Sanremo, Mauro Ottolini, l’Ottovolante e… “Il Mangiadischi”

Mauro Ottolini con Vanessa Tagliabue Yorke e l’Orchestra Ottovolante

È iniziato Sanremo! In buona compagnia con San Valentino, caratterizza questo febbraio graziato da un sole tiepido che annuncia l’affacciarsi di una Primavera precoce. I due “santi” hanno in comune un bel marketing oliato, il buonismo delle migliori occasioni e i cuoricini pulsanti sui social.

Lo state vedendo? (che domanda!). La musica, as usual, è un pretesto per mettere in scena uno show generalista. Un classico, saporito ragù come quello che faceva mia mamma, preparato con tutti i crismi, soffritto di cipolla, carote, sedano, tre tipi diversi di carne, aggiunta di un paio di chiodi di garofano, pomodori freschi, sale e pepe quanto basta…

A Sanremo non conta necessariamente saper cantare o conoscere la musica e nemmeno essere dotati di un guizzo armonico meno scontato. Delle 25 canzoni in concorso, ne ho annotate tre, quelle di Elisa, di Giovanni Truppi e dei siciliani La Rappresentante di Lista

Noia… ho detto noia, non gioia, per dirla alla Franco Califano…

Pensando a un Festival della canzone italiana diverso, meno scontato, ho approfittato dell’uscita recente di un doppio cd, Il Mangiadischi, firmato da Mauro Ottolini e dalla sua Orchestra Ottovolante, per un divertissement in parallelo con la kermesse ligure. Ventuno brani che ripercorrono la storia di un grande periodo della canzone italiana, tra i Cinquanta e i Sessanta del secolo scorso, con alcune escursioni addirittura negli anni Trenta e Quaranta.

Un ripasso doveroso della cultura musicale dell’epoca, tra ritmi per lo più latini, cavalcate swing, merengue e mambo a manetta, fiati che pompano come se non ci fosse un domani, scanditi dalle percussioni dell’ottimo Simone Padovani, un extra-Ottovolante che marca il ritmo latino dell’orchestra! Il bello – e attuale – della faccenda è che molte di queste canzoni hanno fatto la storia di Sanremo quando era “soltanto” un semplice Festival di musica e la costruzione dei brani era studiata con l’intento di lasciare ai posteri qualcosa, se non di “infinito”, almeno di lunga durata.

C’è Grazie dei Fior, cantata magistralmente da un’altra ospite dell’Orchestra incredibilmente brava, Vanessa Tagliabue Yorke; Mi va di Cantare, brano portato da Louis Armstrong al Festival nel 1968 assieme a Lara Saint Paul (su 14 canzoni in gara, arrivò penultimo…), con la voce dello stesso Ottolini in versione Louis… E ancora, Il tuo bacio è come il Rock, di Celentano; Tu vuo’ fa l’Americano di Renato Carosone; Consoci mia cugina del torinese Ernesto Bonino, swing di fine anni Quaranta; Mia cara Venezia, Il Dritto di Chicago e Sì sì papà di Fred Buscaglione, quest’ultima la interpretava Fatima Robin’s; Nebbia di Caterinetta Lescano, anno domini 1941… I brani si susseguono con gli interventi del trombettista Fabrizio Bosso e del pianista Stefano Zavattoni, in un coinvolgente mondo armonico senza tempo dove c’è un solo punto fermo: suonare buona musica e farlo al meglio. Un lavoro tutto registrato dal vivo, per questo ancora più coinvolgente…

E così… mi sono preparato il mio Festival di Sanremo Alternativo mettendo in gara i 21 brani de Il Mangiadischi. Unico spettatore, seduto comodo comodo sul divano, volume in cuffia per non esser linciato dal resto della famiglia e dai vicini, un bicchiere di Rum, qualche quadretto di cioccolato fondente… In questo personale Sanremo atemporale ho previsto anche la giuria, anzi, Il giurato. Lo ammetto, uno un po’ di parte: è lo stesso Mauro Ottolini, in grande spolvero, pronto a raccontarmi il disco e, quindi, a votare il vincitore del mio Personal Festival.

Con il musicista veronese sono andato a colpo sicuro a prescindere: conosce bene la macchina di Sanremo – quello vero – per aver collaborato con alcuni cantanti saliti sul palco dell’Ariston, uno per tutti, Rafael Gualazzi…

Mauro, eccoci. Mi sono stancato delle canzoni di Sanremo…
«Dammi retta, visto che anche noi ne stiamo parlando vuol dire che la manifestazione ha comunque raggiunto il suo scopo. Il suo successo sta proprio nel catalizzare l’attenzione».

Ok, ma… possibile che – parlando sempre di musica – l’encefalogramma del festival sia praticamente piatto?
«Ricordati che il Festival va di pari passo con la cultura, lo sviluppo e i gusti delle persone».

Quindi, l’ascolto attuale s’è livellato su una musica di facile presa?
«Ripassa la storia della manifestazione: Sanremo è nato come un vero Festival, cioè come un contenitore nel quale doveva esserci il meglio del meglio della canzone italiana di quel periodo. Oggi si è inesorabilmente adattato a un pubblico digitale, dove tutto deve essere veloce, arrivare subito, non deve far riflettere perché non c’è tempo né voglia di pensare… Un pubblico a cui la canzone deve subito piacere, dunque».

Certo, a Sanremo non va la musica d’avanguardia perché sarebbe un flop, ma almeno un po’ di sostanza…
«L’eccellenza, la sperimentazione sono visti come un rischio. Comandano gli affari e non la cultura, ma per questo non incolpo gli artisti. Ripeto, in un mondo dove tutto è veloce, superficiale sono sufficienti personaggi alla Achille Lauro che non sanno cantare, né suonare, né parlare… Sono personaggi utili al momento, costruiti per uno show che deve essere confortante. In questo comfort ci stanno anche le pseudo-provocazioni, ma coloro che hanno provocato veramente, per andare indietro nel tempo, l’hanno pagata… ricordo Xavier Cugat e la moglie Abbe Lane, attrice e cantante americana, donna tutta sensualità e décolleté, considerata troppo scandalosa per i censori della Rai, che la tagliarono».

La struttura dei brani è cambiata di conseguenza
«Di solito le canzoni avevano una introduzione suonata più o meno lunga, serviva a preparare l’ingresso della voce. Ora il cantato arriva subito e così anche l’inciso, formula che, comunque, vale per tutto il mondo pop! Sono scomparse le grandi melodie. Pensa a Il Cielo di Renato Zero, ai brani di Mia Martini, per me l’Aretha Franklin italiana, a Riccardo Cocciante, Luigi Tenco, Umberto Bindi, che cantò anche con Chet Baker, Domenico Modugno… Ma quanti ne abbiamo avuti!».

Mauro Ottolini – Foto Roberto Cifarelli

Perché un doppio disco su una musica lontana anni luce da oggi?
«Mi piace molto lavorare su questo genere di brani e anche sul jazz anni Venti. Sulle 21 tracce dell’album ho cercato di proporre arrangiamenti innovativi. Le introduzioni, ad esempio, sono sviluppate in maniera certosina. Ho inserito delle sorprese, dei cambi di tonalità e ritmo come in Grazie dei Fior (cantata da Nilla Pizzi che vinse, nel 1951, la prima edizione del Festival di Sanremo, allora al Salone delle Feste del Casinò della città ligure, ndr).

Non vorrei fare l’antipatico e il pensionato disfattista seduto in panchina ai giardinetti di quartiere, ma… non ci sono più le canzoni di una volta!
«Mi faccio spesso una domanda: nella musica c’è stata un’evoluzione, nel bene o nel male? La mia risposta è che semplicemente la musica si adatta alla società. Alla fine della Seconda guerra mondiale, quando si iniziò a ricostruire, c’era una voglia di fare enorme che portò al benessere degli anni Sessanta. Una crescita economica a cui è corrisposta anche una crescita culturale. Quando c’è fermento sociale anche l’arte è sublime. Nel periodo attuale non c’è quella spinta a migliorare e i livelli si sono abbassati vertiginosamente. La musica richiede passione, conoscenza, sviluppo, bisogna avere voglia di studiarla».

Il discorso vale anche per chi la ascolta: ci si “accomoda” su facili canoni espressivi, evitando complessità sonore perché non si hanno gli strumenti per capirle…
«Io stesso ho apprezzato certi dischi dopo averne ascoltati altri. Prendi ad esempio il Quartetto Cetra: lì c’era divertimento, c’erano arrangiamenti incredibili, studio dell’impostazione della voce, altissimi livelli musicali».

A proposito di canto: ma sei tu la voce maschile nel disco?
«Ebbene sì sono io! Ti confesso che all’inizio, da adolescente quando formavamo i primi gruppi per suonare, io facevo il cantante. Sarà per questo che amo la musica e la canzone italiana…».

Ottima l’imitazione della voce di Louis Armstrong!
«Basta fumarsi un pacchetto di sigarette al giorno e bere una generosa dose di whisky…».

Tra le 21 in gara c’è anche una versione di Brava della mitica Mina (1965) cantata da Vanessa Tagliabue Yorke…
«(ride, ndr) Ho voluto inserirla nel disco perché nasce da uno scherzo che mi ha fatto Vanessa. Non voleva cantare Brava, la sua erre moscia, sosteneva, glielo impediva. Alle prove mi ha fatto una sorpresa: invece del testo originale cantato da Mina, ne ha scritto uno alternativo, dove ironizzava sulla sua pronuncia. Un pezzo intelligente! Abbiamo chiesto alla casa editrice che detiene i diritti di Bruno Canfora, l’autore, di inciderla così, ma non ci è stato autorizzato. Ormai avevo già pronto l’arrangiamento, una settimana di lavoro. E dunque, eccola qua!».

Un brano fantastico, potrebbe essere lui il vincitore, che ne dici Giurato Unico?
«Potrebbe ma…».

Vabbè, andiamo oltre. L’Orchestra Ottovolante se non sbaglio quest’anno festeggia un bel traguardo?
«Facciamo i vent’anni di attività insieme. Nella formazione base siamo in undici elementi. In aggiunta c’è Vanessa. Su Mambo 5 c’è l’incredibile Vincenzo Vasi, che suona un numero indefinito di strumenti giocattolo».

Mauro, dobbiamo chiudere, mica aspettiamo sabato! Deciditi! Devi scegliere la canzone vincitrice del primo Festival di Sanremo Alternativo Il Mangiadischi, sennò mi devo far fuori la bottiglia di Rum e il cioccolato l’ho finito…
«Sono tutti grandi brani, hanno arrangiamenti frizzanti. Però, uhmm, beh… a una ci sono davvero affezionato, sì mi piace proprio… credo che…».

E dai, non farmi stare sulle spine, non abbiamo interruzioni pubblicitarie!
«Ok ok. Il vincitore della prima edizione del Sanremo Alternativo Il Mangiadischi con un voto su uno è… Nebbia, di Caterinetta Lescano, arrangiamento di Pippo Barzizza, cantato da Vanessa Tagliabue Yorke, arrangiamento di Mauro Ottolini. È un gran brano; il genovese Barzizza era un compositore del livello di Armando Trovajoli ed Ennio Morricone. Ha una poetica pazzesca, un testo magnifico!».

