, di discussioni infinite e trip lisergici, di lotte contro il razzismo e le guerre… Marta ascoltando Dylan, Simone, De Andrè.

Un libro scritto da giovani per i giovani. Dove si racconta in modo secco e preciso l’importanza della sua opera, senza fronzoli, in sette capitoli, coincidenti con altrettanti fondamentali accadimenti nella vita artistica e personale del menestrello di Duluth. Non solo musicale ma anche letteraria, visto che nella sua lunga carriera iniziata alla fine degli anni Cinquanta, Dylan ha vinto pure il Nobel per la Letteratura nel 2016.

Il 24 maggio, martedì prossimo, l’artista compirà 81 anni. Età ingombrante… Mi sembra doveroso ricordarlo attraverso questo libro e le parole di Marta e Simone, che ho raggiunto con una videochiamata alcuni giorni fa…

Marta Fieramonti

Leggo testuale sulla terza di copertina: Marta, «cresciuta in una casa di malati di musica». Simone: «Fin da piccolo gli fanno compagnia le storie di un impiegato, il soldato di Samarcanda e il generale dietro la collina…». Come vi è venuta l’idea di scrivere su un personaggio così complesso e pieno di sfaccettature?
Marta: «È vero, i miei genitori hanno sempre frequentato concerti, hanno viaggiato per andare a vedere concerti e io con loro, fin da bambina. Perché Bob Dylan? Innanzitutto perché lo scorso anno ha festeggiato gli 80 anni d’età e i 60 di carriera, e poi perché è nei nostri interessi di studio, visto che ha vinto anche il Premio Nobel per la Letteratura. In Università si è discusso molto su come un musicista possa aver vinto un Nobel per la Letteratura. Secondo me non è così incongruente: l’Arte, in musica o in letteratura, è una cosa indivisa. Da lì abbiamo deciso di approfondire…».
Simone: «Sul Nobel non siamo d’accordissimo! Ci sono brani di Dylan che hanno una forza poetica indubbia. Però, valutando l’artista nell’insieme ci sono molti alti e bassi. Per me la letteratura deve essere un impegno che ti accompagna per tutta la vita. Dylan ha questi slanci di letteratura, si dà all’esplorazione musicale, segue le mode del momento…».

È un artista che non si è mai fermato solo alla musica: ha imboccato tante strade attraverso la musica…
Simone: «Vero, le mie sono solo osservazioni ma non un presa di posizione decisiva. Lo sto studiando ancora…».

Che lavoro fate, collaborate con l’Università, insegnate?
Marta: «Magari! Lavoro con tesi di laurea e insegno in un doposcuola, corsi di lingue. Ho fatto la triennale in lingue e la magistrale in editoria. Con alcuni amici del liceo da una decina d’anni abbiamo attivato un’associazione culturale dove insegniamo».
Simone: «Collaboro con una piccola casa editrice, anche se è davvero faticoso quel mondo. Però insisto, perché è quello che mi piace fare».

Come vi siete conosciuti?
Simone: «Alla facoltà magistrale: ci siamo messi a parlare di musica e abbiamo continuato a farlo! Poi con il doppio compleanno di Dylan ci è venuta l’idea di scriverci sopra. Per cercare di fare una biografia un po’ più… distaccata. Cercando, cioè, di non mettere l’artista sul piedistallo ma nemmeno di affossarlo. Il modo migliore per valutare un artista è attraverso le sue opere, evitando i sensazionalismi della vita privata. Cosa che lui stesso ha sempre tentato di fare. Voleva solo che si leggessero i testi e lo si valutasse per quello che aveva composto. È questo che mi piace di lui».
Marta: «Quando abbiamo deciso di scrivere eravamo molto spaventati. Dovevamo considerare 60 anni di carriera con una produzione enorme, frutto di una mente geniale, di un eclettismo infinito. Abbiamo capito che una biografia poteva lasciarci meno margine di errore: non avendo vissuto quel periodo, se non attraverso le parole dei nostri genitori, rischiavamo di dare un’interpretazione erronea del personaggio. Il format biografico, dunque, si sembrava quello più accessibile per chi, amatore, si sta avvicinando ora al mondo della scrittura dylaniana».

Simone Pitti

Dopo averlo studiato, ascoltato, scritto: che cosa rappresenta Dylan per voi?
Marta: «Un compagno e un esempio di vita. Dare rilevanza all’uomo Dylan, raccontare anche i dieci anni dove non ha più voluto scrivere perché entrato in una crisi profonda nata dal fallimento del suo matrimonio e, nello stesso tempo, prendersi tutto il tempo necessario per rimettere a posto i tasselli della sua vita per poi riuscire a tornare sul palco e riprendersi il successo, dà grande valore alla sua vita artistica e privata. E ancora: normalmente nessuno dà rilevanza al fatto che Dylan abbia avuto una crisi mistica e che per un periodo si sia avvicinato alla religione. Nessuno ricorda che Dylan si è dedicato tanto al teatro, uno dei suoi migliori amici era Allen Ginsberg e la loro vite e le loro arti sono andate di pari passo. Il Never ending tour che ha iniziato giovanissimo e non ha ancora terminato…».
Simone: «La senti? È innamoratissima!».

Siete praticamente figli del nuovo Millennio. Come vedete i lontani anni Sessanta e Settanta, le manifestazioni, le lotte, i Beatles, l’amicizia di Dylan con Harrison, il rock nel suo periodo più espressivo… C’è, oggi, per voi un nuovo Dylan o una nuova stagione di fermento culturale?
Simone: «Per osservare bene un movimento culturale ci vuole un certo orizzonte temporale. Lo potremo dire tra una decina d’anni. Al momento un cantautore come Dylan non c’è, o almeno io non lo vedo».
Marta: «Concordo! Penso che oggi di grandi cantautori ce ne siano veramente pochi. Mi viene in mente Joe Bonamassa, ma non è al livello di Dylan. È pur vero che nessuno ama il proprio tempo, verificheremo più avanti. Esistono realtà che possono essere interessanti. Non li amo, non mi piacciono, ma osserva i Måneskin: sono un gruppo che comunque, a 20 anni, ha deciso di riportare in auge il rock vero. Per quanto possano essere lontani da tematiche che io vivo, hanno deciso di prendere un impegno sociale, parlare di temi delicati e rilevanti come l’anoressia. E, sempre a 20 anni, hanno aperto il concerto dei Rolling Stones, che non è proprio una cosa che fanno tutti quanti. Un interesse per la musica “vera” ancora c’è, ma secondo me i giovani tendono a dire che è una musica vecchia, dunque non meritevole d’ascolto. È inconcepibile: sarebbe come dire non leggo un libro di un autore ottocentesco perché scritto in quel secolo. Prendi i Rolling Stones, sono anziani ma non significa che non abbiano più niente da dire. Nel 2016 sono stati i primi a suonare a Cuba, dopo la storica visita di Obama a La Habana… non hanno chiamato a suonare un quindicenne rapper…».
Simone: «Vabbè, sul palco sbagliano qualche nota, ma glielo si concede…».

