Interviste: Electric Sheep Collective, ne sentirete parlare!

Fifty years ago in Vietnam… People were fighting for nothing.

Right now, in Afghanistan, Indonesia, Burundi, Colombia, Congo, Philippine, Yemen, Libya, Nigeria, Syria, Somalia, Sudan… (People are) still fighting, killing each other, fathers, mothers, sons, daughters, sisters, brothers… friends… human beings.
People are fighting every day. Fighting for money, fighting for more petrol, more authority, more richness.

So, if you don’t want any war, Say Nope to racism
Say Nope to exploitation
Say Nope to segregation

Say Nope to violence

Let me take your minds to the fact just yesterday I was watching in CNN, I see the destruction of Syria, middle East on crisis! I see the atrocity committed by my black brothers I could not comprehend them I said to myself that this fucking word is coming to an end…
The rich always want to oppress the poor. They take advantage of their weakness …is a useless world where we live and where we die… please don’t take this personal.

Say Nope to racism
Say Nope to exploitation Say Nope to segregation Say Nope to violence

Some believes in wars. For me, I don’t believe in war, I don’t believe in fight, because so many warriors are dead. I am the last man standing, I got so many names like I had the feeling my name will be lost. On top of the highest mountain, I was named great Joe Nize, my hands above my head, my belts fit my shoulders, my aim is to make the street alright. No more crime, everywhere will be peaceful like that’s of river Nile I can see it from miles. Good Italy, good people, peace is what I see

Evocativo, vero? Quanto mai attuale, visto il periodo. Il brano si intitola Nope e potete ascoltarlo, come del resto l’intero album uscito poche settimane fa dal titolo Nope-Hope, su Bandacmp. È il primo lavoro di un collettivo chiamato Electric Sheep Collective. Suonano da molti anni insieme, ma hanno deciso di pubblicare solamente quando hanno trovato il loro giusto – e complesso – equilibrio creativo.

Torniamo a Nope: come avrete capito, l’invocazione in forma di spoken word alla Gil Scott-Heron, è una denuncia contro le guerre. Troppe contemporaneamente sul nostro Pianeta – il collettivo non poteva prevedere l’invasione “putinesca”, avendo inciso il disco prima. Troppa violenza, troppi interessi, si combatte sempre per soldi, per accaparrassi più petrolio, più potere, più ricchezza. A questo proposito: fresco fresco di stampa, vi consiglio di leggere l’editoriale su Domani, di Mario Giro.

Quella degli Electric Sheep Collective è una gran bella scoperta, sicuramente una delle più interessanti e qualitative ascoltate da un bel po’ di tempo a questa parte. Un lavoro che ha catturato la mia attenzione perché tutti e otto i brani dell’album (il titolo è la composizione del brano iniziale e di quello finale) sono stati composti, arrangiati, scritti insieme, da vero collettivo quale sono. Non si tratta di esecuzioni stucchevoli, ma vive, cariche di impegno con percorsi armonici non scontati, un groove che non è groove, ma molto di più, come vedremo tra poco. Stratificazioni attente per rendere in note quello che le parole raccontano.

Gli ESC sono italiani, vivono tra Roma, Latina e Viterbo, a parte Joe Nize, il cantante, nigeriano fuggito dal suo Paese e da anni in Italia. C’è poi Ashai Lombardo Arop, la voce femminile, italo-sudanese, nata a Genova, artista poliedrica, cantante, coreografa, attrice, danzatrice, insegnante di danza e teatro-danza. Joe e Ashai sono due punti di riferimento per la band. Sono tutti più o meno giovani, studi al conservatorio, impegnati socialmente, determinati nelle loro scelte di vita e arte. Il motore è Angelo Olivieri, trombettista di fama, uno che ha percorso molte vie del jazz, avendo ben chiaro da che parte stare nella musica e nella vita. E poi ci sono Vincenzo Vicaro ai sassofoni, Andrea Angeloni al trombone, Lewis Saccocci alle tastiere, Manlio Maresca alla chitarra, Joe Serafini alla consolle, Riccardo Di Fiandra al basso e Daniele Di Pentima alla batteria.