Noi la finiamo qui, sotto una liberatrice e purificatrice pioggia di note swing in Conosci Mia Cugina e Tu vuo’ fa l’americano. Fiati in crescendo, musica a bomba, irrefrenabile, afrori coloniali, corpi che roteano… Che festival, gente! Whisky’n’soda’n’rock’n’rollWhisky’n’soda’n’rock’n’roll…

Interviste: Davide Zilli e il suo swing da… psicanalisi

Davide Zilli – Foto Laila Pozzo

Continua il mio viaggio tra i cantautori italiani, ne troverete altri in questo 2022. Questo volta vi parlo di Davide Zilli, 44 anni, piacentino di nascita ora a Parma. Un diploma al Conservatorio di Milano in pianoforte, una laurea in lettere a Pavia e una carriera divisa tra insegnamento e musica. Di mattina è professore di lettere e storia, la sera un musicista (con predilezione per jazz e swing), cantautore graffiante e divertente.

Il 21 gennaio scorso ha pubblicato, a sette anni dal suo ultimo lavoro, Il Congiuntivo se ne va, Psicanaliswing, otto brani scanditi da swing, pop e anche “liscio” con la Mirko Casadei Orchestra (ne Il Complottista). Insomma un lavoro intrigante quanto basta per ascoltarlo. Garantisco che non riuscirete a stare fermi, verrete colti da una voglia irrefrenabile di ballare, nella migliore teoria di Gianluca Tramontana, musicista e giornalista newyorkese d’adozione che, parlando del Changuï cubano, mi disse: «La musica è fatta per ballare, se ti fa muovere anche solo un piede, vuol dire che ha raggiunto il suo scopo». Oltre a quella di Casadei ci sono le collaborazioni di Paolo Rossi ne L’Amico Ricco, e delle Sorelle Marinetti in Psicanaliswing, canzone che apre il disco omonimo.

Otto fotografie che parlano delle paure che divorano come un virus l’italiano medio. Cantautorato, swing e anche Cabaret… C’è chi va in analisi per restarci una vita e chi ha il terrore dell’aereo (Icaro qua, Icaro là: Quanto Modugno che ci vuole per volare? si domanda Davide). Ma anche chi si fida de L’Amico Ricco (Cosa si può chiedere alla Madonna Addolorata? Un fido!), interpretato magistralmente in duo con Paolo Rossi e chi ha il terrore di tutto (Cinque Miliardi: Tra cinque miliardi di anni il Sole ci divorerà, che bastardo!… saremo due atomi nella galassia… con una degna conclusione: Fate l’amore non fate la Scienza! Il racconto, che di surreale ha ben poco, contiene riflessioni, come su La cena di classe, uno dei dilemmi di tutti, su coloro vedono complotti dappertutto (Il Complottista), ironico profilo del social-allarmista, a tempo di cha cha cha, e chi raggiunge l’apice del precariato, l’umiliazione più profonda, in Auto-Erotismo

Episodi di vita comune, brevi racconti caustici e fulminanti, tra il filosofico e il cabaret. Storie di precariato, di aspettative, di luoghi comuni, scritte con un linguaggio attento e leggero, ironico e graffiante, mentre l’orchestra pompa note su note, decollando (per usare un l’indimenticabile gerundio di Paolo Conte) e galvanizzando l’attenzione.

Stasera Davide presenterà Psicanaliswing al Blue Note di Milano con il suo gruppo storico, i Jazzabbestia.

Doppia vita: musica e insegnamento. Quale preferisci?
«Non ho mai voluto scegliere una o l’altro. Mi piacciono entrambi e molto. Fare due lavori così implica un sacrificio: dormire poco. C’è voluto del tempo per adattarmi e ormai non ci faccio più caso. Tornare alla tre del mattino dopo un concerto ed essere in classe alle 8 per parlare di Dante richiede allenamento! E poi la musica mi aiuta molto anche a scuola, i versi di una canzone e quelli di una poesia non sono poi così distanti nella loro costruzione».

Ti sei diplomato al Conservatorio di Milano in pianoforte… come hai scelto la strada del cantautorato?
«Ho un impianto classico, ho suonato musica classica per anni. Poi mi sono avvicinato al jazz, mi incuriosiva, l’ho studiato, ma non sono un jazzista puro. Mi piace contaminarlo con swing e pop, pur conservando molte delle sue soluzioni. Prendi, ad esempio, Psicanaliswing: ho inserito il pop delle Sorelle Marinetti in uno swing con base più elettronica. Sono diventato cantautore perché ho scoperto di avere anche una voce (ride, ndr) e di poterla usare per raccontare delle storie…».

I testi riflettono molto le paranoie di questi ultimi due anni di Covid…
«In realtà li ho scritti prima di tutto questo, nel 2019. Sono vizi e comportamenti che ci portiamo dietro da sempre ma che la pandemia ha aumentato. Prendi ad esempio, Italiano all’estero, parla della fuga dei cervelli, o Il Complottista, testo nato dall’idea di tutti quei frequentatori social che producono post su post nei quali vedono macchinazioni ovunque. Ho pensato alle vite di questi che passano il loro tempo costruendo grandi cospirazioni, e me li sono immaginati quando si innamorano. Cosa potrà mai succedere? Andranno in cortocircuito?».

Davide Zilli in concerto – Foto Leonardo Ranzuglia

Mi è piaciuta l’ultima traccia del disco, Auto-Erotismo, musicalmente la più “jazz” di tutte. Parlare di “camporella” riporta alla gioventù con tanti sogni e pochi soldi in tasca…
«In un mondo dove tutto è così precario, anche l’amore lo diventa. Il precariato amoroso è il punto più triste, estremo di una vita senza sicurezze, soprattutto economiche… vissuto in una piccola Punto. (Un giorno avremo anche il lusso di dormire in uno spazio più grande di un sedile…, canta Davide, ndr)».

Da insegnante e musicista: cosa pensi della musica mainstream, quella che ascoltano i ragazzi oggi?
«Se parli del rap, della trap, spesso ci sono testi ricchi di riferimenti culturali che i ragazzi ascoltano ma a volte non capiscono. Prendi Salmo, lui è uno davvero bravo, in 1984 parla di Craxi e fa riferimenti a film usciti negli anni Novanta, come Trainspotting. Con i miei studenti ho letto e commentato il testo in classe. Quanto al mainstream: lo fa la tecnologia. Oggi con Spotify puoi ascoltare di tutto, molto più facile che andare in un negozio di dischi come si faceva un tempo. Ascolti per qualche secondo, poi passi ad altro, muovendoti orizzontalmente e non verticalmente. I ragazzi mi stupiscono perché, nonostante questa fruizione convulsa, scelgono i loro brani e li raccolgono in playlist. Grazie a queste mi hanno fatto scoprire artisti interessanti. La musica che ascoltano si basa tutta sul ritmo, la melodia praticamente non esiste. Vedi per esempio Young Signorino, ha testi che ti catturano seppur nella sua totale follia…».

Quali sono i tuoi ascolti?
«La musica italiana l’ho scoperta tardissimo, sono sempre stato attratto da autori di lingua inglese, Elvis Costello, Randy Newman, Joe Jackson. Mi piacciono molto, li adoro, i Twenty One Pilots, ma anche Stromae e The Weeknd…».

Quando ti sei innamorato dello Swing?
«L’ho scoperto per caso all’università. Allora suonavo il pianoforte, musica classica, e anche in una cover band che faceva molto punk… ero schizzato! Poi un amico d’università mi ha fatto ascoltare un disco, Jazz a Mezzanotte, e lì ho scoperto In a Sentimental Mood cantato da Ella Fitzgerald. È stato un colpo di fulmine, si è aperto un mondo. Poi sono approdato, inevitabilmente, anche allo Swing».

Davide “psicanalista” a Milano – Foto Laila Pozzo

Stasera al Blue Note ti esibirai con i Jazzabbestia…
«Suoniamo insieme da anni e siamo grandi amici. Sono Gianni Satta, trombettista, Alessandro Cassani, bassista, e Alberto Venturini, batterista».

Hai stretto anche legami con il Cabaret…
«Mi sono avvicinato a questo mondo per caso, mentre cercavo locali dove andare a suonare. Ho iniziato al Circolo Arci Cicco Simonetta di Milano, dove si faceva del gran Cabaret. È diventato la mia casa per un periodo, ho conosciuto molti artisti e, frequentandoli, sono stato sicuramente influenzato da loro. Mi piaceva – e secondo me è una cosa bellissima – lo scambio continuo tra il palco e il pubblico. Quindi, metto del Cabaret nel cantautorato!».

Cosa ti aspetti da Psicanaliswing?
«Di contribuire a far stare bene le persone. Che chi mi ascolta, pensi: “Che bello, mi ha sollevato la giornata!”. Credo sia la ricompensa più grande. Sono uno pignolo, lungo a scrivere perché sto attento a testo e musica, voglio che siano il più possibile perfette. Il lockdown da questo punto di vista mi è servito perché, grazie a mio figlio che ha tre anni, mi sono avvicinato al gioco, imparandone il vero significato. Così, per la prima volta, mi sono divertito a fare dell’instant music, scrivendo un pezzo su Giuseppe Conte e uno su Mario Draghi!».

Interviste: Giulia Pratelli, cosa vuol dire essere una cantautrice

Giulia Pratelli – Foto Claudia Cataldi

L’11 gennaio scorso è uscito per la Blackcandy Produzioni un disco che trovo molto interessante. È di Giulia Pratelli, 32 anni, cantautrice pisana, e si intitola Nel mio stomaco. Il cantautorato al femminile è un capitolo della musica italiana che meriterebbe più attenzione. Di artiste brave, preparate e, soprattutto, che hanno qualcosa da dire e la dicono bene, negli ultimi anni ne sono nate parecchie. Mai abbastanza, comunque.

Forse perché si sconta  (e ci si scontra) con il mito di chi ha fatto la storia della canzone d’autore in Italia soprattutto negli anni Settanta e Ottanta (Lucio Dalla, Francesco Guccini, Francesco De Gregori, Rino Gaetano, il grandissimo Pietro Ciampi, attivo fin dai primi anni Sessanta, Fabrizio De Andrè, Claudio Baglioni, Antonello Venditti e via elencando…). Tutti uomini, ovviamente. Le donne, ma non solo in questo campo, basti pensare al jazz, sono sempre state viste e vissute come grandi voci, sublimi interpreti, ma, quasi mai, scrittrici di musica.

Il lavoro di Giulia, dalla musica al testo, è un percorso di vita temporalmente ben definito, sviluppato in undici brani, con un incedere ben preciso. Una storia racchiusa in un romanzo in note dove viene fuori la verve creativa dell’artista, il bel incedere della scrittura, libero da rime forzate, una pagina di pentagramma dove lei si racconta con l’essenzialità dettata da un brano, e l’uso di ritmiche e armonie non appiattite su format già ascoltati, grazie anche al buon lavoro fatto con il producer Zibba (Sergio Vallarino), non nuovo a collaborazioni con la Pratelli.