La musica, soprattutto per i teenager, oggi è molto “limitata” nei testi. Si parla di ambiti molto personali, ma non si coglie una coscienza sociale…
Marta: «Credo che anche questo sia dovuto al crollo dell’educazione in Italia. Non si sa più scrivere, ma nemmeno più leggere».
Simone: «Non è solo un problema italiano, c’è un individualismo spinto in tutto il mondo occidentale».
Marta: «Nessuno riesce più a mettersi in relazione con la società, come se fossero due entità separate, non c’è la consapevolezza che la cultura, l’arte, i comportamenti li creiamo noi, come società».

Essere Bob Dylan nel 2022 e seguirlo ha ancora un senso?
Marta: «Sì, assolutamente sì! Dovrebbe essere studiato nelle scuole! Ma non soltanto lui… Prendi per esempio un De Andrè…».
Simone: «Ecco, brava, per me non ci sono confronti Anche se De Andrè si è ispirato a Dylan, presentando pure sue cover, lui regna supremo!».
Marta: «Si dovrebbe ridare importanza a questi artisti, approfittare di loro perché possiamo ancora vederli, goderli, ascoltare quello che hanno ancora da dire. Sicuramente Dylan ha perso centralità, anche se per me il suo insegnamento è ancora attuale».
Simone: «Più che centralità ha perso visibilità. Le sue tematiche sono senza tempo, dunque ancora attuali: vedi la lotta al razzismo o lo schierarsi contro ogni tipo di guerra».

I vostri coetanei, amici come hanno valutato il vostro lavoro?
Marta: «Gli amici tutto bene, alla fine uno si circonda di persone che hanno le tue stesse affinità…».
Simone: «Nel nostro gruppo c’è il test d’ingresso: se non conosci Dylan, De Andrè, il rock anni Settanta, meglio rimanere a una bella distanza!».
Marta: «Lo vedo con i ragazzi a cui insegno: ce n’è uno su dieci che conosce Bob Dylan. Quando hanno visto il libro si sono interessati, hanno chiesto, sono stati stimolati…».

Quali sono i vostri ascolti?
Marta: «Venerdì vado a vedere Eric Clapton, il biglietto ce l’ho da prima del Covid! Il 4 giugno sarò a Milano per ascoltare Elton John. Il mio gruppo preferito che ascolto sempre sono i Pink Floyd».
Simone: «Musicalmente parlando siamo in quell’area lì. Qualcosa di “contemporaneo” nei miei ascolti c’è: per esempio, i The Black Keys o Caparezza».

Continuerete questo filone?
Marta: «Sì, avevamo pensato a Lou Reed con i Velvet Underground e a David Bowie. Poi, come gruppi, i Pink Floyd!».
Simone (ride!): «Siamo umili!».

Rock, mostri sacri e il tempo che passa

La notizia l’ho letta ieri sera su Rolling Stone America: Rod Stewart, Kenney Jones e Ron Wood incideranno ancora come Faces, band che nacque nel 1969 e che vide, nel corso degli anni, anche la partecipazione di Mick Hucknall, il rosso dei Simply Red. Qualcuno ricorderà di sicuro l’album e l’omonima canzone Ooh La La del 1973. In quest’occasione Ron Wood ha annunciato anche nuove uscite con i Rolling Stones: con Jagger sta lavorando a tracce inedite per il quarantesimo dell’album Tattoo You che uscirà prossimamente in un cofanetto celebrativo.

Sempre sulla home del sito del magazine americano questa mattina si parla del concerto in streaming di Bob Dylan di domenica scorsa, Shadow Kingdom. Primo show del menestrello ottantenne via etere, fatto che ha destato non pochi dubbi se sia stato davvero stato suonato dal vivo o in playback, sui brani, molti di questi, riproposti dall’artista dopo anni che non li eseguiva più dal vivo ad esempio, What Was It You Wanted?, suonato l’ultima volta nel 1995, e anche sul perché non si sia esibito con la sua classica band e non abbia messo in scaletta alcun brano tratto da Rough and Rowdy Way, suo ultimo lavoro.

Stiamo parlando, come avrete capito, di mostri sacri, del Rock, tutta gente che ormai ha superato i settanta. Gente che continua a fare musica e a prendersi, giustamente, le copertine e le prime pagine dei giornali.

Ciò impone una riflessione, una domanda che ha del misterioso e del cabalistico, che riaffiora di tanto in tanto, quando le “vecchie glorie” ancora in arnese salgono di nuovo sul palco o si chiudono in sala d’incisione: ma il Rock resisterà ed esisterà fino a quando suoneranno i vari  Rolling Stones, Deep Purple, Queen (a tratti), Jimmy Page, Robert Plant, John Paul Jones, Ozzy Osbourne e via elencando?

È una annosa questione questa, che ritorna ciclicamente: il Rock, quel grande Rock, finirà con chi lo ha suonato? Neil Young cantava Rock and Roll can never die… non può finire, eppure… Vabbè, discorsi estivi, chiacchiere da fare sotto l’ombrellone o mentre ti arrampichi su per qualche sentiero in montagna. Io che ho avuto la fortuna di vivere quel grande rock continuo ad ascoltarlo con lo stesso gusto e passione di quando l’ho messo in cuffia la prima volta. Gli artisti di cui sopra sono diventati dei “classici”, siamo abituati ad averli con noi, come se il tempo non passasse mai. Esistono perché “immortali”.

Quel Rock è destinato ad andarsene con loro. Sotto il cappello Rock continuiamo ad aggiungere nuovi artisti e nuovi gruppi. Ma non si tratta di “quel rock”, non lo sarà mai. È un’altra musica, certo nata da quelle radici, interessante ma diversa. E per fortuna, visto che la musica evolve con gli impulsi sociali, la vita che cambia, il mondo che viviamo e quello che stiamo progettando. I vecchi leoni ruggiscono ancora. Approfittiamone!

Buoni ascolti a tutti…

1971, l’anno in cui la musica ha cambiato tutto: da vedere!

Mi sono assaporato 1971, The year that music changed everything, la docuserie di Asif Kapadia trasmessa da Apple Tv+. Racconta, senza tesi né costruzioni, ma con filmati – molti di questi mai visti prima – e testimonianze – mai in camera – un anno determinante per la musica, uno spartiacque tra il prima e il dopo, nel quale si sono concentrati una serie di eventi tragici, dolorosi ma anche spettacolari e dove la musica ha fatto da collante, indicando ai giovani di allora nuove strade, un nuovo mondo possibile.