Vi consiglio di ascoltare questo disco. Ci sono richiami a Heron, appunto, ma anche Terri Lyne Carrington e ai suoi Social Science, ai Sons of Kemet, uno dei progetti di quell’istrione di Shabaka Hutchings, al trombettista americano Christian Scott aTunde Adjuda, c’è l’Afrobeat di Fela Kuti, c’è Tony Allen, si sentono, sparse e più elaborate, quelle punte afro-funk alla Michael Wimberly (mettete in cuffia il suo bel lavoro Afrofuturism pubblicato lo scorso anno).

Con cinque di loro mi sono collegato via streaming per conoscerli. Ne è uscita un’istruttiva conversazione durata un’ora e mezza, dove ho capito – ritorno all’intervista con Ferdinando Faraò dell’altro giorno – quanto siano importanti il confronto e la creatività messi a disposizione degli altri.

Domanda scontata, tanto per rompere il ghiaccio: come vi siete conosciuti?
Riccardo Di Fiandra: «Alcuni di noi hanno iniziato a suonare, giovanissimi, al limite della maturità (scherza Riccardo, ndr.), con Angelo (Olivieri, ndr) in un suo progetto, chiamato Zy Project. Sono stati anni di crescita, non solo musicale ma umana, di amicizia. Anche con Andrea Angeloni abbiamo suonato in un’orchestra insieme. Siamo tutti, innanzitutto, molto amici, c’è un rapporto di grande stima tra noi. Ed è un punto fondamentale. Quindi siamo approdati nel progetto Electric Sheep che Angelo ha ideato in questi anni con un lavoro di sintesi e di ricerca molto lungo… ed eccoci qua!».

Venite tutti dal conservatorio?
Riccardo: «Io e Daniele (Di Pentima, ndr) abbiamo studiato al conservatorio di Frosinone, anche Angeloni ha frequentato il conservatorio… sì, più o meno tutti veniamo da lì».
Angelo Olivieri: «Sono l’unico che viene dal conservatorio. Sono un autodidatta. Ho costruito la mia conoscenza musicale “alla vecchia maniera”, suonando; ho frequentato un sacco di seminari, scuole, non ho però il pezzo di carta in mano, che ho, invece, in altri ambiti. Anche Lewis (Saccocci, ndr), il tastierista, arriva dal conservatorio; Ashai viene da altre esperienze (si è laureata in Discipline Teatrali a Bologna, ndr), è una performer che ha molte frecce a disposizione. Joe Nize è come me».

Visto che Joe non c’è, potete raccontarmi come lo avete conosciuto?
Angelo: «Alla festa di compleanno di mio figlio (la figlia era una compagna d’asilo). Di lui sapevo poco, mi dissero che prima di scappare dalla Nigeria era un cantante professionista, aveva un ingaggio, una casa discografica, faceva una musica chiamata Afrobeats, con la esse finale, che non ha nulla a vedere con l’Afrobeat. Essendo nigeriano, però, aveva una venerazione per Fela Kuti. L’incontro con Joe è avvenuto per caso, ma nel momento più giusto: come collettivo eravamo in forte impasse: avevamo capito che il nostro sound aveva bisogno di una voce che narrasse delle storie e, soprattutto, ci serviva quel tipo di ritmica, non rap ma spoken word. Avevo iniziato a girare tra Roma e Viterbo intervistando africani a cui chiedevo che mi raccontassero a loro modo opinioni rispetto a certe tematiche. Con Joe Serafini, il nostro dj, montavamo in studio le voci per vedere che effetto facevano unite alla nostra musica. Abbiamo sentito anche Joe: era perfetto. Questo accadeva quasi sei anni fa. Con Ashai, invece, è nata proprio l’esigenza di avere un’altra voce per essere completi. Poi abbiamo deciso che eravamo già tanti e poteva bastare così».

Siete un bel gruppo effettivamente…
Angelo: «La nostra idea di musica è una sorta di piazza, una piazza condivisa, dove le voci sono tante. Esistono, però, dei limiti logistici. Sarebbe bello dare spazio a molte altre voci dentro la nostra musica, perché vorremmo fosse la colonna sonora di un tempo, e, attraverso questi brani, poterlo anche cambiare. Le prime parole del nostro primo brano del nostro primo disco sono più che mai attuali. Pensa che l’abbiamo scritto in occasione del cinquantesimo anniversario dell’inizio della guerra in Vietnam…».