Con Giulia, oltre al disco ho voluto parlare anche del cantautorato al femminile e del mondo musicale che ci gira intorno…

Innanzitutto, perché la passione per la canzone d’autore?
«Sono cresciuta con i cantautori italiani. I miei li ascoltavano sempre e mi hanno fatto apprezzare, oltre alle melodie, i testi. È stato un percorso naturale. Da piccola avevo imparato a memoria molte canzoni, adoravo Baglioni, e le cantavo usando l’antenna dello stereo come un microfono. Quindi ho iniziato a studiare canto, poi chitarra e armonia…».

Nel mio stomaco “canta” in modo diverso dalle altre tue precedenti produzioni, Tutto Bene e Via!
«Volevo ottenere un suono caldo ma deciso. Assieme a Zibba abbiamo potuto avere una band, i “miei” musicisti romani. È stato un lavoro di partecipazione. In Roma, Milano, per esempio, la coda del brano è nata improvvisando in studio».

Chi sono i musicisti che ti hanno accompagnato?
«Mi fa piacere che mi domandi di loro, sono bravi professionisti, Edoardo Petretti al pianoforte e tastiere, Toto Giornelli al basso e contrabbasso, Filippo Schininà alla batteria e percussioni, Luca Guidi (che è diventato il mio compagno dopo aver inciso il disco!) alle chitarre elettriche e Novella Curvietto al violoncello. Le chitarre acustiche sono mie, come i cori. Edoardo, Toto e Filippo condividono numerosi progetti insieme, soprattutto cantautorato e jazz».

Quanto ai testi cosa mi dici?
«Nel mio stomaco racchiude un racconto, particolari sensazioni vicine nel tempo ed emotivamente coinvolgenti che ho vissuto. Tutti brani che avevano bisogno di stare insieme. Li ho raccolti e portati a Zibba. Solo lavorandoci mi sono accorta che non era solo un racconto ma un viaggio vero e proprio che inizia con Niente, brano in cui sentivo la necessità di uscire dal guscio dove mi ero chiusa (Lasciami diventare nera/ Fare i conti e poi bruciare,/Sigaretta accesa/ Coda di sirena,/ Per tornare a galla, Radice a primavera… ndr) e finisce con Non ti preoccupare, le parole che dicevo ai miei quando uscivo la sera (Ho sbagliato tante cose ultimamente, Spero tanto tu mi possa perdonare/ e darmi un bacio sulla fronte/ Quando arrivo a casa… brano che ha vinto il premio Bianca D’Aponte edizione 2018, ndr)».

Parliamo del rapporto cantautori/cantautrici. Negli ultimi anni sempre più musiciste hanno iniziato a percorrere questo filone…
«Sì, e per fortuna! Ce ne sono di veramente brave, come, ad esempio, Cristiana Verardo, che lo scorso anno ha pubblicato un album meraviglioso. Essere una cantautrice vuol dire non avere una vita facile, c’è ancora tanta diffidenza verso la scrittura al femminile. In Italia siamo stati fortunati, abbiamo avuto un grande parterre d’autore, però tutto al maschile. Fatto che, ancora oggi, rende un po’ più faticoso far emergere una cantautrice. È un problema molto sentito tra noi musiciste. Collaboro con un’associazione, Musica di Seta, fondata da Chiara Raggi, una musicista che ha deciso, attraverso questo brand, di unire le artiste e aiutarle con un’etichetta discografica, un magazine on line – dove tengo una rubrica – e organizzando eventi, come Eco di Donna Evolution, il Festival di Musica d’Autrice di Rimini. Nel 2021 abbiamo avuto Ilaria Pilar Patassini ed Eleonora Betti».

L’obiettivo di Musica di Seta, leggo dal sito, è “creare un luogo in cui le cantautrici possano trovare un modo di lavorare rispettoso della musica e della persona”…
«Sentiamo la necessità di affermarci, non come un fenomeno da circo, piuttosto in maniera uguale ai colleghi maschi. Alle donne è sempre stata riconosciuta la vocalità, pensa a Mina, alla Vanoni, mostri sacri. Noi cerchiamo di mettere al centro la musica d’autrice, l’artista nella sua complessità e totalità».

Quando componi da dove parti? Testo o melodia?
«Di solito da idee di testo che poi sviluppo insieme alla melodia. Mi viene più facile lavorare su entrambi…»

Perché Nel mio stomaco?
«È nato, appunto, da un’idea, quella del perché si dia al cuore così tanta importanza. Fisicamente, quando stai male, ti tormenti sul futuro, hai preoccupazioni somatizzi tantissimo. E quel groviglio fisico non ti viene nel cuore ma nello stomaco, nella pancia. Quest’ultima comanda molto più del cuore, che sta lì bello, in posizione carina. Il cuore è molto più estetico dello stomaco ma quest’ultimo esprime una parte diversa della nostra emotività».

Un lavoro ragionato, non urlato, che dà il tempo di riflettere su quanto si ascolta… un po’ controcorrente rispetto al mainstream attuale…
«Ho l’impressione, e temo sia irrimediabile, che ci sia troppa velocità, tutto è estremamente rapido, ed è difficile fermarsi per un ascolto. Insegno musica e lo vedo, oltre al ventesimo secondo di solito l’attenzione per il brano cade. In realtà è un problema che non c’è solo nella musica…».

Vedo con piacere che non hai accompagnato video alla promozione dell’album…
«A parte Luglio, girato lo scorso anno, abbiamo scelto di non investire più sui video ma di concentrarci sulla parte musicale».

Immagino che per i concerti siate ancora in attesa, causa pandemia…
«Sì stiamo aspettando di avere un qualche orizzonte. Mi auguro che da Primavera si possa iniziare a lavorare, ho voglia di portare in giro il mio disco».

A proposito, com’è nata la cover del disco?
«La foto è di Claudia Cataldi, mentre l’intervento grafico è di La Tram, un’illustratrice molto brava che ha realizzato un collage digitale dove ha racchiuso un po’ di quello che sono io. C’è la conchiglia, riferimento al mare che amo (vivo a Livorno da poco ed è meraviglioso!), c’è il melograno, ci sono i fiori che ricordano la mia provenienza, la campagna toscana, e c’è la statua che rappresenta la mia passione per l’arte…».

Brunori Sas e la sua “Ode al Cantautore”: così è il mercato…

Può un artista zippare nel testo di una canzone di 3 minuti e 16 secondi un graffiante ritratto della musica italiana? Se si tratta di Dario Brunori (Sas) sì. Eclettico quanto basta, intelligente, provocatorio, una gran bella capacità di scrittura e altrettanta di mettere in musica i suoi pensieri, mai scontato, ha pubblicato una settimana fa un Ep, che richiama  il precedente disco Cip! uscito nel 2020. 

Il titolo è Cheap! Che in inglese significa “economico”, costato poco (visto che se l’è scritto, musicato, cantato, suonato e registrato tutto da solo a casa sua a dicembre, albero di Natale addobbato lo testimonia!), ma che sta anche per Cinque Hit Estemporanee Apparentemente Punk, acronimo divertente quanto carico di pensieri sul nostro stare al mondo, appiattiti e uniformati.

Il brano di cui vi sto parlando l’ha chiamato Ode al Cantautore ed è la perfetta fotografia del mercato discografico d’oggi. Un ragionamento che avevo fatto con molti, da Tommaso Novi a Cisco, per ricordare le interviste più recenti. Sentirselo dire così bene, vedere immagini così plastiche, stampate in 3D, merita questo post! Leggetela e ascoltatela. Anzi, leggete e ascoltate tutti e cinque i brani di questo Ep. Ne vale la pena… perché in fin dei conti siamo i figli di una balena che ha il cuore piccolo ed una bocca enorme

Suddito del Regno di Milano
Mi presento col cappello in mano
Mi inchino alla multinazional
che mi versa i danari per scrivere e cantare
Prono alla promo musicale,
mi vesto da giullare e inizia il baraccon

Visita alla radio commerciale
Col fido ufficio stampa da scudiere
In singolar tenzone con lo speaker piacione
A disquisir di ‘nduja e peperone,
Eh-eh-eh-eh-eh

Ode a Fabrizio De André
Di certo non uno come me
Che sono un surrogato, prodotto dal mercato
Che vive solamente di cliché-é-é

La giacca da impiegato e la barbetta
La montatura spessa e la panzetta
Quell’aria un po’ sinistra da vecchio socialista
E l’ironia un po’ catto-comunista,
Ah-ah-ah-ah-ah

Ode a Francesco De Gregori
A me sempre affiancato da tutti i detrattori
Perché, l’ho detto,
sono un surrogato,
voluto da un mercato

Che vive di cliché, o di cachet
O di cachet, o di cliché

Poi parte la crociata in Feltrinelli
Palermo poi Milano ed i Castelli
Fatece largo che passamo noi
Che semo li poeti, che semo i nuovi eroi

Cantiamo della vita e dell’amore
Però poi, sotto sotto, ce piace il disco d’oro
(Il disco d’oro, il disco d’oro)
Ma per avere il disco d’oro
(E per avere il disco d’oro)

Centomila copie da firmare
E centomila foto da scattare
E dal calar del sole, ci scappa una marchetta
‘O cellulare, ‘o jeans e ‘na maglietta,
Ah-ah-ah-ah-ah

Ode al buon vecchio Lucio Dalla
Nel suo profondo mare io sembro un morto a galla
Perché, l’ho detto, sono un surrogato,
voluto da un mercato

Che vive di cliché

E daje de tacco, e daje de stinco
Quant’è bono ‘sto Premio Tenco
E daje de tacco, e daje de mente
Quant’è bono ‘sto Nastro d’argento
E daje de tacco, e daje de coro
Quanto so’ boni i diritti d’autore
Perché so’ senza IVA,
nun so’ come er baccalà
Perché so’ senza IVA,
nun so’ come er baccalà, cha-cha-cha!

Interviste: Danilo di Paolonicola, la World Music e il Saltarello abruzzese…

Danilo di Paolonicola e l’Orchestra Popolare del Saltarello – Foto di Emidio Sciannella

Un disco di World Music in Italia è sempre una benedizione. Il recupero di tradizioni sonore che si sono contaminate nei secoli grazie a scambi culturali e conflittuali, imposti o mutuati, sono la base di un’ulteriore “fusione” per chi ha la voglia, l’intelligenza e le capacità di addentrarsi in un mondo musicale che può offrire infinite combinazioni.

Danilo di Paolonicola, 44 anni, abruzzese di Teramo, fisarmonicista che ha solcato i palchi di mezzo mondo, con la sua Orchestra Popolare del Saltarello ha pubblicato il 28 dicembre scorso Abruzzo, primo disco ufficiale dell’Orchestra, che va ascoltato con molta attenzione. Perché, in otto brani, molti dei quali famosissimi anche fuori regione, ha dimostrato che la musica è un’arte senza tempo e che le canzoni popolari, quelle che si ballano alle feste paesane, possono diventare musica colta.