Ispirato a 1971, Never a Dull Moment, libro uscito nel 2016 del critico inglese David Hepworth, pubblicato in italiano da Sur (collezione BigSur con il titolo 1971, L’anno d’oro del Rock), la docuserie riporta con immagini e tanta musica quello che in sostanza Hepworth sostiene su quel fatidico 1971: «il più febbrile, creativo e lungo anno di quell’epoca».

Infatti, di cose ne sono successe, e tante. Con una premessa simbolica dal punto di vista musicale: il 1971 è stato il primo anno senza i Beatles. Infatti, il capitolo iniziale della serie – è anche il più lungo – si sofferma sull’eredità musicale dei Fab Four, sulla politica degli anni Sessanta e sul perché i Settanta siano stati così dirompenti. Dal punto di vista sociale è stato rappresentato –  e giustamente – raccontando la cronaca dei fatti successi all’università di Ken State nell’Ohio: la morte di quattro studenti e il ferimento di altri nove da parte della Guardia Nazionale, durante le proteste contro la guerra in Vietnam. Neil Young dedicò all’accaduto una canzone, Ohio (famosa l’esibizione live al Massey Hall di Toronto nel 1971, dalla quale ne uscì un disco pubblicato soltanto nel 2007).

In otto capitoli per un totale di sei ore1971 sembra più la cronaca di un decennio che di un anno solo. Negli Usa governava Richard Nixon, la guerra in Vietnam continuava a essere la spina nel fianco per il presidente e l’establishment, il “make love not war” dei figli dei fiori era tramontato, sia in musica sia nei fatti, l’America stava facendo i conti con il Black Power, una radicale presa di coscienza diventata lotta di resistenza degli afroamericani; anche le donne iniziavano a rompere quell’apparente, melenso, status quo che prevedeva il marito al lavoro e le mogli devote, tutte casa e pulizia. In questa rivoluzione c’era pure la sentenza di Charles Manson e delle sue adepte assassine per i fatti di Cielo Branco e l’esperimento della prigione di Stanford: un gruppo di psicologi, diretto dal prof. Philip Zimbardo, simulò la vita in un carcere americano in tutto e per tutto. Il test doveva durare 15 giorni, si concluse dopo appena cinque giorni perché i volontari, studenti che simulavano prigionieri e carcerieri, dettero di matto. Sempre nel ’71 l’Orgoglio Gay iniziava a prendere forme organizzate. In mezzo a tutto questo fermento sociale e politico c’era una maggioranza silenziosa che assisteva attonita alla nascita di una controcultura giovanile che demoliva, come martelli pneumatici, le consolidate fondamenta sociali sia negli States sia in Europa.

E la musica regnava sovrana: uno strumento consapevole di questa rivoluzione che Gil Scott Heron riassunse in un brano storico The Revolution Will Not Be Televised – è anche il titolo del quinto episodio della serie – e nella meno conosciuta No Knock e Sly & the Family Stone con un altrettanto esplicito There’s a Riot Goin’ On. La musica come filo conduttore, catalizzatrice del cambiamento in atto. Ed ecco John Lennon, Bob Dylan e Marvin Gaye che arrivano dagli anni Sessanta con un rinnovato impegno politico: Marvin pubblica nel ’71 What’s Going On, che poi Rolling Stone eleggerà disco rock più bello di tutti i tempi. C’è la coscienza delle ingiustizie sociali, di un mondo inquinato, di un establishment corrotto e arroccato. Vi viene in mente qualcosa? Aretha Franklin raccoglie fondi e paga la cauzione all’attivista per i diritti civili Angela Davis, Bill Whiters irromope con la sua Ain’t No Sunshine

Nella narrazione, a filmati e brani musicali di pregio si alternano spezzoni di televisione dell’epoca, importanti per inquadrare il momento storico: dal reality rivoluzionario An American Family a Soul Train, il primo spettacolo televisivo dove gli afroamericani conquistano quell’affermazione musicale tanto cercata.

C’è un capitolo dedicato anche alla droga, l’eroina che consumava Sly Stone e faceva morire Jim Morrison a Parigi, mentre in una lussuosa villa in Provenza i Rolling Stones, fuggiti dal fisco inglese e poi incappati nella mafia marsigliese per colpa della droga, cercavano di registrare un disco, Exile On Main St., che poi diventerà un caposaldo della loro produzione, in una spirale di eroina, anfetamine e alcool di immani proporzioni. Ne parla sopra le immagini il giornalista di Rolling Stone Robert Greenfield, all’epoca al seguito della corte di Keith Richards e soci.

Si sperimenta tanto perché il ’71 è anche l’anno della tecnologia. Arrivano i primi strumenti elettronici, Pete Townshend degli Who ne viene attratto, li studia e li usa – vedi Baba O’Riley. Mentre Alice Cooper sperimenta un rock “visivo” con performance crude (vedi la sua impiccagione…), Marc Bolan frontman dei T.Rex getta le basi del primo Glam Rock. Un giovane David Bowie studia Cooper e si prepara a diventare il mito frequentando la Factory di Andy Wharol. E poi Lou Reed e Iggy Pop, ma anche, a Berlino, i mitici Kraftwerk

E ancora: la musica che unisce anche chi la pensa in modi opposti, vedi i primi skinheads inglesi e i giovani di origini afro che ascoltavano – e suonavano – il reggae di Bob Marley and The Wailers. Il 1971 vede anche la nascita dei cantautori che si sostituiscono nel gradimento dei giovani alle band, vedi Carol King con Tapestry, Joni Mitchell con Blue, Elton John che fa esplodere il Troubadour di Las Vegas nella sua prima tournée americana, Ike e Tina Turner che, assieme agli Staple Singers e ad altri grandi nomi dell’epoca vengono invitati a esibirsi ad Acca, in Ghana, al Soul to Soul Festival per celebrare il 14esimo anniversario della repubblica. E ancora: George Harrison che, il primo di agosto, organizza al Madison Square Garden di New York il mitico concerto benefico per il Bagladesh…

È necessario vederlo, vi assicuro. Perché, oltre all’importanza storica e anche al legame che unisce quella musica che prendeva forma e quella che verrà negli anni seguenti (non a caso l’immagine finale è quella di Billie Eilish), noterete un parallelo con la situazione attuale. Non per la musica, certo che no! Quello resta un anno irripetibile, ma per i problemi sociali e politici. Negli States gli afroamericani protestano ancora per gli abusi e le violenze, i soldati vengono ritirati dopo 20 anni dall’Afganistan (allora si chiamava Vietnam), l’orgoglio gay è più che mai necessario (guardate in Italia le discussioni e l’iter travagliato per approvare la legge sull’omotransfobia), le donne continuano a lottare per le discriminazioni e le violenze, il pianeta è mezzo moribondo per colpa nostra, la tecnologia ci fa del bene, ma a che prezzo… Paralleli nemmeno troppo nascosti. Speranze, ambizioni, frustrazioni si ripetono. Guardatelo con questi occhi e vi renderete conto dell’immobilità del tempo: sono passati 50 lunghi anni e i problemi sono praticamente gli stessi…