Nel vostro fare musica siete attenti a presentare “senza filtri” il mondo come è oggi…
Angelo: «Per noi è un’esigenza, sono un po’ le nostre storie. Joe è un uomo scappato da una sorta di guerra, quando suonavamo in un’orchestra c’era un signore ucraino che suonava il trombone. È il nostro vissuto, abbiamo frequentato e lavorato con persone fuggite da tragedie. Si rischia di essere ovvi a parlare di discriminazioni, a dichiararsi contro il razzismo. Ma evidentemente non lo siamo così tanto. Non basta aver cantato un miliardo di volte Imagine di John Lennon, capirne il significato ma continuare ad ignorarlo. Sono stanco di essere trattato da utopico, perché mi sembra molto più utopico far esistere un mondo dove si rischia un conflitto nucleare che non uno dove è normale passare da un confine all’altro. Ho una vita di ricercatore al CNR, un phd in fluidodinamica, mi sono occupato di navi e, come puoi capire, non tutte le navi sono fatte per trasportare i pesci. A certi progetti ho detto no, ci vuole coerenza…».

A parte Angelo (classe 1968), siete tutti molto più giovani…
Vincenzo Vicaro: «Mi colloco, come età, esattamente a metà tra Riccardo, Daniele e Angelo. Ricordo i conflitti nei Balcani, che avevano un altro connotato. Il contesto attuale è unico. Si vivono paradossi mediatici, pensa alla Prima guerra del Golfo. Non puoi permetterti, come sta facendo qualche nostro politico, di stare di qua e di là allo stesso tempo, vieni sgamato subito. Noi non siamo utopici. Cerchiamo di vivere il mondo che vorremmo, lo fa Joe, puro nella fonetica, ma duro, e noi con la musica. Il nostro è un sodalizio che nasce prima del conservatorio, la nostra relazione è scevra da diplomi e lauree. Siamo un gruppo di amici da oltre dieci anni, ci confrontiamo di continuo su tutto, siamo uniti. La musica è un mezzo per intrattenere, ballare, raccontare. Tanti artisti se ne dimenticano, diventando astratti… dei dadaisti concettuali!».
Riccardo (scherza, ndr): «Bella questa! Te l’eri preparata?».
Angeloni: «Ci siamo conosciuti – non a caso – in un’orchestra multietnica, dove non esistevano né barriere musicali né confini di altro genere. Stiamo vivendo un periodo molto complesso ed è importante che le radici di questo collettivo provengano da un percorso senza barriere, confini né limiti. Angelo, con il suo lavoro ha contribuito non poco a ottenere tutto ciò. Prendi il jazz: nella sua forma più idiomatica ha anche lui molti limiti. È difficile dare una connotazione a quello che suoniamo, perché è frutto di tante esperienze. C’è il jazz, certo, c’è quello che ha fatto studi classici, l’altro che ha studiato improvvisazione, è una storia eterogenea, ideale…».

Infatti la vostra musica non è definibile classicamente “jazz”, siete piuttosto vicini ad altre esperienze, per esempio, ai Sons of Kemet, a Shabaka Hutchings…
Andrea: «Rispondo io perché seguo Shabaka da una decina d’anni e non solo lui, anche i suoi musicisti. Noi prendiamo quell’energia anche dal gruppo degli Ancestors (band sudafricana che ha suonato anche con Shabaka, in un altro progetto del vulcanico barbadiano, ndr). Gli Ancestors sono nati in contemporanea con la nostra musica. Abbiamo notato il messaggio di unione che ha voluto trasmettere Shabaka. Fanno session di improvvisazioni lunghe, qualità e interpretazione dei singoli è fondamentale, ma l’energia è quella che nasce dallo stare insieme».