Voci potenti, che da un abruzzese stretto improvvisamente volano nel jazz o raggiungono accenti blues, saltarelli che si fondano in metriche jazz, escursioni balcaniche alla Bregović, strumenti mediterranei come il bouzouki greco uniti a percussioni sudamericane…

Sempre con un accento originario forte, ben marcato: d’altronde resta pur sempre una musica da ballo, canzoni che uniscono, creano comunità, condividono gioie e dolori, amori e fatica (non a caso i live dell’Orchestra sono sempre accompagnati da ballerini professionisti, a testimonianza del serio lavoro storico che sta alla base dell’operazione creativa).

Essendo molto curioso, soprattutto su dischi di questo genere, ho chiamato Danilo per farmi raccontare la genesi dell’album…

Un gran bel disco, pura Italian World Music!
«(sorride, ndr) Di base, le melodie sono rimaste le stesse, il resto è stato completamente rivisitato. Il lavoro che ho fatto nella maggior parte dei brani è stato contaminarli con i suoni e i ritmi che nascono lungo il percorso della transumanza. Siamo abruzzesi, conserviamo nel DNA l’antica tradizione dei pastori che facevano la transumanza verso la Puglia lungo il tratturo Magno (244 km da L’Aquila a Foggia, il più lungo d’Italia, ndr). Facendo questo percorso la musica popolare si trasforma: dal Saltarello diventa Ballarella, poi passa alla Tammurriata, quindi alla Tarantella del Gargano fino ad arrivare alla Pizzica…».

E qui c’è stato il primo livello di “fusion”…
«Esatto, all’interno di questo disco la prima fase di arrangiamento è stato proprio l’inserimento di altri ritmi popolari sulle canzoni abruzzesi, Oltre a questo lavoro, visto che in Abruzzo abbiamo un grande repertorio di canzoni – e di balli – ho deciso di inserire un paio di canzoni completamente rivisitate. La prima, Maria Nicola, ha un ritmo reggaeton, nella seconda, Diasill, che non è una canzone ma una litania, ho inserito una base funk su un testo rap».

Ma anche in Vola Vola Vola, che apre l’album, per esempio, hai lavorato molto, soprattutto nella coralità…
«Sì, i cori sono sempre molto curati. La mia idea di musica prende spunto anche dalla musica pop, dove c’è grande attenzione per cori e arrangiamenti. Abbiamo fatto un grande lavoro sulle voci. Su Vola Vola Vola, il mood è jazz, l’esposizione del tema della strofa mantiene l’armatura jazz con  accordi complessi; sul ritornello, invece, ritorna nella versione originale che tutti conoscono. Ho cercato di renderla più raffinata e, allo stesso tempo, riconoscibile, essendo l’unico brano popolare abruzzese famoso in tutto il mondo. Una vera particolarità, perché le canzoni popolari italiane più famose all’estero sono quelle napoletane…».

Ascoltando come hai rielaborato questi brani hai una visione diversa della canzone popolare, giustamente catalogata come World Music…
«Vengo da altri generi musicali. Sono un jazzista e, oltre al jazz e al pop/rock dove sono laureato, studio da tempo la musica etnica. Penso che le cose più interessanti uscite negli ultimi dieci anni siano venute tutte dalla World Music. Unendo suoni diversi, tipici di altre culture, si creano sonorità molto interessanti e anche, forse, innovative, se me lo permetti. Più correttamente, nuove sonorità, che miscelate con suoni “attuali”, diventano un prodotto interessante».

Foto di Emidio Sciannella

Quello che fa fatto Stweart Copeland con la Taranta…
«Il lavoro di Copeland del 2003 è l’edizione della Notte della Taranta che preferisco. Un brano che non è presente nel disco, il Saltarello Teramano, l’ho arrangiato prendendo spunto proprio dalla Pizzica degli Ucci».

A proposito: come hai scelto i brani da mettere nel disco?
«Nel repertorio dell’Orchestra che proponiamo dal vivo sono di più, ovviamente. Ho voluto prendere delle canzoni che tutti più o meno conoscono e dare loro un vestito nuovo».

Parlami dell’Orchestra, i musicisti che estrazione hanno? Come hanno preso questa idea di World Music in senso lato…
«I musicisti dell’orchestra non vengono dalla musica popolare, a parte i cantanti. Abbiamo una ritmica di jazzisti, ma chiaramente ci sono strumenti popolari come la zampogna, l’organetto, la fisarmonica, che io suono, e i tamburelli. I cantanti principali vengono, appunto, dalla musica popolare, abbiamo, per esempio, un africano – è lui che rappa in Diasill – che canta anche in abruzzese, ed è bello sentire il diverso accento che dà alle parole, poi abbiamo una italo-algerina: anche lei porta il suo bagaglio culturale… Questo ensemble produce un risultato diverso da quello che il pubblico è abituato ad ascoltare.

Gli arrangiamenti dei brani sono tutti opera tua?
«Sì. Li propongo – perché non li preparo a casa, ma lavoro in sala prove con tutti – osservando le facce dei miei musicisti. Quando li vedo tutti sorridenti, vuol dire che piace e che si divertono a suonare. È importante, così facciamo un lavoro di gruppo, dove tutti sono motivati».

L’improvvisazione c’è quasi sempre nella musica popolare, vedi lo Choro brasiliano, il Changuï di Guantanamo… Vale anche per il Saltarello?
«Abbiamo parti scritte e altre lasciate alla libera interpretazione dei musicisti, perché la musica popolare ha bisogno di questo, lo richiede, come il jazz… L’improvvisazione arricchisce un brano, lo cambia sempre, rendendolo in questo modo unico e prezioso».

Di quanti elementi è composta l’Orchestra?
«Undici o dodici. Li abbiamo ridotti, inizialmente l’organico era di diciotto, ensemble molto complicato da portare in giro. In più c’è un gruppo di ballo composto da 4/6 ballerini».

In Abruzzo come hanno preso questa tua rivisitazione popolare?
«Vabbè è normale, c’è sempre qualcuno che storce un po’ il naso, però noi le cose ce le siamo guadagnate sul campo».

La genesi dell’Orchestra?
«È nato tutto per caso, nel 2014, in una giornata di divertimento passata in montagna. In realtà era un’idea che avevo da tempo. Per realizzarla ho chiamato alcuni ignari amici musicisti, tutti provenienti dall’ambiente jazz, giustificando una session estemporanea di musica popolare per puro divertimento. Prove dalle 11 del mattino fino all’una del pomeriggio. Sembrava tutto finito, poi, dopo il pranzo, la sorpresa: un concerto, che nessuno di loro si aspettava. L’ho fatta apposta perché ero sicuro che, vista la loro provenienza artistica, non mi avrebbero seguito nel progetto che avevo in testa. C’è ancora il video sulla nostra pagina Facebook. Da allora non ci siamo più  fermati, ci hanno chiamato ovunque per suonare. Nel 2017 siamo stati invitati al Concerto del Primo Maggio a Roma. Da quel momento siamo diventati di fatto l’Orchestra dell’Abruzzo!».

Vi siete esibiti all’estero, pandemia permettendo?
«Solo a Monaco per un evento dell’ufficio del Turismo. Abbiamo, però, ricevuto molti inviti, in Canada, Stati Uniti, Sudamerica. L’idea c’è, ci stiamo attrezzando per il prossimo anno, ma il grosso scoglio, come potrai capire, sono i costi, soprattutto i biglietti aerei. Stiamo cercando di ottenere sovvenzioni dalle istituzioni, dalla Regione Abruzzo».

Il disco è stato autoprodotto…
«Sì, l’abbiamo voluto così. L’ho arrangiato e prodotto, l’abbiamo pagato di tasca nostra, perché, per il momento, non vogliamo legarci a nessuna etichetta discografica, per avere maggiore libertà di utilizzarlo come meglio crediamo. Non è un’operazione per far soldi, ma per divulgare un’idea di musica in cui crediamo. È… cultura».

Come t’è venuta la passione per la fisarmonica?
«Ho iniziato a suonare l’organetto a sei anni, andando a lezione da Fanciullo Rapacchietta, famoso musicista d’organetto abruzzese. L’elemento fondamentale che ha caratterizzato il mio percorso musicale è stata la vittoria di molti concorsi, nazionali e internazionali… ne ho vinti tantissimi, ero considerato un bimbo prodigio. Sensazione molto bella, che mi ha portato, però, un po’ fuoristrada. L’esperienza mi ha dato una facilità di stare sul palco, il saper lavorare con altri musicisti, ma in quella fase della mia vita, anziché fare il circense super virtuoso, avevo capito che mi mancavano elementi importanti per conoscere e capire bene la musica. Così, ho smesso di esibirmi è ho iniziato a studiare musica jazz, lasciando da parte l’organetto e suonando la fisarmonica. Ho fatto anche lì concorsi, vinto premi e poi ho iniziato a lavorare per ditte di fisarmoniche tra cui la Roland: mi hanno scelto per realizzare un nuovo strumento, la FR18 diatonic, una fisarmonica diatonica che ha avuto un successo planetario. Per divulgarla ho iniziato a fare concerti in tutto il mondo, presentando lo versatilità dello strumento attraverso tutti gli stili della World Music. Ora lavoro con le fisarmoniche di Paolo Soprani… Ho continuato a studiare, mi sono laureato in composizione, il Conservatorio de L’Aquila mi ha chiamato per aprire il corso di fisarmonica diatonica. Ho insegnato anche al Santa Cecilia di Roma e al conservatorio di Catanzaro. La mia soddisfazione è che, grazie a tutto questo lavoro, sono stati istituiti corsi di musica tradizionale con vari indirizzi, canto, zampogna, organetto, chitarra battente…».

E il Saltarello?
«Ho cominciato a proporlo quando ero in Giappone per Roland. Lo suonavo nei concerti e il successo è stato unanime. Da lì, vedendo il grandissimo lavoro della Taranta, mi sono convinto a organizzare un festival simile, ma fondamentalmente diverso. Quest’anno, dopo due anni di fermo, ritorneremo con grosso evento che sarà organizzato nella Valle Subequana, una spettacolare zona interna dell’Abruzzo».

Ultima domanda: questo primo disco è solo un inizio…
«Sì, in realtà è il primo volume dedicato all’Abruzzo. Ne uscirà anche un secondo, presto. In futuro, abbiamo intenzione di lavorare allo stesso modo su altre regioni. Ho già un progetto sulle musiche del Centro Italia, che la pandemia fa frenato… Al di là dell’Orchestra ho un progetto jazz a cui tengo molto, con Nino Buonocore, e un altro disco che uscirà tra un paio di mesi, il sequel di No Gender (album pubblicato nel 2016, ndr), Volume II, dove l’aspetto virtuosistico e jazzistico rappresentano al massimo l’utilizzo dei miei strumenti. Tutte composizioni originali, ispirate alla musica balcanica, con ritmi dispari, allo swing, al bluegrass…».