L’assalto a Capitol Hill: era tutto scontato…

Sono passati solo alcuni giorni dall’assalto al Campidoglio da parte dei seguaci di Donald Trump. Scene che mai avremmo pensato di vedere e il cui effetto porta sviluppi quotidiani. There’s a Riot Goin’ On! C’è una rivolta in corso, avrebbero cantato gli Sly & The Family Stone dall’omonimo disco funk/soul del 1971 (bellissimo e da riascoltare). Lì, ovviamente le rivolte riguardavano la nuova musica, il fatto che band e artisti afroamericani stessero raggiungendo vendite di dischi inimmaginabili, la rivendicazione tangibile delle lotte razziali, e del diritto all’uguaglianza a alla libertà… insomma questioni di sostanza, barriere che ancora oggi la società americana non ha risolto e che quegli incendiari untori della democrazia, in azione a Capitol Hill, confermano che è ben lontana dal risolverle.

Le scene del tentato golpe da parte di un presidente in carica – perché di questo si è trattato – più o meno agevolato da uomini delle forze dell’ordine (il che suona ancora più sinistro) dimostra che negli States c’è qualcosa che non va, e da anni. Cantava Bob Dylan quasi mezzo secolo fa in Shelter from the Storme (da Blood On The Trucks, 1975): Now there’s a wall between us, somethin’ there’s been lost/ I took too much for granted, I got my signals crossed/ Just to think that it all began on an uneventful morn (Ora c’è un muro tra di noi, qualcosa è andato perduto. Ho dato troppo per scontato, ho male interpretato i segnali. E pensare che tutto ha avuto inizio in una tranquilla mattina

Ed è proprio qui il punto: come s’è arrivati a tutto questo, quando la “mattina tranquilla” s’è trasformata in un incubo che ha sconvolto l’America? Da portatori di valori democratici, gli Stati Uniti d’America sono diventati in poche ore l’oggetto di scherno di tutti i dittatorelli dal pungo di ferro in giro per il mondo, dalla Turchia, all’Iran, dalla Corea del Nord, alla Russia di Putin. Dove ha fallito la democrazia? Probabilmente nel rifiutarsi di ascoltare o far finta di non vedere, cosa stava cambiando nel tessuto sociale e nel continuare a inseguire quel dio dollaro che è l’unica vera religione praticata in Usa.

Questi segnali di disgregazione democratica li avevano lanciati, guarda caso, molti artisti in anni non sospetti. Chi pratica l’Arte vede dove sta andando il mondo meglio di chiunque altro. Vi ricordate quel film del 1997 di Joe Dante dal titolo La seconda Guerra Civile Americana? Il copione, un politico populista, anti immigrati, che scatena l’ultra destra americana, è lo stesso che abbiamo visto negli ultimi quattro anni di gestione Trump. Esattamente questo. Bruce Springsteen, nel 2017, prima che Trump si insediasse formalmente alla Casa Bianca il 20 gennaio di quell’anno, in alcune interviste espresse i suoi dubbi sull’allora nuovo presidente. La campagna di Trump aveva scatenato «bigottismo, razzismo, intolleranza», sosteneva il Boss, «difficile da sedare ora che lui sarà alla Casa Bianca… Le persone si sentono in diritto di parlare e comportarsi in modi che prima erano considerati antiamericani e non americani… Questo è ciò a cui (Trump) fa appello. E i miei timori sono che queste convinzioni trovino spazio nella società civile». Certo, anche il Boss aveva ragione. Come la jazzista Terri Lyne Carrington che con il suo gruppo, i Social Science, aveva composto un disco, Waiting Game, pensando proprio alle conseguenze dell’elezione di Trump (ascoltate Trapped In the American Dream)…

I’m sick and tired of hearing things,/ From uptight, short sighted, narrow minded hypocrites,/ All I want is the truth,/ Just gimme some truth,/ I’ve had enough of reading things,/ By neurotic, psychotic, pig headed politicians,/ All I want is the truth,/ Just give us the truth… Sono nauseato e stanco di ascoltare parole da ipocriti conservatori, miopi e ottusi. Tutto quello che voglio è la verità. Dammi solo un po’ di verità. Ne ho abbastanza di leggere affermazioni di politici nevrotici, psicotici e testardi. Tutto quello che voglio è la verità. Dacci solo la verità… cantava John Lennon nel 1971 in Gimme Some Truth (dall’album Imagine).

Ed è quello che sta chiedendo buona parte della popolazione americana. Sono convinto che anche i moderati che hanno votato The Donald perché storicamente legati ai repubblicani se lo stiano domandando. L’escalation di quest’uomo livoroso e fuori dalla realtà, che più di qualcuno ha definito criminale nell’atteggiamento, ha portato l’America e il mondo ad assistere a un copione che tutti già conoscevano e in un certo modo si aspettavano, ma che nessuno ha davvero tentato di fermare. Tra le truppe d’assalto nel giorno dell’”epifania” di Joe Biden, oltre allo sciamano Jake Angeli – poi identificato con il suo vero nome, Jacob Chansley, non un provocatore mandato da Biden ma un fervente seguace di Trump – c’era anche un ex tenente colonnello texano dell’Air Force, armato di tutto punto, Larry Rendall Brock, Jr., che, come riporta The New Yorker, ha servito a lungo il suo Paese e, una volta in pensione, s’è radicalizzato grazie ai social, a Trump, alle teorie cospirazioniste di QAnon e, probabilemente, alla rabbia scomposta di Steve Bannon.

Mentre guardavo quelle scene in televisione mi sono venuti in mente i Ramones e il primo brano del loro primo album del 1976, Blitzkrieg Bop, Hey ho, let’s go! Hey ho, let’s go! Hey ho, let’s go! Hey ho, let’s go!, una consona colonna sonora. Ma anche l’inno americano (The Star-Bangled Banner) suonato da Jimi Hendrix al festival di Woodstock nel 1969, trasformato, grazie a una chitarra distorta e gemente, in una protesta contro la guerra in Vietnam. Allora Jimi simulava le bombe che cadevano, le esplosioni, la violenza democratica… quel mercoledì avrebbero potuto scandire le scene dei vetri delle finestre di Capitol Hill che si sbriciolavano sotto i colpi americani e l’arroganza dei trumpisti seduti, gambe sulla scrivania, sulle poltrone di Nancy Pelosi, Speaker della Camera, e di Mike Pence, presidente del Senato.