C’è molta Africa nel disco…
Angelo: «C’è ed è precedente all’incontro con Joe Nize. È colpa mia, risale a tanti anni fa, mi ha catturato. In realtà, la matrice di tutta la musica afroamericana che ascoltiamo è… completamente africana! Il Blues, come le poliritmie sono già nella musica africana. La parte americana dell’afroamericana può essere lo swing. Ho conosciuto uno dei primi suonatori di Kora arrivati qui in Italia, Madya Diebate, ho suonato tanto con lui e ho ascoltato un repertorio infinito di musica del Senegal e del Mali. L’ho sentita molto vicina: sono nato a Pitigliano, nota come La piccola Gerusalemme, a cui abbiamo dedicato il terzo brano (Little Jerusalem) dell’album. Ho in testa la musica ebraica sefardita che comunque c’è ancora nell’aria del borgo. Ma non ci sono solo io! Daniele (Di Pentima, srl) è anche uno dei migliori suonatori di tabla che abbiamo in Italia. Ogni tanto se ne va in India a perfezionare lo studio e con Riccardo ha costruito un progetto sulla musica indiana. Nell’Electric Sheep Orchestra c’è un delirio di roba, per questo abbiamo impiegato tanto a pubblicare il primo disco. Avevamo bisogno  di far decantare il tutto».
Daniele: «Tempo per canalizzare molte suggestioni e non solo musicali! Anche ideologiche e di pensiero».

Avete composto un pezzo dedicato a Fela Kuti, This Is For Fela. Mi raccontate il vostro rapporto con il groove?
Angelo: «Abbiamo lavorato molto sull’idea di groove. Sette, otto anni fa, durante una cena a casa di Vincenzo, sostenni che dovevo capire come si potessero trasferire umanamente le imperfezioni della macchina nel linguaggio musicale. Quello che ha fatto un po’ J Dilla e che Chris Dave ha in qualche modo codificato a livello di copia. La mia idea, forse l’unica cosa utopica, era: riusciamo a fare qualche cosa che abbia nell’incertezza un punto cardine e che mantenga il groove? Tutto ciò ha a che fare con i miei studi di fluidodinamica, con i flussi turbolenti: sembrano caotici ma in realtà, dietro al caos, c’è un ordine. Così è anche nella musica. Stiamo ancora lavorando per creare un qualcosa di imperfetto, ma perfetto, un groove non groove, un po’ come la musica africana».

Prendiamo ad esempio il secondo brano, Afriks…
Angelo: «Afriks l’avevo inciso una decina d’anni fa ma non l’ho mai pubblicato perché non suonava come doveva, suonava “dritto”. Fatto così, com’è nel disco, ora ha un senso, è una cosa che groova, anche se ci sono miriadi di irregolarità lì dentro, che hanno tutte un senso comune».
Riccardo: «Questo approccio alla pulsazione, quasi coreutico, siamo stati in grado di realizzarlo dopo tanti anni di studio, confronto, prove, anche grazie a un background comune legato a un certo tipo di freejazz».

C’è stato tutto il freejazz anni Sessanta…
Riccardo: «Lì c’era un’idea di pulsazione regolare, non scandita, ma comunque costante, che ti abituava a una sequenza di impulsi regolari. Sono due musiche apparentemente distanti che però si ritrovano, non è che suoniamo a caso! È tutto l’aspetto del freejazz, legato nell’approccio ritmico e nell’habitus del suonare ritmicamente in un contesto libero, che riporta a quello che stava raccontando Angelo».
Daniele: «Se poi approfondiamo: cosa vuol dire regolare? Che il suono è scandito da durate che valgono ognuna la metà dell’altra? Sono cose artificiali, un meccanismo per misurare la musica in modo molto arbitrario. Ciò non vuol dire che se le lunghezze delle pulsazioni che si usano siano di metri, dimensioni, diverse non siano intellegibili. Basta fare un passo indietro e guardare il macroinsieme di impulsi che si ripetono con una fase molto più lunga, e questo non pregiudica poi la risultante di una musica che, come direbbero i giovani, “groova”. È un po’ l’opposto di tutta la corrente musicologica che parte da Vincenzo Caporaletti che afferma che il groove parta da microframmenti di impulsi, chiamati grooveni!».

Farete concerti live?
Angelo: «Lo speriamo tantissimo, ma non è così semplice. Faccio un’osservazione senza polemica: frequento da anni il mondo del jazz italiano e ho imparato che c’è un ambito di jazz costruito per gli italiani e uno che italiano non è, preferibilmente americano o inglese. Noi facciamo una musica internazionale, non jazz italiano. Per un organizzatore di concerti, quindi, è più facile chiamare formazioni straniere invece degli Electric Sheep Collective. È una questione di mercato. Sono più di trent’anni che il jazz italiano è fermo. Non si esce da lì, se fai cose diverse da quelle canoniche sei fuori mercato. Per questo ero per non dichiararci, perché se ci ascolti non pensi che siamo italiani…».

