Interviste: Terzino in Fuorigioco? Parola di Tommaso Novi!

Tommaso Novi – Foto Claudia Cataldi

Ma i cantautori esistono ancora? Domanda legittima e provocatoria. Certamente non sono, e ormai da decenni, mainstream. Hanno ceduto il posto al rap e alla trap che è diventato il nuovo pop. Spesso, brani tirati via, testi rapidi che parlano di un disagio che, se all’inizio era sincero, oggi è solo un format perché, se fai quel tipo di musica, puoi diventare un altro Fedez o Sfera Ebbasta. Prima nell’ideale dei giovani c’era il calciatore, ora c’è il rapper. Soldi, soldi soldi…

L’autotune spinto risulta quasi pornografico, storpia voci che altrimenti non esisterebbero, i bit sono per lo più sempre sequenzialmente simili. Un orwelliano appiattimento al diktat comune. E i nostri cantautori? Alcuni si sono ritirati in silenzio lasciando brani fondamentali, altri, più giovani e ostinati, continuano a fare la loro musica non per il successo (ma se viene è meglio!), piuttosto per l’urgente necessità di raccontare storie che colpiscono e fanno discutere. Il modo di vedere dell’artista, in una società democratica e progressista, è importante tanto quanto un saggio di un prof. di filosofia o sociologia. Certo i modi di comunicazione sono diversi, il primo è accademico, quello dell’artista è, spesso, lucidamente visionario, un moderno veggente.

Riflettevo su tutto questo ascoltando un disco uscito una settimana fa o poco più. Si tratta di Terzino Fuorigioco, del toscano Tommaso Novi. Un lavoro dove parola e musica non sono mai per caso. Un album che riporta a echi del “primo” cantautorato. C’è l’ironia acida di Rino Gaetano, ci sono i sogni di Francesco De Gregori, i guizzi di Lucio Dalla, le visioni di Paolo Conte, conditi dalla toscanità, che non è affatto un dettaglio.

Un disco interessante, per un cantautore che, prima di tutto, è un musicista di lungo corso – assieme a Francesco Bottai (ascoltatevi Vite Semiserie, del 2017) formò un gruppo “storico”, i Gatti Mézzi, jazz, folk, swing, causticità di due pisani – pianista di formazione classica, docente di fischio, avete capito bene, fischio, creatore di un metodo che insegna anche al conservatorio… Insomma uno di quei musicisti che calzano a pennello l’idea che ha Musicabile sul valore della musica.

E… sì! L’ho intervistato, ho voluto scambiare opinioni, storie e futuro con Tommaso, una bella chiacchierata, sana, sincera, divertente… abbiamo discusso di cantautori, musica mainstream, di terzini fuorigioco(!), amori perduti e desiderati, spigole e impresari…

Tommaso, ti ho chiamato per parlare del disco, certo, ma anche per scambiare opinioni con te sul cantautorato italiano. Partiamo da qui, se ti va…
«Bella domanda! (attimi di silenzio e riflessione, ndr)… Siamo in un periodo storico di grande sovraesposizione della musica: dischi, per lo più singoli, sfornati ogni giorno. Una raffica di parole che ti assalgono…».

Talmente tanti che fanno pensare a un appiattimento…
«Le tecnologie hanno cambiato radicalmente il mercato e il gusto del pubblico. Il cantautorato… beh, vive ancora ed è profondamente diverso dal mainstream. La differenza principale è che, in questo caso, si ascolta il punto di vista narrante di un artista che il pubblico coglie come una nuova visione di un determinato contenuto. Il mainstream oggi è un esercito di voci che vuole dire qualche cosa e lo fa gridando slogan senza una narrazione. Dacché l’uomo esiste, la narrazione è un atto fondamentale, lo si faceva un tempo attorno a un fuoco, lo si fa oggi in un teatro. Questo sta svanendo, o per lo meno, è molto contenuto. Perciò mi chiedo: “Oggi c’è davvero bisogno di un cantautore, di una storia da raccontare, oppure servono solo messaggi compressi?”».