La ricostruzione su queste macerie fumanti sarà molto dura. Gli spazi e le regole democratiche sono stati violati, e da tempo. Tom Morello, musicista, anche chitarrista dei Rage Against The Machine – a proposito, ascoltate Wake UpWake up! Wake up! Wake up! Wake up! How long? Not long, cause what you reap is what you sow (Svegliati! Svegliati! Svegliati! Svegliati! Per quanto? Non troppo, perché quello che raccogli è quello che semini…) – in un tweet metteva a confronto lo schieramento militare davanti a Capitol Hill durante le manifestazione dei Black Lives Matter, un muro invalicabile, e quello dei trumpisti delusi, quattro poliziotti che hanno aperto i varchi e si son fatti persino i selfie con quelli che Biden ha definito terroristi. Cortocircuito. C’è davvero un cortocircuito. Che deve essere riparato al più presto, se l’America vuole continuare a essere il Paese del possibile.

In attesa dell’anno che verrà…

Frame da “Shame Shame” dei Foo Fighters

E così siamo arrivati agli sgoccioli del 2020. Abbiamo imparato molto da quest’anno bisestile e dirimente. Mai ce lo saremmo aspettati così, lo diciamo ogni giorno. Rimpiangiamo il concetto di libertà, anche se troppo spesso sconfinava nel farsi gli affari propri, ci sentiamo prigionieri degli eventi, incatenati, seppure la catena – permettetemi la citazione d’antan da The Chain (Rumours, 1977) dei Fleetwood Mac, “Chain keep us together/Running in the shadows” – ci tiene uniti, correndo nell’ombra.

Stiamo imparando a vivere in un altro modo, inevitabile costruire il proprio mondo, confortevoli corazze che ci proteggono e ci fanno sentire più sicuri. Una delle mie è la musica. In questi mesi ho ascoltato molto, scoperto artisti e canzoni bellissime, potenti, tristi, rigorose, disegni perfetti di emozioni: le praterie del pentagramma sono infinite, la creatività degli artisti è stata stimolata dal virus, dalla crisi, dal bisogno di connessione reale e non virtuale. Temi che ricorrono, direttamente o indirettamente, in molti testi tradotti in musica, dall’hip hop al jazz, alla dance, al rock, all’elettronica. I found a reason and buried it/ Beneath the mountain of emptiness (ho trovato una ragione e l’ho sepolta/Sotto la montagna della superficialità) cantano i Foo Fighters in Shame Shame, brano tratto da Medicine At Midnight, album in uscita il prossimo 5 febbraio. Si domanda l’israeliana Noga Erez (bravissima!) nella sua You So Done: Joke, joke, did a joke you make me? What’s a queen to a joker, tell me? What’s home to a claustrophobic? What’s a sea to a dead fish? (Scherzo, scherzo, mi hai fatto uno scherzo? Cos’è una regina per un giullare, dimmi? Cos’è la casa per un claustrofobico? Cos’è un mare per un pesce morto?)…

Frame da “You So Done” di Noga Erez

A questo punto dovrei farvi gli auguri. Di cercare di migliorare, tutti insieme, questo mondo così malato. C’è un vecchio brano dei Rancid, gruppo punk rock californiano, Sick Sick World, che a un certo punto dice: It’s a Sick Sick World so what do you do kid?/Come on down, it’s your turn, yeah it’s your turn! È un mondo malato, allora cosa fai ragazzo?/Vieni giù, è il tuo turno, sì è il tuo turno! (da Rancid B Sides and C Sides 2008). 

In questi giorni, però, sono parco di auguri, mi sembrano così fuori luogo e inutili… Forse, oserei una speranza: che la scienza sia con noi! Profetizzare, anche sotto forma di augurio, non porta da nessuna parte, come sostiene Bob Dylan, in False Prophet (da Rough e Rowdy Ways): Can’t remember, when I was born/ And I forgot when I died (Non riesco a ricordare, quando sono nato/E ho dimenticato quando sono morto).

Frame da “What am I” di Jordan MacKampa

Quello che mi sento di dirvi, è che non si perda la speranza di diventare persone migliori, forgiate da perdite e dolori, da ansie e paranoie, illuminate e positive in un viaggio che, prima o poi, finirà. Jordan MacKampa nella sua What am I si pone una domanda ossessiva: So what am I, what am I, what am I/When’s there’s so much to lose now? (Dunque, cosa sono? Cosa sono? Cosa sono? Quando c’è così tanto da perdere adesso?). È una domanda a cui tutti dovremmo dare una risposta…

Venti dischi (più uno) per raccontare un anno particolare/2

Ed eccoci al secondo appuntamento dei dischi che mi hanno accompagnato in questo difficile 2020. Questa “cinquina” contiene dischi impegnativi, alcuni li ho ascoltati decine di volte per capirli; la musica è una lingua che sa essere molto ostica. Bisogna aver la pazienza di scoprirne la chiave di ascolto e lettura giusta. Mi è successo per Moses Sumney e il suo Græ o lo splendido Not our First Goat Rodeo di Yo-Yo Ma, Stuart Duncan, Edgar Meyer e Chris Thile.

6 – Not our First Goat Rodeo – Yo-Yo Ma, Stuart Duncan, Edgar Meyer & Chris Thile (uscito l’1 maggio)
Iniziamo proprio da questo disco. Come potrei definirlo? Musica classica, sì ma… Country, certamente, ma…, alternativa jazz, ci sta, anche se…, contemporanea folk, possibile definizione eppure… Alla fine, dopo averlo ascoltato e riascoltato (le dissonanze ricercate e voluttuose sono come il canto delle sirene per Ulisse, ti attirano e ammaliano) ho deciso di non definirlo se non come: un gran bell’album, un prodotto perfetto che solo grandi musicisti come il violoncellista Yo-Yo Ma (francese di nascita, figlio di cinesi americani), Stuart Duncan, qui al violino, Edgar Meyer, al contrabbasso e Chris Thile (si pronuncia Tili), cantante e mandolinista, potevano creare. Strumenti che si richiamano, dissonanze volute, archi e corde che sembrano suonare una partitura diversa dall’altra ma che alla fine si riuniscono in un ensemble logico e coerente. Il disco segue quello pubblicato una decina d’anni fa The Goat Rodeo Sessions. Bellissima The Trappings, dove alla “band” si unisce la cantante Aoife O’ Donovan, in duetto con Stuart ed Edgar, che ricorda i  primi Crosby, Stills & Nash. Il canto diventa uno strumento coerente. Allegria, voglia di danzare, richiamo di giornate assolate e praterie sterminate…