Come vedete la musica in questo Paese?
Vincenzo: «Essendo io un pre-millenial, ho vissuto il passaggio del digitale partendo dalle vecchie fasi. Il mio modo di scoprire musica è andare ai concerti o parlare con i Dj, loro ne sanno tantissimo sugli ascolti, più di noi musicisti. La musica in Italia è condizionata dai cartelloni, dai media e, purtroppo, due anni di Covid mi hanno tolto una delle mie due fonti primarie di ricerca. Spotify ha buoni pro ma mostruosi contro, piuttosto utilizzo Soundlclouds, Bandcamp…».
Angelo: «Su SoundCloud c’è il rischio di imbattersi in un artigianato eccessivo…».
Andrea: «È bello anche quello, puoi ricavarne delle idee!».

I “Millennials” del collettivo come la pensano?
Riccardo: (scherza, ndr) «Millennials? Siamo del ’91, l’anno in cui è morto Miles Davis e c’era la Prima guerra del Golfo!».
Angeloni: «Condivido con voi alcune riflessioni ascoltate a un convegno: il livello della musica italiana non conosciuta, jazzistico e “para-jazzistico”, jazz non idiomatico per intenderci, è molto interessante. C’è tanto talento, gente che suona bene e ha tante idee fighe: è banale fare il nome di Manlio Maresca, che ruota attorno al collettivo. Lui come altri pubblica la sua musica, spende soldi per fare il disco, per mettere dei punti fermi. La scena musicale italiana in questo momento non ha niente da invidiare ad altre, prendi per esempio l’utopia berlinese…».
Daniele: «A livello di contenuti no, ma di possibilità e fruibilità sì!».
Andrea: «C’è più possibilità di suonarla all’estero perché c’è anche tanto più pubblico, disposto ad accogliere il nostro prodotto».

Non è anche una questione di educazione all’ascolto? La scuola non la dà…
Angelo: «È vero, chi sta sotto al palco fa la musica quanto chi sta sopra. La nostra musica è popolare. Il jazz è una musica del popolo per il popolo e noi ogni volta che saliamo sul palco non possiamo scordarci questo. Non significa che non possiamo suonare qualcosa di complesso, ma deve poter essere condiviso con chi ti ascolta. Quello che è successo in Italia è la combinazione di due fattori, lo sviluppo di una musica incomprensibile, diventata la nicchia di super esperti, e lo sviluppo di quella ammiccante, di coloro che la sera si incontrano all’Auditorium. Queste due strade divergenti tolgono spazio a chi sta in mezzo…».
Vincenzo: «In Europa, l’ho sperimentato di persona, soprattutto nelle zone anglosassoni, esistono molti livelli intermedi di musicisti e tantissimi appassionati. Da noi ci sono musicisti di buon livello, poi un vuoto, e quindi tanti appassionati e alcuni di questi strimpellano. Il musicista italiano che vuole proporsi è un mezzo eroe. Dopo gli studi al conservatorio il 90 per cento molla. Non dico che debba avere un posto garantito, d’altronde il musicista per sua definizione è un po’ cane randagio, vive l’instabilità. Però, questo sì, è necessaria un’educazione alla musica. In Svezia, dove si insegna canto fin da piccoli, non trovi un bimbo stonato!».

Metal, la lingua universale del dissenso

Fernanda Lira delle Crypta – frame da Dark Night Of The Soul

Heavy metal, se preferite, solo metal. Di questo genere s’è detto tanto, le origini, andando a scorrazzare in rete, sono le più varie, a chi credere e a chi darne la paternità non è così facile. Come i sottogeneri che ha prodotto, black, folk, death, prog, punk… cui far rigorosamente seguire la parola “metal”. Nonostante il passare degli anni e l’incanutimento di band storiche, il genere non accenna a tramontare, anzi, è sempre vivo e prospero, soprattutto in termini economici.