La risposta?
«Vedo un disastro. Non mi ritrovo in questo panorama di voci urlanti. Sono vecchio, ho 42 anni, vado per i 43. Però allo stesso tempo rifletto. È possibile, proprio perché sono di una generazione diversa, che faccia l’errore che faceva Salieri ascoltando Mozart? Me lo chiedo spesso. Sono anche un insegnante di pianoforte. I miei giovani allievi mi propinano i loro ascolti. Di primo impatto, inorridisco, ma so che devo fare uno forzo, perché in alcuni di questi ascolti c’è contenuto. Quest’anno, dopo molto tempo, mi sono imposto di vedere il Festival di Sanremo. C’era una ragazzetta, Madame, che diceva cose grandissime. Siamo vecchi, ma il bello riusciamo ancora a distinguerlo. Poi, ascolto Brunori, vedo che al prossimo festival c’è Giovanni Truppi e allora mi dico: “Forse c’è ancora un barlume di speranza!”».

Quello che non sopporto, sarò vetusto, un arnese desueto, ma mi fa diventare una bestia, è l’autotune. Lo trovo ovunque, è il gonnellino di paglia di uno che ha paura di stonare, non vedo nulla di artistico, accidenti…
«L’autotune mi uccide! L’altro giorno ho presentato il disco ed è venuto a trovarmi il mio amico Andrea Appino (Zen Circus, ndr). Siamo finiti a parlare proprio di tutto ciò. Noi, alla fine degli anni Novanta e Zero la gavetta la potevamo fare girando tutti i locali d’Italia e guadagnando giusto giusto per coprire le spese. Oggi critichiamo tanto i talent musicali che consideriamo una scorciatoia, in realtà sono figli di un Paese sordo e cieco con gli artisti. Il Covid non ha fatto altro che esasperare l’esistente. Oggi non puoi andare in giro a suonare nei locali perché… non ci sono più. Molti chiudono, altri non riescono ad andare avanti. Se la situazione prima della pandemia era una palude di acque fangose, ora non c’è più nemmeno l’acqua sporca. Tutto secco, arido, con gli scheletri degli artisti che emergono…».

Immagine truculenta ma efficace. La famosa gavetta ti ha portato a creare con Bottai i Gatti Mézzi…
«Gatti Mézzi è stata un’esperienza gigante, è stato… tutto: ancora oggi ho la sensazione di aver sognato quel periodo. Ho imparato a vivere il palco, una gavetta fondamentale: abbiamo fatto circa 700 date in una decina d’anni, pubblicato sei dischi…».

Perché è finita?
«La verità è che ci avevano strizzato troppo. Eravamo stanchi, avevamo detto tutto, dunque, felici di aver concluso. Però mai dire mai… da vecchi questo progetto potrà, chissà, essere ripreso!».

Foto Claudia Cataldi

Veniamo a Terzino Fuorigioco, hai impiegato un paio d’anni a scriverlo
«Ho iniziato nel lockdown, come molti altri, l’ho fatto con tutta calma. Però avere troppo tempo a disposizione non porta bene. Ci sono tante canzoni che, nel tempo, iniziano a puzzare, invecchiano. Avevo questo timore prima di pubblicare il disco, ma siamo stati attenti che ciò non succedesse. L’abbiamo curato con molta attenzione. Ringrazio i miei produttori che mi hanno messo disposizione uno studio che posso usare sempre, tutti i giorni. Stare lì dentro mi fa sentire bene, è bello sedersi al mixer e riascoltare, lavorare artigianalmente…».

Mi piace come scrivi, per esempio, in Aria, canti: «Un giorno riuscirò a bere amaro un caffè…».
«Aria è una canzone d’amore dove metto sul piatto una serie di buoni propositi, da quelli più nobili ai più banali. Bere il caffè amaro è uno di questi ultimi. Ma davvero, è un proposito che ogni tanto mi faccio, ma non so come si fa… il caffè amaro non è affatto buono!».