7 – GræMoses Sumney (uscito il 15 maggio)
Chi è Moses Sumney? Me lo sono chiesto più volte ascoltando il suo nuovo lavoro. Il precedente, dal titolo Aromanticism, era molto eloquente su come il ventinovenne californiano nato da genitori ghanesi, concepisce la vita. Græ, disco doppio, è uscito in pieno lockdown a febbraio e a maggio. Ed è un album che in qualche modo ha a che fare con il coronavirus e la quarantena. Insula, parlato, prologo del lavoro, definisce l’isola fisica ma anche, in doppia rilettura, quella mentale. Da qui parte il suo viaggio psichedelico fatto di strumenti “fisici” e tanta elettronica che usa in modo naturale. Oltre che un musicista, Moses è un grande performer, uno che sembra nato sul palco. Ha presenza, cattura, esperimenta, provoca, definisce. La sensazione all’ascolto è di un’opera fatta per riempire la tua isola e farti vedere il mondo intorno. L’a-romantico Moses diventa estremamente romantico in Polly, brano con video annesso da manuale. Ne avevo parlato il 18 maggio scorso in questo post. Brillante ed energizzante…

8 – ContemporaneoClaudio Sanfilippo (uscito il 22 maggio)
Ecco un disco che rende giustizia a un periodo della mia vita, quello del cantautorato, da Dalla a De Gregori, Da Guccini a Sanfilippo, appunto. Milanese, 60 anni, oltre che cantautore è scrittore, poeta, comunicatore… “Personaggio eclettico che di musica e versi non può proprio farne a meno”, lo presentavo il 21 ottobre scorso in un’intervista. L’album è l’effetto del lockdown, effetto benefico, perché Sanfilippo ha fatto di necessità virtù, riprendendo vecchi brani, alcuni mai pubblicati, componendone di nuovi, ragionando sulla vita. Riflessioni utili, almeno per me. E anche per Claudio a ben ascoltare, visto che le 14 tracce che compongono questo disco non sono solo canzoni ma “canzoni d’autore”, come lui stesso chiede sia definito il suo lavoro. Ragazze del Lago, El Pepe e Angelina sono le mie preferite, le potrei far girare all’infinito…

9 – Rough and Rowdy WaysBob Dylan (uscito il 19 giugno)
Il 30 marzo scorso – e rieccoci ancora lì in quel benedetto lockdown – usciva una canzone, così, apparentemente a caso. Ma non potevi ignorarla, per la sua semplice bellezza e per l’autore, quel Bob Dylan che a 79 anni è tornato più vivace e motivato che mai. Era Murder Most Foul. Nel post che avevo scritto quel giorno, chiudevo con questa considerazione: «Una musica che fa riflettere, a prescindere, che ti aiuta, chiuso nel tuo studiolo di casa, o seduto sul divano a guardare il mondo là fuori che sembra passi tutto uguale, tutti seduti nelle nostre personali panchine solitarie. Un’opportunità per guardarci dentro, per essere schietti con noi stessi, su cosa siamo oggi e sui nostri piccoli Murder Most Foul che riponiamo dentro di noi senza avere il coraggio di gridarli al vento… Passerà, passerà, grazie anche a lui e alla musica…». Poi, come un’altra goccia preziosa, arriva I Contain Multitudes ad aprile e l’annuncio dell’uscita del disco. Ed eccolo qui, ruvido, blues, tagliato con l’accetta, sentimentale senza smancerie, bello. Vi lascio con Goodbye Jimmy Reed

10 – Mi ero perso il cuoreCristiano Godano (uscito il 26 giugno)
Il primo lavoro da solista del leader dei Marlene Kuntz mi ha incuriosito assai. A partire dal titolo. Lui, Cristiano Godano lo ha definito «una collezione di canzoni che raccontano i demoni della mente». Parte forte Cristiano, con un brano, La mia Vincita, che ricorda atmosfere alla Dylan, di cui sopra. Poi prosegue con testi attenti e sonorità ricercate. Mi ascolto spesso Lamento del depresso ma anche Padre e Figlio e la seguente Figlio e Padre, gioco voluto e molto intimo di punti di vista. Sì, mi piace proprio Mi ero perso il cuore. A proposito di canzoni d’arte…

Interviste/ Claudio Sanfilippo e la sua canzone d’Arte

Claudio Sanfilippo – Foto Lorenzo De Simone

Provenendo dagli anni Settanta, oltre a bigoi in salsa, birramedia e rock, da adolescente sono cresciuto anche a soppressa, vinrosso e cantautori, quel particolare e molto personale genere che noi italiani abbiamo esercitato in maniera egregia per oltre un ventennio. Forse, meglio ancora dei nostri cugini francesi, concentrati su storie malinconiche, chansonnier dalla voce profonda e impostata, come Jacques Brel e Leo Ferré, che raccontavano di passioni e nostalgie, mettendo in musica veri e propri romanzi.

«Noi cantautori italiani siamo da sempre più inclini alla poesia, una questione culturale». Incontro via whatsapp – per esigenze di tempi e lavoro – Claudio Sanfilippo, milanese, 60 anni, cantautore, scrittore, poeta, comunicatore… Insomma, personaggio eclettico che di musica e versi non può proprio farne a meno.

Ascoltatevi l’ultimo suo lavoro, nato e stimolato dal lockdown, dal titolo Contemporaneo. Quattordici brani, alcuni scritti di getto, altri tenuti nel cassetto e rielaborati, un paio presi a prestito da due mostri sacri della musica e rivisti… «Mi sono fermato a 14 perché me lo sono imposto, ma avrei continuato a scrivere e comporre», precisa rollandosi una sigaretta e guardandomi dritto in camera.

Claudio ti ho cercato perché, parlando di musica, non posso tralasciare il capitolo “cantautori”, genere che ha plasmato più di una generazione. Come definiresti oggi la canzone d’autore?
«Difficile e lunga risposta. Ho iniziato ad avvicinarmi alla musica e a suonare negli anni Settanta quando la canzone d’autore era nella sua massima espressione. C’erano grandi protagonisti, c’era una scuola importante. Lucio Dalla e Francesco De Gregori riempivano gli stadi, c’erano Pino Daniele e Francesco Guccini. Artisti molto diversi tra loro per musica e testi, ma che, comunque, stavano tutti sotto lo stesso cappello, quello della canzone d’autore, appunto. Le cose sono radicalmente cambiate con l’avvento dell’Mp3 e la conseguente fine dei dischi e dei Cd, supporti fisici. Il valore che davi prima lo testimoniavi con l’acquisto del disco, dal desiderarlo perché, di fatto, premiavi il lavoro e il percorso di un artista. Con l’Mp3 la musica è stata sdoganata come un prodotto praticamente gratuito».

Si è passati anche a una musica di più facile presa
«La canzone d’autore non è mai stata musica di consumo. Detto ciò, abbiamo assistito a un progressivo scadimento della proposta musicale, di quei generi che puntavano alla qualità e all’autenticità».