Prendiamo i Metallica, storica band borderline tra metal e rock classico: quest’anno Hetfield & Soci festeggiano i 40 anni e lo faranno, lo hanno annunciato con un tweet due giorni fa, con due concerti speciali, due date solo per la “Metallica Family”,i loro fan iscritti ai vari fanclub del mondo (guardate qui sotto).

Chi mi ha suggerito di parlarne è un amico che vi ho già presentato qualche tempo fa, Andrea Baroni, avvocato di professione, metallaro per estrema vocazione, collezionista di dischi per famelica voracità musicale. Ho sfruttato biecamente le sue conoscenze per parlarvene. Dunque, iniziamo. Per comodità, potremmo racchiudere il metal nella grande casa del Rock, ma in realtà il genere fa vita a sé. In questo luccicare di chitarre distorte, assoli raffinati, batteria che pompa a cassa doppia, voci gutturali, borchie e cuoio, abiti da macho, rimangono celebri le mise di Rob Halford, frontman dei Judas Priest, che dopo aver dichiarato la propria omosessualità, raccontò di essersi ispirato per i suoi capi ai circoli sadomaso di Soho, che frequentava assieme a Freddy Mercury. Il metal è stato raccontato anche nel bellissimo Sound of Metal, film del 2019 dell’americano Darius Marder al suo debutto cinematografico: quest’anno s’è portato a casa due statuette (miglior sonoro e miglior montaggio).

Quello che il punk è stato negli anni Settanta e Ottanta in termini politici e sociali più che musicali lo è il metal, soprattutto in questi ultimi anni. Nato dai disagi giovanili, il «sottoproletariato bianco di Birmingham e Detroit», come suggerisce Andrea, «Unanimemente, e in larga parte non a torto, considerato rozzo, retrivo, sessista e bianco, identificato con la destra più becera e da questa indubbiamente amato, ha finito, nel 2021, per diventare il genere che forse più di ogni altro unisce masse di fan di ogni colore, senza barriere culturali, soprattutto nelle zone in cui la repressione politica e sociale accende il desiderio di dissenso». Il metal è diventato il rifugio e la ragione di protesta per molti nel mondo. Si fa metal ovunque, in Iran, Israele, Marocco, Tunisia, Mongolia, Russia, Cina, Taiwan, Hong Kong, Africa, America Latina, America del Nord ed Europa, ça va sans dire, e via viaggiando. C’è un Arabic Metal, riconosciuto ormai come sotto-genere (vedere i tunisini Myrath, band prog metal, qui Believer). Ogni band ha i suoi motivi per protestare e rappresentare il proprio malessere sociale.

I tunisini Myrath – Frame da “Believer”

Il genere musicale conta anche il primo parlamentare metallaro della storia. Mi riferisco al taiwanese Freddy Lim, frontman dei Chthonic, band che ha raggiunto la notorietà mondiale con un album del 2008, Seediq Bale. Apro una parentesi su Freddy Lim: dopo aver fondato un partito, il NPP (New Power Party), nel 2016 ha trionfato alle elezioni entrando in parlamento e restandoci per un altro mandato, iniziato nel 2020. Una spina nel fianco per il Kuomintang party, gruppo politico che vorrebbe la riannessione dell’isola alla Cina.

Freddy rappresenta quell’essenza democratica e progressista che anima i giovani taiwanesi come i movimenti di protesta di Hong Kong e del Tibet, che non a caso appoggia con forza.  I Chthonic usano la musica, innestando nel metal tanto folk e alcuni strumenti tradizionali, anche se Freddy ha imparato un più che discreto Growl – la tecnica di canto gutturale, usata soprattutto nel black e death – per parlare dei diritti LGBT, della libertà di espressione e informazione, del movimentismo. Ascoltate Banished Into Death, brano dal disco Seediq Bale.

L’onorevole Freddy Lim dei taiwanesi Chthonic

Lo stesso fanno i mongoli The Hu, strumenti tradizionali che si fondono in un metal duro e visionario. Mettetevi in cuffia The Great Chinggis Khaan, storia e tradizione rilette in chiave metallara. Vale la pena ascoltarli anche in versione acustica per rendersi conto del genere di musica che fanno quando suonano “metal free”, Shireg Shireg.