Interviste: Cisco, il folk, la politica e le sue Canzoni dalla Soffitta

Stefano Cisco Bellotti – Foto IlariaDRPhoto

Me ne sto su in montagna, Veneto, massiccio del Grappa, in una casa che domina la pianura. Neve e silenzio, il fuoco che arde nel caminetto e in cuffia I Contain Multitudes di Bob Dylan da Rough and Rowdy Days. Mi sono scelto con cura la canzone perché mi accingo a scrivere un’intervista a cui tengo molto. L’artista in questione, non a caso un appassionato di Dylan, è un menestrello nostrano, che in trent’anni di attività non ha mai lasciato i binari di un certo tipo di musica, quella che negli anni Settanta veniva definita “impegnata”. Nelle sue ballate c’è sempre un perché, sia esso sociale, sia politico, sia il ricordo di un amico prezioso che il Covid s’è portato via, armoniche che riportano a un certo modo di concepire la musica, un mezzo per dialogare non solo di futilità ma anche e soprattutto di “Essere”.

Lui è Cisco, al secolo Stefano Bellotti da Carpi, 53 anni, una vita artistica spesa soprattutto nei Modena City Ramblers come frontman e una scelta, tanti anni fa, sempre per via di quei binari dove corre da sempre la sua vita, di mettere su famiglia e raccontare il mondo da una posizione più tranquilla.

L’ho chiamato perché, oltre a sentire il suo punto di vista sulla musica italiana corrente, volevo parlare con lui anche del doppio disco che ha pubblicato il 29 ottobre scorso, Canzoni dalla Soffitta. Folk, chitarre aperte e sincere, brani scritti nel suo studio-soffitta di casa dove ha passato i lockdown di questi due anni assurdi.

Ballate dove si racconta e narra storie importanti, belle, aperte dove trovano luogo naturale collaborazioni con musicisti e artisti molto interessanti, dall’ex Roxy Music Phil Manzanera con i The Solidarity Express – band composta, oltre che da Phil, da musicisti di varie provenienze ed estrazione che mandano un messaggio di integrazione, fusion sociale e musicale, lo scorso aprile ha pubblicato il suo primo album, Radio Ubuntu a Simone Cristicchi, a Franco D’Aniello, mitico flautista, uno dei “padri fondatori” dei MCR con il suo inconfondibile tin whistle.

Nel secondo disco, i Live dalla Soffitta, una selezione di brani che Cisco ha suonato in streaming – uno ogni giorno – durante il lockdown, per chi voleva ascoltarlo. Qui, c’è anche una bella versione di Ovunque Proteggi di Vinicio Capossela…

Eccoci qua Cisco, prima di parlare del tuo disco – mia indagine personale – voglio chiederti un parere sulla situazione della musica italiana, quella mainstream per intenderci…
«Che ti devo dire? Terribile. In 15 anni siamo riusciti a tirare fuori il peggio del peggio che abbiamo, incapaci di valorizzare qualcosa che c’era già, trasformando la musica in un nulla cosmico! Quello che conta è il fatturato. A dir la verità, la situazione risale a molto tempo fa, quando le case discografiche non sono state in grado reggere le nuove tecnologie. Ricordi quando è uscito Napster? Si sono messe tutte a fargli la guerra non rendendosi conto che lì dovevano lavorare, non combattere. Ora si scelgono i gruppi in base alla visualizzazioni sui social. L’ultima ondata di musicisti scelti perché avevano qualcosa da dire risale agli anni Novanta, quando Stefano Senardi, alla Polydor, aveva intuito la potenzialità di alcuni gruppi sconosciuti, ecco come sono esplosi i CSI, i Modena City Ramblers, i Negrita, gli Africa United. Oggi nel mainstream non c’è più diversità, ma omologazione».

Vale per il nuovo pop, rap e trap?
«Non solo ma penso anche – ed è un mio parere personale, forse un po’ naïf – alla nuova scena cantautore italiana, dove nessuno degli artisti prende una posizione. Ho visto un’intervista a Lodo Guenzi, de Lo Stato Sociale, si stupiva proprio di questo e lo diceva anche di se stesso e della band».

Cioè, hai successo se non rompi le palle con testi impegnati?
«Più o meno così, la scena più “impegnata” lavora nei bassifondi. Esiste, certo! Ma non trova uno spazio. Non è che mi rifiuto di ascoltare rap o trap, tanto per fare un esempio tra i tanti mi piace Willie Peyote, fa cose bellissime, ma il problema è che tutti devono rincorrere il mainstream per emergere».

Con i Modena City Ramblers facevate politica?
«Non eravamo un gruppo legato a un partito. Avevamo le nostre idee, che a volte coincidevano con certe aree politiche, ma sempre aperti a chi la pensava come noi. Il problema  è arrivato poco prima degli anni 2000, quando è iniziato un costante lavoro di delegittimazione da parte di una parte politica, di tutti quei pensieri che si potevano ricondurre alla sinistra, sostenendo che, tanto è tutto uguale, che  non esiste più né la destra né la sinistra. Ci è stato detto e ripetuto per anni sui giornali al punto che oggi, dichiararsi fascista, per alcuni è una cosa di cui fregiarsi. Sono spariti i freni inibitori e così viene sdoganato il peggio del peggio che c’è in Italia. Ma va tutto bene, tanto la vita è un circo, il tempo passa e tutto può succedere, il problema è che si stanno minando le radici della nostra storia».

Cisco in concerto – Foto IlariaDRPhoto

In tutto ciò anche la musica…
«Sì anche la musica ha subito questa omologazione. Ho letto di artisti impegnati che si sono lamentati di non essere stati scelti a Sanremo… Il Festival non c’entra niente, non è lui il problema, piuttosto il fatto che non esistano altri contenitori musicali dove possa trovare spazio un altro tipo di musica. In Italia non esiste qualcuno che abbia la forza e la voglia di costruire un canale di musica impegnata. Così, nonostante la nostra storia millenaria rimaniamo un paese provinciale dove, per esistere, come artisti siamo ridotti a sperare di andare a Sanremo…».

Veniamo al tuo disco, Canzoni dalla Soffitta, un bel titolo…
«Vuol essere un riassunto di questi due ultimi anni vissuti pericolosamente. Sono istanti fissati, ma anche un lavoro che guarda al futuro».

Tra le tante canzoni, ben 24, che proponi, c’è anche una rivisitazione in italiano del mitico The Ghost of Tom Joad di Bruce Springsteen (album del 1995), che si rifà a Furore di Steinbeck, il  cantore della Grande Depressione…
«È un regalo a Luca Taddia (FEV, ndr). È un brano che dice tutto, per Springsteen è la sua Cent’anni di Solitudine, ma che racconta ancora con estrema modernità, quello che siamo noi stessi oggi. Una trasformazione che sta accadendo e che della quale nemmeno ci accorgiamo».

Mi incuriosiscono tanti brani, uno mi ha colpito in particolare, Lucho
«È dedicata al nostro amico Luis Sepúlveda, che familiari e amici hanno sempre chiamato amichevolmente Lucho. Sepúlveda è stato un grande amico dei MCR, un mio amico, ci siamo visti più volte, abbiamo suonato anche alla sua festa di compleanno quando ha compiuto cinquant’anni. È parte della nostra storia, mi sembrava giusto dedicargli una canzone, omaggiarlo…».

E poi ci sono La Finestra sul Cortile e Leonardo Nimoy…
«(Ride, ndr) La prima è un omaggio a Hitchcock. Quando eravamo in lockdown, guardavo fuori dalla finestra e vedevo un mondo intorno a me e mi è venuto naturale pensare al grande regista e al suo film, la seconda, invece, è un brano che guarda al futuro, un modo per accompagnare i figli (io ne ho cinque!) nella loro crescita, permettendo che commettano i loro errori, imparando da questi, senza preoccuparci di evitare che non cadano nei nostri. I ragazzi devono saper distinguere da soli, perché i costumi li vestono i supereroi ma anche i pagliacci…».

Mentre la seconda parte, il Live dalla soffitta?
«Un live senza pubblico presente. Mi collegavo dalla mia soffitta-studio ogni giorno durante il lockdown, un appuntamento per chi mi seguiva, un modo per dire ci sono, condividiamo. Sono brani con arrangiamenti minimali, chitarra e voce. Chitarra e voce è la prova del nove di una canzone, se regge, vuol dire che è buona».

Qui, hai voluto omaggiare altri artisti…
«In Manifesto ho voluto ricordare Erriquez (Bandabardò, ndr) mancato nel febbraio scorso, un messaggio d’amore, per lui e per la sua arte. In Ovunque Proteggi, ho celebrato uno dei miei artisti preferiti, Vinicio Capossela».

Cisco cosa stai ascoltando?
«Sto regredendo. Dopo aver cercato di restare al passo con i tempi, mi sto reinnamorando di chi mi ha fatto innamorare della musica. Dunque, Bob Dylan e il suo Rough and Rowdy Ways, un lavoro magnifico! Poi, rileggendone i testi, gli U2, Sunday Bloody Sunday fa venire i brividi ancora oggi, quella è la musica che mi piace. Ascoltavo con piacere anche i Mumford & Sons e in questi giorni Raise of the Roof, il secondo album che, a distanza di 14 anni hanno pubblicato Robert Plant e Allison Krauss…».

Cisco, come ti definiresti?
«Sono un ottimista di natura, penso di aver capito qual è il mio posto nel mondo. L’abbiamo ereditato e abbiamo l’impegno di lasciarlo al meglio. Pensa, noi stiamo vivendo 80 anni di pace, non c’è mai stato un tempo così lungo senza conflitti in Europa. E penso anche ai miei, a tutti coloro che, prima di noi, non sono vissuti senza guerre. Molta gente, questo, non lo capisce…».

Eccoci arrivati alla fine. Parlare con Cisco è come stare un sabato pomeriggio qualsiasi seduti a un tavolino con un buon rosso davanti e un saggio amico che ti fa riflettere. Ascoltare il suo folk senza età, è un ottimo esercizio per la memoria e il pensiero. Atto che in questi anni è quanto mai necessario.

Voglio finire lasciandovi il testo di Riportando tutto a casa, brano contenuto nel primo dei due dischi di Canzoni dalla Soffitta. È anche il titolo dell’album d’esordio dei Modena City Ramblers. Un testo autobiografico, che ripercorre i suoi trent’anni di musica, da quando, ragazzo di provincia impallinato con la musica folk irlandese, è salito sul palco durante un concerto “irish” dei Modena, e ha cantato con loro. Da quel palco non è mai sceso: anche se ha lasciato la band da anni è rimasto quel ragazzo che aveva il folk nella testa e le parole giuste nella penna.