Claudio Sanfilippo – Foto Lorenzo De Simone

Più che canzone d’autore ami definirla canzone d’Arte…
«Non vorrei apparire un “trombone”, ma sì, credo che sia la definizione più corretta di quello che faccio. Nel senso più semplice del termine, una musica d’artigianato, dove tutto è fatto e pensato dall’artista, come un dipinto o una scultura. Canzone d’Arte perché – e qui sta la differenza con gli altri generi – si scrive e si compone senza avere un legame con il mercato, perché cerca una cifra stilistica che piaccia, innanzitutto, all’autore. Con Contemporaneo ho ricevuto recensioni molto buone dai critici musicali, mi ha fatto molto piacere, ma queste, oggi, non valgono granché se non per una soddisfazione professionale».

Anche la critica musicale è in crisi?
«Sì, perché non è più il baricentro, quel filtro che guardava all’effettivo valore del lavoro e dell’artista, nel bene e nel male. I critici facevano sì che certe proposte non potessero avere accesso al mondo della musica ascoltata, guardavano alla sostanza. Oggi succede l’opposto».

Capita anche nell’editoria… tu ne sai qualcosa, visto che sei anche uno scrittore, e hai pubblicato diversi libri.
«Il discorso qui è un po’ diverso: i libri, forti delle esperienze musicali, hanno tenuto botta. Nel mondo dell’editoria c’è ancora gente più competente rispetto a quello discografico, dove il livello è sceso in una decrescita costante. Non si richiedono più competenze musicali ma di marketing. Pensa solo al concetto di “radio libera”. Oggi fa sinceramente sorridere…».

Tornando alla canzone d’autore…
«È l’espressione migliore della musica italiana dopo la canzone napoletana. Da Modugno in poi, passando per Tenco, De Andrè e via elencando. Una scuola valida quanto quella degli chansonnier francesi. L’Italia è un Paese di poeti, la Francia, di romanzieri, qui sta la vera differenza tra le due anime».

Veniamo a Contemporaneo: dentro c’è bossa nova, americana, cantautorato più puro. E poi… c’è la bella El Pepe. Insomma, oltre che musicista, poeta e scrittore tu sei anche un grande esperto di calcio e un tifoso del Milan…
« (Ride, n.d.r.). Con El Pepe, il mitico uruguaiano di origini italiane Juan Alberto Schiaffino, uno dei calciatori più dotati di tutti i tempi, volevo celebrare il calcio ma soprattutto ricordare mio padre. Per lui El Pepe era il più grande, quando lo si nominava gli si illuminavano gli occhi. Il testo l’ho scritto a quattro mani con il mio amico Gino Cervi».

Il lockdown è stato il “responsabile” del tuo disco?
« (Finisce di rollarsi l’ennesima sigaretta, n.d.r.) In quei giorni mi aggiravo per casa facendo telefonate di lavoro, poi mi è caduto l’occhio su un testo che avevo scritto lo scorso anno e di cui me ne ero completamente scordato. Era Contemporaneo, brano che poi ha dato il titolo al disco uscito a metà maggio. Parlava di un mondo “post tutto”, molto attuale per la situazione che stiamo vivendo. Per la prima volta ho scritto una canzone “politica”. L’ho pubblicata in aprile. Doveva essere parte di una sorta di Q-disc (oggi si chiamerebbe EP, n.d.r.). Ho cominciato a incidere tre, quattro brani, chiedendo l’aiuto, ognuno a casa propria, di amici musicisti (Danilo Boggini, Max De Bernardi, Claudio Farinone, Rino Garzia, Massimo Gatti, Domenico Lopez, Danilo Minotti, Cesare Picco, Francesco Saverio Porciello, Marco Ricci, Val Bonetti, Umberto Tenaglia, oltre ai figli di Claudio, Emma e Giacomo, quest’ultimo autore anche della bella copertina, n.d.r.). Ero entrato in una specie di bolla, una “fregola” durata una quindicina di giorni. Alla fine mi son fermato a 14 brani, ma ne avrei scritti molti altri. Tutto è stato registrato a casa, da me».

Ci sono anche due pezzi tratti da canzoni di due mostri sacri, Nick Drake e Bob Dylan…
«Un paio d’anni fa avevo adattato Northern Sky di Nick Drake in italiano (Cieli del Nord), costruendo un arrangiamento per chitarra in accordatura aperta. Ho chiamato Cesare Picco, musicista che conosco da una vita, fin da quando, lui ventenne, io trentenne, suonava il pianoforte (già allora, meravigliosamente bene) di casa mia, nelle serate indimenticabili del “tempo dell’adunanza”. Trattasi di “pianoforte visionario”. Quanto a Dylan il discorso è diverso. Nel cassetto ho 26 sue canzoni che ho tradotto in italiano. Nessuna, è pura coincidenza, appartiene a quelle che Francesco De Gregori ha usato per il suo album (De Gregori canta Bob Dylan – Amore e Furto, 2015, n.d.r.). Ho un progetto: realizzare un doppio album scegliendo canzoni poco conosciute. Oltre la montagna è la rivisitazione di Cross the Green Mountain, brano scritto per il film Gods and Generals sulla guerra civile americana, del 2003».

L’anno scorso hai confezionato anche un altro gran bel disco, molto intimista, chitarra e voce, Boxe. E qui c’è anche lo zampino di un altro straordinario musicista e producer, Rinaldo Donati, artista che ho intervistato qualche mese fa…
«Tutto è nato proprio dalle serate che s’era inventato Rinaldo nel suo studio, i “Maxine Live”. La puntata numero zero l’ha fatta con me. Doveva servire a provare una chitarra classica baritono fatta apposta per me da Fabio Zontini, liutaio di Gorra (Savona). Le canzoni, 14, le avevo scelte tra quelle composte tra il 1981 e il 2017. Da lì è nato il tutto, registrato in due pomeriggi alla Maxine Production. Un instant album registrato in poche ore, un mio piccolo manifesto personale, nella più pura canzone d’autore – che sta in piedi con voce e chitarra – completamente fuori tempo, doveva essere pubblicato 30, 40 anni fa. È una testimonianza, e per questo l’ho voluta incidere solo su cd e, da qualche settimana, su vinile. Non esiste in streaming, la voglio preservare in “dimensione pura”».