The Hu – Frame da The Great Chinggis Khaan

Altro discorso per gli iraniani Out of Nowhere (per inciso, Out of Nowhere è anche un famoso brano scritto nel 1931 da Johnny Green e suonato da numerosi musicisti, Bing Crosby, Charlie Parker, Artie Shaw, Chet Baker…) che il 23 febbraio scorso hanno rilasciato Blind Crow. Uno stile molto “occidentale” per la band metalcore persiana. La musica occidentale è bandita dal governo iraniano, la loro attività diventa una pericolosa sfida all’ennesimo regime, un modo possibile e duro di manifestare il proprio dissenso politico e sociale. C’è dell’etico nel metal al di là delle apparenze, del gotico spinto, delle lingue di fuori e degli sguardi truci, di Satana descritto e dipinto sulle cover visionarie dei dischi, e delle tombe sollevate…

Concludo con una breve riflessione sul genere musicale. Ascoltando i fraseggi, i riff delle chitarre, la possenza della sessione ritmica, le basi orchestra delle tastiere, viene da pensare più che a una provenienza Blues, tipica del Rock, a un’origine classica della musica. L’uso delle scale è, in genere, il pentatonico molto usato nelle composizioni classiche, l’imponenza del suono è sinfonica, essere un musicista metal non è come essere un musicista rock o punk. Il metal si avvicina molto al prog-rock, è musica raffinata, ha passaggi difficili, esecuzioni da “primi della classe”, a prescindere dalle urla e dalla carica di potenza che per molti ascoltatori può risultare repulsiva. Nel black e death metal si tende a enfatizzare atmosfere cupe, gli accordi in minore sono d’obbligo. Non c’è spazio per la gioia ma solo per un mondo terribile popolato da demoni e mostri che rappresentano le nostre dissonanze terrene.

Tornando all’eccellenza dei musicisti, ascoltatevi, se vi capita, qualche brano suonato dal chitarrista Yngwie Malmsteen e capirete (il 23 luglio uscirà Parabellum, il suo ultimo lavoro, qui (Si vis pacem) parabellum – la storica frase di Vegezio, “se vuoi la pace, preparati alla guerra”). Ma anche quelli dei tedeschi Helloween, sui palchi da una vita, che il 18 giugno hanno pubblicato un nuovo omonimo disco. Si domanda Andrea: «I gruppi mongoli, cinesi arabi e africani sono solo emuli di un genere che rimane sempre uguale a se stesso? Per me no. Ci sono band che sembrano cloni di AC/DC e Metallica ma anche molti che producono qualcosa di nuovo, unendo le loro tradizioni musicali (quasi sempre molto ricche) con il metal. D’altronde, se esistono i Greta Van Fleet che imitano i Led Zeppelin perché nel Botswana gli Overthrust non possono prendere a riferimento i Deicide?».

Giusta osservazione. Anche la tecnica growl non è da tutti. Il suono gutturale che vede nello svedese Mikael Åkerfeldt degli Opeth o Johan Hegg degli storici Amon Amarth gli esponenti più famosi, ha catturato anche voci femminili come quella di Fernanda Lira delle brasiliane Crypta, band tutta al femminile nata nel 2019 (qui Dark Night Of The Soul da Echoes Of The Soul, album uscito l’11 giugno scorso).

Concludo: vi invito a farvi un giro “metallaro” questo weekend. Potreste scoprire  cose molto, molto interessanti. E rifornirvi di scariche extra di adrenalina!

1971, l’anno in cui la musica ha cambiato tutto: da vedere!

Mi sono assaporato 1971, The year that music changed everything, la docuserie di Asif Kapadia trasmessa da Apple Tv+. Racconta, senza tesi né costruzioni, ma con filmati – molti di questi mai visti prima – e testimonianze – mai in camera – un anno determinante per la musica, uno spartiacque tra il prima e il dopo, nel quale si sono concentrati una serie di eventi tragici, dolorosi ma anche spettacolari e dove la musica ha fatto da collante, indicando ai giovani di allora nuove strade, un nuovo mondo possibile.

Ispirato a 1971, Never a Dull Moment, libro uscito nel 2016 del critico inglese David Hepworth, pubblicato in italiano da Sur (collezione BigSur con il titolo 1971, L’anno d’oro del Rock), la docuserie riporta con immagini e tanta musica quello che in sostanza Hepworth sostiene su quel fatidico 1971: «il più febbrile, creativo e lungo anno di quell’epoca».