Riportando tutto a casa,
in un soffio di polvere e in una maglia da pallone,
col sudore ho scritto anche il mio nome.
In silenzio ci ho messo la mia vita e la mia voce,
e non è un caso se canto in Re minore.
Ho viaggiato in furgone verso la rivoluzione,
ho fatto sosta nei bar di quartiere
come un uomo qualunque, un poeta un po’ cialtrone,
come un piccolo Hemingway senza pretese.
E ancora oggi sono qua tra Spotify e un vecchio disco,
tra una festa di paese, tra i Pogues e il liscio,
da qualche parte tra Carpi e San Francisco,
da qualche parte tra Carpi e San Francisco.
E ancora oggi sono qui tra una pinta e il Lambrusco,
fra il tanto e il poco, tra la roccia e il muschio.
Sulla strada di un sogno e il posto giusto,
sulla strada di un sogno e il posto giusto.
Ho dormito la mattina per rubare via alla sera
e ora porto i miei ricordi sulla schiena.
Ho gambe molli ogni sera prima di tornare in scena,
mangiarmi il mondo o andare a cena con la iena.
Avevo un trono di legno dentro notti illuminate,
l’ho buttato per tornare sulla strada.
Ho gli occhi rossi bagnati dal vento caldo dell’estate,
ho visto il mondo e riportato tutto a casa,
ho visto il mondo e riportato tutto a casa.
E ancora oggi sono qua tra Spotify e un vecchio disco,
tra una festa di paese, tra i Pogues e il liscio,
da qualche parte tra Carpi e San Francisco,
da qualche parte tra Carpi e San Francisco.
E ancora oggi sono qui tra una pinta e il Lambrusco,
fra il tanto e il poco, tra la roccia e il muschio.
Sulla strada di un sogno e il posto giusto,
sulla strada di un sogno e il posto giusto.

Interviste: Luca Barbato e l’importanza di essere… “Smoothly”

I BF Project: a sinistra, Luca Barbato, a destra, Alberto Fichera – Foto Marcello Torresi

Vi segnalo un disco uscito a marzo per la TRP Music ma passato per lo più sotto silenzio. È il primo lavoro di due amici trentacinquenni nati alle falde dell’Etna, cresciuti insieme e diventati entrambi musicisti. Un progetto che porta le iniziali del loro nome BF. Uno è un batterista, l’altro un sassofonista e clarinettista, il primo ha svoltato sul jazz e il latin, il secondo viene dal classico e suona tutt’ora in orchestre classiche senza ignorare pop e jazz. Il primo continua a vivere nel suo paese, Pedare, il secondo s’è trasferito a Roma. Ok, tranquilli! Ora vi dico i nomi: Luca Barbato e Alberto Fichera, i BF Project.

Il loro primo disco l’hanno chiamato Smoothly e racchiude, in una sorta di ensemble, la vita musicale di Luca e Alberto. C’è fusion, Brasile, Cuba, jazz un viaggio onirico di passioni personali e ricordi. Atmosfere smooth, appunto!, ma anche visioni di feste a La Habana o brillanti samba jazz alla Sergio Mendes in una Rio rutilante di calore e suoni. Gli arrangiamenti sono tutti di una nostra vecchia conoscenza, Seby Burgio, uno dei pianisti jazz più quotati attualmente, che ha reso narrativamente unito, capitolo dopo capitolo, questo Grand Tour armonico e ritmico.

Mendes ritorna nell’uso del Fender Rhodes, formidabile piano elettrico, e dell’organo Hammond, di grandi trascorsi, suonati da Burgio ad esempio, in Ellis Island, ottimi i bassisti, c’è anche Salvo Barbato, padre di Luca, bassista di lungo corso, in tre brani Lat-in-soul, Smoothly e Summer Funky… I giri di basso ricordano la fusion anni Ottanta, ad esempio quella degli Yellow Jackets (tra l’altro, dal 2012, s’è unito alla band Felix Pastorius, figlio del sublime Jaco, che militò negli Weather Report) o dei mitici Brand X, dove suonava Percy Jones, altro santograal del basso con il suo strumento fretless dove le dita volavano con la grazia di una danza.

Non si fanno paragoni, ovvio. Ma questi sono i ricordi che Smoothly ha risvegliato in me. La qualità del lavoro è alta, l’album è stilisticamente curato, senza manierismi che avrebbero potuto renderlo più freddo. Un prodotto vero, senza scorciatoie né sensazionalismi. Che sarà presentato per la prima volta dal vivo a Catania il 13 dicembre alle 21 alla Sala Harpago – Il Gatto Blu.

Così ho deciso di chiamare Luca Barbato, la sezione ritmica dei BF Project. Niente di meglio farsi raccontare la nascita di un progetto dagli stessi autori…

Tu e Alberto siete amici da sempre…
«Sì da quando avevamo una decina d’anni. Io sono di Pedara, lui di Trecastagni, paesi confinanti della cintura Etnea. Abbiamo la stessa età, io sono di marzo, lui di aprile…».

Destinati a lavorare insieme!
«Abbiamo sempre frequentato ambienti musicali. Io sono addirittura nato in una famiglia musicale, mio padre, Salvo, è un bassista di grande esperienza. Insomma, cresciuti a pane e musica. Smoothly è il nostro primissimo progetto, l’avevamo in mente da tempo. Alberto, per lavoro, vive a Roma, mentre io, che adoro insegnare, ho aperto una scuola di musica a Pedara. Alberto è nato come musicista classico, poi con il tempo s’è spostato sul pop e sul jazz».

Parlami di Smoothly, tutta farina del vostro sacco…
«I brani del disco sono nostri, abbiamo avuto il desiderio di comunicare qualcosa di noi, della nostra musica che è un jazz contaminato, raccontarci con semplicità, senza sovraccaricare con virtuosismi».

Avete lasciato poco spazio all’improvvisazione.
«In ambito jazzistico, quando si compone si lascia spesso molta libertà ai singoli musicisti. Noi abbiamo deciso di tenere le parti di improvvisazione ma senza strafare, volevamo un racconto alla portata di tutti, cercando di essere il più ordinati possibile, tanti tasselli di un puzzle che si andava a comporre. Volevamo fosse sentito come un buon lavoro di gruppo».

Ci sono tanti generi nel disco. Fusion va bene, ma, oserei, contaminazioni consapevoli e cercate con ostinazione…
«Su questo abbiamo le idee molto chiare. La diversità di cultura, anche musicale, e di educazione può creare solo ricchezza. Viviamo standardizzando molto, anche la musica. È una conseguenza della globalizzazione, il rischio, però, è che ci appiattiamo… Poi, è un altro discorso, bisognerà vedere come verrà considerata la musica attuale a distanza di anni: quello che chiamiamo classica è un genere che in realtà è fatto di più generi che quando vennero creati e suonati avevano altro valore, e che noi, dopo secoli, abbiamo codificato in classici. Tra un secolo quello che si ascolta oggi diventerà di sicuro “un classico”. La musica si adatta ai popoli e alle culture. I musicisti fanno parte del tessuto sociale e certe sonorità ne sono la conseguenza».

Nel vostro caso è la “mediterraneità”…
«Sì, ma questa non è solo patrimonio del Sud. Mi spiego: il concetto di mediterraneità si identifica geograficamente con il Sud ma appartiene all’Italia intera. Basti pensare a Pino Daniele, patrimonio artistico non solo napoletano ma di tutto il Paese. Se dovessi fare un paragone, la mediterraneità è come la cucina italiana, varia, ma rappresenta tutto il Paese».

Ci sono brani nel disco che vi personalizzano più di altri?
«La mia anima funk e latina è evidente in Lat-in-Soul, quella di Alberto, più profonda e meditativa, in Ramble, dove suona il sax soprano».

Luca, domanda scema: perché la batteria?
«Non c’è un perché. La mia vita ha sempre avuto musica intorno. Da bambino andavo con mio papà in sala prove. Tra i tanti strumenti, quello che mi attirava di più era la batteria. Mi ricordo che mi sedevo vicino al batterista e lo guardavo ammirato. A 5 anni ero già lì che battevo tamburi, tra alti e bassi, tipici dei bimbi di quell’età. Ho iniziato a studiarla seriamente, con dedizione, a 12 anni».

Foto Marcello Torresi

E perché la musica latina? Te lo chiede uno che fin da ragazzo ne è rimasto colpito. Più genericamente, è un genere che antropologicamente arriva dal basso…
«Anche qui, non so dare una spiegazione logica. Però se ci fai caso, il jazz come la musica latina sono nati in situazioni di estrema povertà. Come se la musica fosse un lenitivo per le sofferenze. Da batterista ti rispondo che la musica latina è apparentemente semplice, in realtà esprime concetti ritmici totalmente diversi dai nostri, e quindi complicati, che però hanno la capacità di arrivarti dritti al cuore. Anche l’armonia è complessa, il tutto è incarnato in una sostanziale bellezza. Pensa alla musica brasiliana o ai ritmi cubani, melodie complesse che colpiscono subito l’ascoltatore, il jazz non riesce in questo, non è  spontaneamente accessibile, bisogna ascoltarlo tanto per capirlo. Una cosa è sicura: se quando suoni dal palco vedi la gente che inizia a battere il tempo con il piede o con le mani, stai sicuro che quella musica ha preso. Dal palco mi piace molto guardare le reazioni del pubblico».

Il jazz ha attinto a piene mani dalla musica latina, basti pensare alla bossa nova, a Tom Jobim…
«C’è un disco fantastico che ascolto spesso, ed è il Live at The Royal Festival registrato da Dizzy Gillespie con la United Nation Orchestra nel 1989. È bellissimo ci sono miti del latin jazz come Arturo Sandoval, Paquito D’Rivera, Danilo Pérez che suonano assiema Dizzy. Lì si sente persino la mediterraneità…».

Oltre a tuo padre, Salvo, e a Seby Burgio chi sono gli altri compagni di strada in Smoothly?
«Seby è la terza colonna portante del progetto. Ha arrangiato tutto il disco trattando il progetto come se fosse suo, e di questo gliene siamo grati. Poi ci sono Nicola Tariello (tromba in Cumbao, Lat-In-Soul e Summer Funky ), Salvo Finocchiaro (Fender Rhodes in Pareo, China Blues e Lat-In-Soul e assolo di synth in Summer Funky) Giacomo Patti (basso in Eyes of Joy e Ramble), Mario Guarini (basso in Pareo e in Ellis Island), Carmelo Venuto (contrabbasso in 4 U, China Blues e Cumbao) e Daniele Leucci (percussioni in Pareo, Cumbao e Summer Funky).

E la cover così “latina”?
«L’ha concepita il fumettista Mario Sciuto. Ha avuto la capacità di tradurre in colore il nostro essere, ascoltando solo qualche brano. S’è inventato una umanizzazione dei nostri strumenti, interpretando quello che siamo, dei ragazzi scherzosi e solari. Un lavoro magistrale fatto in modo inconscio».