Claudio Sanfilippo – Foto Lorenzo De Simone

Se non sbaglio hai altri progetti oltre al “Dylan Album”.
«Sì altri due. Il primo è ILZENDELSWING, progetto che sto portando avanti con amici musicisti da alcuni anni (brani swing cantati in milanese, n.d.r.) che dovrebbe vedere un album nel 2021 dal titolo Americana. Il secondo, ispirato da un libro di Giorgio Terruzzi pubblicato nel 2004, Fondocorsa. Mille Miglia, una vita e un gatto, un episodio romanzato nella vita di Alberto Ascari, grande pilota. Ho scritto otto canzoni, tutte intorno a questo mondo, dove si parla di velocità, morte e scaramanzia. Tre concetti fondamentali. Se l’album Automobili di Lucio Dalla (1976, n.d.r.) narrava storie ed emozioni vissute dall’esterno, quello che sto cercando di fare è trasmettere le stesse emozioni viste dai protagonisti. Lui estroverso, io introverso».

Canti anche in milanese. In Contemporaneo c’è Viandant
«Le mie produzioni musicali sono sempre state in italiano e in milanese, mi sono sempre diviso tra blues acustico e swing. Sono sempre stato bipolare (ride, n.d.r.). I dischi che mi porterei nella famosa isola deserta sono Amoroso di João Gilberto e Blood on the Tracks di Bob Dylan. Due lavori che non hanno nulla a che vedere uno con l’altro. Bipolare, appunto!».

Ultima domanda, giuro! Cosa ascolta Claudio Sanfilippo?
«Sono sempre stato onnivoro. Da giovane sono stato travolto dalle passioni, jazz e Bossa Nova, da Chico Buarque e Tom Jobim. Ascoltavo anche rock e musica classica, avevo l’abbonamento ai pomeriggi musicali del Conservatorio di Milano. Ultimamente sto tornando ad ascoltare musica classica, le mie vecchi passioni, Chopin e Mahler. Mi piace il jazz del chitarrista norvegese Terje Rypdal, un grande, e il bluegrass – swing del chitarrista Tony Rice».

Festa della Musica, con un po’ d’amaro in bocca

Oggi, primo giorno d’estate, dovremmo essere tutti felici, giù per le strade a celebrare la Festa della Musica. Da quando è nata in Francia, nel 1982, legata al solstizio d’estate, sotto l’egida di Jack Lang, allora Ministro della Cultura, nel corso degli anni s’è diffusa in tutto il mondo. Nell’intento degli organizzatori c’è l’idea di sempre: portare la musica, qualunque essa sia, gratuitamente per le strade, per regalare e condividere le gioie del pentagramma.

Dove c’è musica, c’è vita, ci sono emozioni. E fino a qui ci siamo. E non sarò certo io a rovinare nel mio piccolo questo bell’appuntamento. Anche perché quest’anno la Fête de la Musique ha un’altra valenza, è una sorta di 25 aprile, una liberazione da un inverno/primavera d’oppressione, duro da dimenticare. Le abbiamo vissute tutte, i flash mob, gli applausi (meritati) ai medici e infermieri, le session di musica e canto dai balconi, piccoli palchi monouso, gli streaming di artisti più o meno famosi. Ora che proprio liberi non siamo, visto che l’invisibile tiranno ancora incombe anche se con molta meno furia, avere a disposizione una giornata dove divertirsi è un imperativo assoluto.

Paolo Fresu stasera dalle 20 sarà in diretta streaming dal sito della Festa della Musica e su quello della Rappresentanza Italiana della Commissione europea dal parco Valle dei Templi di Agrigento per una notte di festa e di ricordo, in onore di Ezio Bosso, dal titolo Altissima Luce – Laudario da Cortona, concerto jazz con incursioni classiche insieme con il bandeonista Daniele Bonaventura. Con loro, il contrabbassista Marco Bardoscia, il batterista Michele Rabbia e l’Orchestra da Camera di Perugia. Il mitico trombettista dice parole sante: «In un periodo in cui eravamo tutti confinati nelle nostre case per via di un nemico invisibile, la musica ci ha permesso di affacciarci alla finestra e di sentirci per un po’ liberati. Oggi più che mai la musica è di tutti. La musica dovrebbe essere nelle nostre case, nei nostri cuori, nelle nostre vite. Tutti i giorni. Tutti dovrebbero essere in grado di leggere una partitura perché la musica è condivisione, è capacità di tendere la mano verso il prossimo».

Sarà l’ultimo disco in cuffia – Rough and Rowdy Ways, di Bob Dylan uscito un paio di giorni fa – con le sue ballate blues intrise di ricordi ed emozioni, sarà che non ho ancora digerito questo 2020 bisestile (pizzico necessario di superstizione), ma io vorrei che questa giornata di gioia, canto e note si trasformasse anche in un impegno: festeggiamola pure la musica ma senza dimenticarci di chi la musica la fa e con la musica ci vive.

Mi sono preso a cuore una piccola, grande battaglia. Grazie a questa, ho conosciuto persone splendide, tutte maestranze dello spettacolo. Figure necessarie per diffondere la musica, dalla festa di paese al mega concerto nello stadio San Siro, per intenderci. Per mesi non hanno visto un euro, tutti “tengono” famiglia. Invece di aspettare passivamente gli eventi stanno lavorando per loro stessi, cercando di far conoscere l’altra faccia dello spettacolo, quella invisibile ai più, ma preziosa tanto quanto il frontman idolatrato che suona davanti a migliaia di spettatori.

Lo spettacolo deve continuare, e continuerà. Il problema sarà: come? Come si entrerà in un teatro o in un’arena al di là delle disposizioni dei decreti governativi, come verranno fatti i contratti per turnisti, star, fonici di palco, fonici di sala, addetti alle luci, mediaserver, scaff, rigger… e l’elenco è ancora lungo. Rolling Stone, edizione americana, un paio di giorni fa ha sganciato una piccola bomba: in poche parole, Live Nation, la più grossa azienda organizzatrice di eventi dal vivo in Usa, complice la pandemia e la crisi economica conseguente, vorrebbe trasferire il rischio d’impresa sugli artisti. Qualche esempio? Se un concerto viene cancellato per la scarsa vendita di biglietti, l’azienda rifonderà gli artisti, a titolo di garanzia, il ​​25% del cachet concordato (invece del 100 per cento che i promotori sono tenuti a pagare). E ancora: se un artista annulla un’esibizione in violazione dell’accordo, questi dovrà rifondere il promotore con una somma pari al doppio del suo compenso, penalità, come ha fatto notare la rivista musicale Billboard, senza precedenti nel settore della musica dal vivo. Così potremo dire addio a una bella fetta di concerti e, tornando alle maestranze dello spettacolo, assisteremo a una falciata trasversale…

Sarà il caso che tutti, dalle rockstar che protestano con l’hashtag #iolavoroconlamusica, ai tecnici che chiedono solidarietà e lavoro, agli organizzatori che cercano in tutti i modi – e come negarlo! – di fare profitto, si uniscano per pensare a un imminente futuro di rilancio della musica in tutti i suoi aspetti. Se quel giorno arriverà avremo una speranza. E anche una ricorrenza da celebrare: un evviva alla festa della musica…