In Spigola, altro brano, racconti: «Non è bastata la neve a Catanzaro per ricordarmi di stare più leggero»…
«(Ride, ndr). Come fai a ricordarti quella parte! Ti spiego: all’epoca mi garbava una ragazza. Lei stava a Catanzaro e postò una foto sui social con la neve in città assieme al suo fidanzato. Mi ha fatto arrabbiare moltissimo e quell’immagine mi è rimasta impressa!».

Terzino a Fuorigioco, mi ricorda La Leva Calcistica del ’68 di Francesco De Gregori…
«Giusto! L’ho fatto consapevolmente. È un brano degregoriano. È la canzone cha dà il titolo all’album. È una canzone che parla di me. Il terzino è un gregario, io mi sento un gregario, ma poi ho dei guizzi, vorrei osare, ma finisce che mi sento fuori luogo. A 42 anni mi chiedo: “Sono davvero nella posizione giusta nel campo da calcio, lì dove dovrei essere?”. Se ci pensi, nel calcio un terzino fuorigioco o è un pazzo o un genio!».

L’ultimo brano del disco è dedicato al tuo impresario. Ma l’hai fatto davvero?
«Sì, Il Mio Impresario è proprio dedicato al mio impresario, Luca Zannotti, di Musiche Metropolitane. È un pezzo d’amore puro dedicato a quest’uomo. Perché è un elemento essenziale del mio lavoro. Oggi a un artista si richiede di essere più figure allo stesso tempo, imprenditore di se stesso, manipolatore di strumenti di marketing, essere presente sui social sennò sei considerato sparito… Tutto questo mi fa incazzare tantissimo. Dedicargli un brano è un modo per stimolarlo, che trovi per me uno spazio tra i Black Sabbath e Iva Zanicchi, come canto».

Come ha reagito Il Tuo Impresario che “vola più alto per cercare il sole”?
«S’è emozionato, molto. Ai concerti faccio sempre un teatrino, quando la canto lo chiamo sul palco e lo abbraccio. E lui si commuove ogni volta».

Cosa ti aspetti da questo disco?
«Sto imparando ad avere aspettative molto basse. Poi, sai, ogni creativo vede nella sua creatura un figlio. Ti posso dire quello che sogno: sogno di vincere un Premio Tenco, per me il primo, grande passo per fare cose importanti. E poi, sogno un vero tour, diobono!, come si facevano un tempo».

Ultima domanda: sei anche un esperto di fischio, credo uno dei pochi al mondo che sia riuscito a farne una materia di insegnamento…
«A quanto mi risulta siamo solo un indiano e io… Il fischio è una costante in tutte le case degli italiani, siamo un popolo fischiante da sempre! Nonno e papà fischiavano. Ho iniziato da piccolissimo per imitarli. Ero un bimbo molto agitato, iperattivo, avevo molti tic nervosi, quindi fischiavo sempre, era più un segno di disagio che un diletto. Fischiavo tutto il giorno, così a 20 anni mi sono trovato uno strumento musicale formato. In una serata alcolica degli amici mi chiesero di insegnare loro a fischiare. A casa ho iniziato a mettere giù degli appunti per spiegare. Quelle poche annotazioni sono diventate un libro, un manuale e, quindi, un metodo. Dopo 15 anni di progettualità e insegnamento, il conservatorio Luigi Cherubini di Firenze mi chiama per tenere lezioni, fatto che mi onora tantissimo, ho anche registrato un brano (Un fischio esagerato, ndr) con il maestro Nicola Piovani per la colonna sonora del film Una Festa Esagerata di Vincenzo Salemme. Un’esperienza che serberò per la vita, quel giorno, a Roma, sono ingrassato di venti chili!».

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