Intervista: Rebel Bit, elettronica e voce per un canto “Nuovo”

I Rebel Bit in concerto – Foto Enzo Fornione

Mi è capitato sotto mano l’ultimo lavoro targato Rebel Bit, uscito il 5 novembre scorso, dal titolo lapidario: Come. Il gruppo in questione viene da Cuneo. Sono cinque musicisti, tutti trentenni, tutti usciti dal Conservatorio che hanno scelto la loro personale cifra stilistica: cantare a cappella. Sì, un coro, anzi, un Signor Coro! All’estero, soprattutto negli Stati Uniti, dove il genere è vivacemente sull’onda da anni, sono famosissimi, hanno avuto riconoscimenti importanti come le cinque nomination ai Contemporary A Cappella Recording Awards di Boston e altrettanti nell’A Cappella Video Awards di Los Angeles. Da noi, hanno partecipato come concorrenti a Italia’s Got Talent edizione 2021.

Come ben si evince dal nome della formazione, è un coro che si “ribella” alla tradizione e lavora con effetti e programmi tipici della musica elettronica. Il risultato è molto interessante. Dopo aver parlato con Beppe Dettori e Raoul Moretti dei cori tradizionali sardi in Animas, disco che riconsiglio!) ho voluto approfondire questo genere che certamente affascina e cattura con il “Rebel” Lorenzo Subrizi, l’arrangiatore dei brani di Come.

Lorenzo, sul vostro sito vi definite “voci al servizio dell’elettronica”…
«Esatto, ma vale anche elettronica al servizio della voce. Questo siamo noi, la ragione per cui abbiamo studiato questo nuovo approccio al canto a cappella. La musica vocale in Italia è ancorata ai canti corali della tradizione, i Tenores in Sardegna, i cori degli alpini dalle nostre parti, e, fortissima, la musica corale classica. Quella vocale moderna, invece, ha sempre fatto fatica a decollare».

In effetti, mi vengono in mente solo i salernitani Neri Per Caso, ma era negli anni Novanta.
«Cantano e fanno concerti ancora oggi, però e un circuito molto settoriale. Ed è un problema, e qui ti parlo da insegnante (i Rebel sono tutti insegnanti alla Fondazione Fossano Musica, ndr): è una questione culturale. Negli States è un genere molto sentito e seguito, ci sono festival dove la maggioranza degli ascoltatori sono ragazzi. Basta pensare al fenomeno dei Pentatonix, entrati nel circuito mainstream. Oltre ai Rebel Bit, collaboro con i genovesi Cluster. Negli ultimi anni c’è un cambiamento, stanno nascendo gruppi di musica corale moderna formati da giovani».

I Rebel Bit – Foto Enzo Fornione

Parliamo un po’ di voi…
«Veniamo tutti dal conservatorio di Cuneo, siamo tra i 30 e i 35 anni. Tre di noi, io, Giulia Cavallera e Guido Giordana ci conosciamo da adolescenti. Abbiamo frequentato il liceo musicale “Ego Bianchi”, sempre a Cuneo. La dimostrazione che se la scuola ti forma, fa cultura musicale, lascia poi il segno. Siamo tutti insegnanti di musica e stiamo vedendo una sempre maggiore curiosità degli allievi nello scoprire qualcosa di diverso che non sia il solito mainstream. Credo che in Italia manchi un’educazione all’ascolto, finché si continua con il flautino alle elementari non si andrà da nessuna parte…».

E Italia’s Got Talent?
«Abbiamo partecipato quest’anno, dopo due anni fermi per le note cause, per cercare di portare in televisione il nostro lavoro».

Come siete strutturati nella “band”?
«Paolo Tarolli è il nostro baritorno e beatboxer, il batterista vocale, Guido Giordana è tenore e baritono, Giulia Cavallera soprano, io basso e baritono, mentre Andrea Trona è il nostro sound designer. Io mi occupo degli arrangiamenti, mentre Andrea lavora sui live looping, che usiamo spesso, e sugli effetti sulle voci che sembrano strumenti musicali. È uno scambio continuo, elaborazioni di suoni vocali che diventano elettronici e viceversa. Il risultato è una sonorità piuttosto unica, dalle nostre ricerche ci sono solo due, tre gruppi nel mondo che fanno ciò».

Quando avete deciso di diventare Rebel Bit?
«Siamo nati ufficialmente nel 2018 con l’idea di ricercare sonorità particolari, ma abbiamo impiegato un paio d’anni a mettere a punto il progetto. Dietro c’è tanta ricerca e studio. Ora, oltre al disco, che abbiamo iniziato a portare nei teatri, continuiamo a presentare un musical basato sul Piccolo Principe di Antoine de Saint-Exupéry, che abbiamo chiamato Paper FlightS. Il nostro obiettivo è quello di far conoscere l’arte del canto corale a cappella in uno spettacolo teatrale strutturato, accompagnato da una scenografia e da supporto video».

Foto Enzo Fornione

Una curiosità, come scegliete i brani e quanti sono di vostra composizione nell’EP che avete pubblicato? Il traino di Come è Toccaterra, canzone contenuta nel disco omonimo d’esordio di Emma Nolde (2020). Tra l’altro un lavoro e una cantautrice molto interessante…
«Nella composizione dell’album siamo partiti da un’idea di ciò che volevamo esprimere, in questo caso il cambiamento, il guardare oltre. Toccaterra della Nolde è un brano che ha scelto Giulia, per dare spazio al nuovo cantautorato femminile. Vince chi molla di Niccolò Fabi l’ho scelto  io perché mi trovavo in un periodo particolare della mia vita e l’ho arrangiato in base a quello che sentivo. Walk on Water dei Thirty second to Mars è nato nel 2019 per un festival di Fossano. L’abbiamo registrato live con un coro di sessanta elementi più diverse voci importanti di cori europei. Di cover c’è anche Trusty and True di Damien Rice. I nostri due brani originali, Scatto Lento e Not a Fairytale, li abbiamo composti in un ritiro di tre giorni sulle montagne dalle nostre parti…».

Il titolo del disco, Come, si presta a diverse interpretazioni…
«Sì è una doppia lettura, come stiamo cambiando noi e “come”, in inglese, venite, seguite la nostra strada, quello che Damien Rice continua a ripetere in modo ossessivo in Trusty and True…».

Anche la cover non è stata scelta a caso…
«È la scena finale del film Truman Show, il protagonista si rende conto che la sua vita è tutta finta, lo è anche il cielo. E nel cielo trova una scala che lo conduce a una porta, l’ingresso nel mondo reale. L’omino con la valigia è Guido…».

State preparando un altro lavoro?
«Stiamo iniziando a pensare al volume II di Come. Ora stiamo seguendo un progetto didattico particolare che vedrà la luce a metà 2022. Voce ed elettronica in collaborazione con la Fondazione Fossano Musica. Se non si parte da lì, dalla cultura…».

Tre dischi per difendersi dal freddo…

Scrivo da una Milano fredda e senza sole. Per scaldarmi il cuore sono andato a cercare un po’ di dischi che mi aiutassero a vivere questa giornata uggiosa. Ne ho scelti tre, usciti tutti lo stesso giorno, il 12 novembre scorso. Ve li consiglio, perché si spazia da melodie made in “new” Brazil a brani scritti 50 anni fa e mai pubblicati fino a una sensuale e grande voce sudafricana.

1 – Leonardo Marques Presents: Ilha do Corvo Sounds, Vol. I – Artisti Vari

Un Brasile diverso quello di Leonardo Marques, 43 anni, musicista, produttore, discografico, ingegnere del suono di Belo Horizonte, Minas Gerais. Se lo avete già ascoltato,  si sente nitida l’influenza della scuola mineira, quella di cui vi ho già parlato in altri post, che trova in Milton Nascimento (mineiro di adozione), Lô Borges, Beto Guedes e molti altri musicisti un modo molto particolare, ricercato, intimista di interpretare la MPB. Leonardo è il patron della Ilha do Corvo, uno studio di registrazione famoso per la grande attenzione di Marques all’uso di strumenti e attrezzatura “vintage”, la firma sonora che caratterizza le sue produzioni. In questo primo volume ha raccolto dieci brani di artisti della regione che hannoåc inciso in quello studio molto particolare. Un collage di brani arioso, molto anni Settanta: c’è Gui Hargreaves con Pra Ela, Bernardo Bauer con Coragem, lo stesso Marques con due brani, Acordei e Ilha do Corvo, Douglas Scalioni Domingues con Saideira

2 – Antoher Side – Leo Nocentelli

Chitarra acustica e voce. Brani “vecchi” di cinquant’anni che solo una ventina di giorni fa hanno visto  la luce sotto forma di disco. Leo Nocentelli, 75 anni, di New Orleans, il  chitarrista del gruppo funk The Meters, nel 1971 in una pausa con la band, aveva deciso di darsi al “cantautorato”. Folk e funk, una chitarra e un incedere che seguiva i sui punti di rifermento, James Taylor, ma anche Crosby Still & Nash, è riuscito a confezionare brani da roots rock che, per uno di New Orleans, crocevia dove si dice siano nati blues, jazz e rock’n’roll, è pressoché pleonastico. Comunque sia, questo disco è un bel tuffo nei Settanta che riesce a rendere brillante anche una opaca giornata autunnale. Divertitevi con brani come Give Back My Loving, Thinking of a Day, You’ve Become a Habit, dove Taylor è la stella polare… Ultima gemma, una versione di Your Song di Elton John, che ricorda negli assoli di chitarra acustica il grande Jim Croce…

3 – Thetha Mama – The One Who Sings

Dietro The One Who Sings si nasconde Zolani Mahola, 40 anni, cantante, narratrice, attrice molto famosa in Sudafrica e non solo. Lei è stata per diciassette anni la frontwoman dei Freshlyground, band importante e di rottura in quella parte d’Africa. Conosciuta dai fan con vari nomi – nessuno scelto da lei, piuttosto mutuati dai personaggi che ha interpretato – ha deciso di adottare il nome con cui la ricordano ultimamente, e cioè, il semplice “Quella che Canta”. Focus su se stessa, sulla necessità di collegarsi alla famiglia, agli antenati, alla natura. Il lavoro per lei che ha cantato con Stevie Wonder, Robbie Williams, BB King, Shakira, è una ricerca su se stessa come donna e come artista. Thetha Mama è tutto ciò, l’album della rinascita. Da Wawundithembisile, brano che ha lanciato il disco, alla stessa Thetha Mama cantata con l’accompagnamento alla chitarra di Derek Gripper. Un gran bel lavoro!

Interviste: Beppe Dettori, Raoul Moretti e le tante “Animas”

Beppe Dettori e Raoul Moretti in concerto – Foto Claudio Muzzetto – PHOTO&PANO

Echi lontani, etno folk, progressive rock, preludi bachiani, cori millenari. Quando mi sono trovato ad ascoltare Animas, lavoro uscito nel maggio scorso dalla creatività di Beppe Dettori e Raoul Moretti ammetto di essermi sentito perso in una dimensione dove tempo e generi non esistono. Ci sono solo parole e armonie che si fondono per chi ha la pazienza e la curiosità di ascoltare. Esattamente il punto di forza di questo album. Un’isola dove convivono suoni e canti creati con il chiaro intento di raccontare. Un ricordo, una storia, una sensazione, un’emozione. Ho citato isola non a caso, visto che i due artisti vivono in Sardegna.

Beppe è nato a Stintino e Raoul, comasco di nascita, da una decina d’anni ha scelto Cagliari come suo luogo di vita. Nel mio lavoro di autostoppista musicale la Sardegna è un luogo magico, come la Sicilia. Isola sonora (ne avevo parlato con Paolo Fresu qualche settimana fa), dove il crocevia di popoli e culture ha fatto sì che anche la musica, espressione popolare, venisse contaminata. Isola legata alle tradizioni, da cui riparte alla ricerca di nuovi orizzonti musicali.

Beppe e Raoul sono due esempi cristallini di quello che ho scritto sopra. Il primo, virtuoso della voce – è stato per otto anni anche il cantante dei Tazenda – il secondo, diplomato al Conservatorio in arpa, è una delle migliori espressioni di questo strumento in Italia e non solo. Dopo la formazione classica s’è dedicato allo studio e al suono dell’arpa elettrica che usa in vari modi (poi leggerete). Suonano insieme da alcuni anni. “Ci siamo trovati”, dicono entrambi, e “ci divertiamo un sacco a far musica insieme, soprattutto dal vivo, un proficuo scambio artistico”.

In Animas ci sono collaborazioni importanti e varie. I Tenores di Bitti Remunnu ‘e Locu, i Cordas et Cannas, i Concordu e Tenores de Orosei, Paolo Fresu, Franco Mussida, Davide Van de Sfroos, Gavino Murgia, Flavio Ibba, Alberto Pinna, Daniela Pes, Lorenzo Pierobon, i FantaFolk, Andrea Pinna, Giovannino Porcheddu, Massimo Canu e Federico Canu, Massimo Cossu… Un ensemble che ha avuto piena libertà di espressione nel suonare o cantare i brani composti dal duo.

Si tratta di dieci inediti e una cover, l’ultimo brano dell’album, la rivisitazione in sardo di una canzone di Peter Gabriel, Fourteen Black Paintings – che qui è diventata Battordicchi Pinturas Nieddas – dall’album Us, non una delle più conosciute, ma sicuramente una delle più affini a Beppe e Raoul, grandi fan dell’ex-frontman dei Genesis e del suo percorso personale nel prog e nella worldmusic. Fra l’altro, Gabriel da anni è un assiduo frequentatore della Sardegna, dove ha casa vicino alla Costa Smeralda.

Come sono solito fare, per capire la nascita di un album così denso di riferimenti stilistici ed emozionali ho deciso di fare quattro chiacchiere con loro. Abbiamo parlato del disco e, poi, siamo finiti, come dei ragazzini alle loro prime scoperte musicali, a raccontarci di questo o quell’altro artista, della musica che si ascoltava e di quella che si sta ascoltando, delle abilità di certi musicisti di fare più cose contemporaneamente sul palco… Insomma, tre amici al bar davanti a una birra e con l’entusiasmo per la stessa passione.

Parto subito diretto: cosa rappresenta per voi Animas?
Beppe – «Quello che noi siamo. Dentro al disco c’è tutta la mia esperienza, ci sono vari generi musicali che mi piacciono. Raoul viene da studi classici, io dalla musica leggera. Ho studiato lirica per qualche anno e poi ho virato verso il pop. Insieme, con le nostre differenze, ci divertiamo tantissimo. Le nostre anime si divertono. Questo è un progetto studiato apposta per il palco, il live. Abbiamo deciso di metterlo anche su un supporto meccanografico con l’idea di “archiviare” questo lavoro, lasciarne traccia. Fino a qualche anno fa suonavamo in un gruppo i Dolmen Project, in quattro più una performer coreografica. Poi, come spesso accade nelle band, siamo rimasti in due. Raoul a Cagliari, io a Sassari e per suonare ci siamo trovati a metà strada, a Oristano!».

Avete fuso parecchi generi musicali, dal folk al prog…
Raoul – «I generi mi (ci) stanno stretti. Sono molti quelli che ci dicono: “Musicalmente non riusciamo a collocarvi”. Sono cresciuto con il progressive, il Rock e le radici folk dell’arpa, quindi, celtiche e sudamericane. Sono comasco di nascita e crescita ma in Sardegna ho trovato un terreno prolifico per la musica che voglio fare e collaborazioni meravigliose».

A proposito di di Sardegna, perché quest’isola vanta così tanti musicisti e di varie estrazioni?
Beppe – «Perché è un territorio adatto a liberarsi da tante costruzioni mentali. Qui c’è un’apertura totale alle connessioni e posso esprimere tutto quello che ho imparato. Con Raoul abbiamo deciso di far uscire qui la nostra creatività. Suonando in mezzo alla gente. Nel progetto live S’Incantu ‘e Sas Cordas, diventato un album (2019, ndr), ho lavorato su vari linguaggi per la vocalità. In S’incantu I e II il testo non ha significato, sono frasi inventate, parole in diverse lingue che mi interessava inserire per ottenere un determinato ambiente sonoro della voce».
Raoul – «Nel nostro lavoro, nei live c’è tanta improvvisazione anche in pezzi con strutture ben definite. Ci riserviamo dei momenti “liberi”, che poi è la filosofia che sta alla base del jazz. Per esempio, il brano di Gabriel, Battordicchi Pinturas Nieddas, non lo facciamo mai uguale dal vivo. Nel disco c’è l’intervento dei cori dei Tenores di Bitti e di Lorenzo Pierobon, sul palco il brano si svuota, c’è solo l’arpa, la chitarra e la voce di Beppe, si dà più spazio ai silenzi».

Quindi Animas è un lavoro di sottrazione?
Raoul – «Effettivamente con le collaborazioni ci è sfuggita la mano, abbiamo invitato tanti artisti, amici, lasciandoli liberi di esprimersi e l’album è ricco di tutto ciò».
Beppe – «C’è molta introspezione in Animas. Ci siamo tenuti sulle note bordone sulle quali appoggiare e giostrare armonie in quella tonalità che è madre e padre».

Beppe Dettori e Raoul Moretti – Foto Claudio Muzzetto – PHOTO&PANO

Beppe tu lavori molto anche sul canto diatonico…
«Più che diatonico, è difonico. Il canto armonico mi appassiona molto, l’ho studiato e continuo a farlo. Può sembrare di origine orientale, in realtà, da oltre 4mila anni si usa anche in Europa: i canti nuragici esistevano già duemila anni prima di Cristo. D’altronde la struttura del canto a tenore (inserito nell’Unesco tra i Patrimoni orali e immateriali, ndr) non è altro che il tentativo di connettersi alla natura attraverso le imitazioni dei tre animali importanti per la vita dell’uomo in migliaia di anni, su bassu, un suono baritonale, gutturale che rappresenta il bue, sa contra, il contralto, la quinta sotto, è il verso del muflone, mentre sa mesu oghe, la mezza voce, il belato dell’agnello.  Il pastore è la voce solista, su tenore, quella che dà il senso al motivo. Di solito è una poesia, non necessariamente scritta, può essere anche di tradizione orale. Il solista ha il potere di scegliere lo stile (da ballo, d’ascolto, di musica sacra), sempre comunque connesso con la natura. Il muggito del bue è dato da un uso delle false corde (quelle di cui si servono anche i monaci tibetani o le versioni growl del metal, ndr).

Raoul, curiosità mia, come ti sei appassionato all’arpa?
«È stato puramente casuale. In realtà agli inizi degli anni Novanta l’arpa aveva ben poca diffusione, soprattutto tra gli studenti maschi del conservatorio. Avevo cominciato, infatti, con il pianoforte. Quando si trattò di scegliere l’altro strumento di studio obbligatorio, qualcuno mi suggerì di mettere l’arpa perché pochissimi la seguivano. Grazie ai miei insegnanti mi sono appassionato al punto di farlo diventare il mio strumento di studio principale e, poco a poco, abbandonare il pianoforte. Durante il percorso accademico ho iniziato a vederlo come uno strumento dalla grandi possibilità anche fuori dai canoni orchestrali. Infatti, con i miei amici,  suonavo rock con l’arpa. È stato lì che mi sono interessato all’arpa elettrica. Ho passato notti a casa di Francesco Zitello, un grandissimo arpista, ascoltando e suonando. Negli ultimi anni il nostro strumento sta prendendo sempre più visibilità». «Usa il distorsore!», interviene Beppe. E continua: «E poi fa lo slide con un cacciavite, potrei raccontartene tante su Raoul e l’arpa…». (Raoul ride e continua): «Con l’arpa elettrica faccio assoli simili o uguali a quelli della chitarra elettrica, spesso uso anche l’archetto per suonarla…».

Ditemi a quale brano di Animas siete più affezionati…
Beppe – «Non è semplice, però, fammi pensare… beh, credo sia Figiura’, dove ha collaborato Franco Mussida. È uno sfogo consapevole su cosa siano la vita e la morte. L’ho scritta in un periodo particolare della mia vita. Con il Covid ho perso una sorella, ho così riflettuto sulla perdita, sul vuoto che rimane, ho cercato di farmene una ragione. Un altro brano, che è collegato al precedente, è Eziopatogenesi, tecnicamente lo studio delle cause di una malattia e di come questa si manifesta, un gioco ironico per vincere la paura di ammalarsi. Come venirne a capo? Affidarsi alla medicina allopatica o ai rimedi omeopatici? Ognuno reagisce a suo modo. Abbiamo voluto esorcizzare tutti questi timori quanto mai attuali».
Raoul – «Difficile dire quale brano preferisco, ognuno ha avuto la sua genesi. Se Beppe è legato al contenuto di Figiura’ ed Eziopatogenesi, io lo sono per questi due brani a livello musicale, alla partitura. La prima nasce da un tema di un brano solista che ho improvvisato sul palco durante un concerto».

Che musica state ascoltando in questo momento?
Beppe – «Bella domanda! Posso risponderti che ho avuto modo di incontrare Ambrogio Sparagna (musicista importantissimo non solo in Italia per i suoi studi sulla musica popolare, ndr). Il suo ultimo lavoro, un cd book realizzato per i 700 anni dalla morte di Dante Alighieri dal titolo Convivio – Dante e i cantori popolari, è molto interessante. Ha preso alcune terzine, quelle più conosciute della Divina Commedia, facendole cantare da voci “estreme” come quelle di Raffaello Simeoni e Anna Rita Colaianni, messa in musica dai solisti dell’Orchestra Popolare Italiana dell’Auditorium Parco della Musica di Roma (c’è anche un prezioso intervento di Francesco De Gregori, ndr). Poi c’è il messicano Israel Varela, batterista e pianista che collabora con la cantante italiana Serena Brancale, c’è tanto flamenco e tanto jazz. Poi, continuo ad ascoltare Peter Gabriel e Nusrat Fateh Ali Khan, quest’ultimo mi ricorda quanto circolare sia la musica…»”.
Raoul – «Tra i miei ascolti c’è sempre Peter Gabriel! Ora sto interessandomi a progetti provenienti dalla Scandinavia, con una virata ad autori italiani. Vabbè te lo rivelo: tutto ciò perché Beppe mi sta convincendo/costringendo a cantare!».