Infatti, di cose ne sono successe, e tante. Con una premessa simbolica dal punto di vista musicale: il 1971 è stato il primo anno senza i Beatles. Infatti, il capitolo iniziale della serie – è anche il più lungo – si sofferma sull’eredità musicale dei Fab Four, sulla politica degli anni Sessanta e sul perché i Settanta siano stati così dirompenti. Dal punto di vista sociale è stato rappresentato –  e giustamente – raccontando la cronaca dei fatti successi all’università di Ken State nell’Ohio: la morte di quattro studenti e il ferimento di altri nove da parte della Guardia Nazionale, durante le proteste contro la guerra in Vietnam. Neil Young dedicò all’accaduto una canzone, Ohio (famosa l’esibizione live al Massey Hall di Toronto nel 1971, dalla quale ne uscì un disco pubblicato soltanto nel 2007).

In otto capitoli per un totale di sei ore1971 sembra più la cronaca di un decennio che di un anno solo. Negli Usa governava Richard Nixon, la guerra in Vietnam continuava a essere la spina nel fianco per il presidente e l’establishment, il “make love not war” dei figli dei fiori era tramontato, sia in musica sia nei fatti, l’America stava facendo i conti con il Black Power, una radicale presa di coscienza diventata lotta di resistenza degli afroamericani; anche le donne iniziavano a rompere quell’apparente, melenso, status quo che prevedeva il marito al lavoro e le mogli devote, tutte casa e pulizia. In questa rivoluzione c’era pure la sentenza di Charles Manson e delle sue adepte assassine per i fatti di Cielo Branco e l’esperimento della prigione di Stanford: un gruppo di psicologi, diretto dal prof. Philip Zimbardo, simulò la vita in un carcere americano in tutto e per tutto. Il test doveva durare 15 giorni, si concluse dopo appena cinque giorni perché i volontari, studenti che simulavano prigionieri e carcerieri, dettero di matto. Sempre nel ’71 l’Orgoglio Gay iniziava a prendere forme organizzate. In mezzo a tutto questo fermento sociale e politico c’era una maggioranza silenziosa che assisteva attonita alla nascita di una controcultura giovanile che demoliva, come martelli pneumatici, le consolidate fondamenta sociali sia negli States sia in Europa.

E la musica regnava sovrana: uno strumento consapevole di questa rivoluzione che Gil Scott Heron riassunse in un brano storico The Revolution Will Not Be Televised – è anche il titolo del quinto episodio della serie – e nella meno conosciuta No Knock e Sly & the Family Stone con un altrettanto esplicito There’s a Riot Goin’ On. La musica come filo conduttore, catalizzatrice del cambiamento in atto. Ed ecco John Lennon, Bob Dylan e Marvin Gaye che arrivano dagli anni Sessanta con un rinnovato impegno politico: Marvin pubblica nel ’71 What’s Going On, che poi Rolling Stone eleggerà disco rock più bello di tutti i tempi. C’è la coscienza delle ingiustizie sociali, di un mondo inquinato, di un establishment corrotto e arroccato. Vi viene in mente qualcosa? Aretha Franklin raccoglie fondi e paga la cauzione all’attivista per i diritti civili Angela Davis, Bill Whiters irromope con la sua Ain’t No Sunshine

Nella narrazione, a filmati e brani musicali di pregio si alternano spezzoni di televisione dell’epoca, importanti per inquadrare il momento storico: dal reality rivoluzionario An American Family a Soul Train, il primo spettacolo televisivo dove gli afroamericani conquistano quell’affermazione musicale tanto cercata.

C’è un capitolo dedicato anche alla droga, l’eroina che consumava Sly Stone e faceva morire Jim Morrison a Parigi, mentre in una lussuosa villa in Provenza i Rolling Stones, fuggiti dal fisco inglese e poi incappati nella mafia marsigliese per colpa della droga, cercavano di registrare un disco, Exile On Main St., che poi diventerà un caposaldo della loro produzione, in una spirale di eroina, anfetamine e alcool di immani proporzioni. Ne parla sopra le immagini il giornalista di Rolling Stone Robert Greenfield, all’epoca al seguito della corte di Keith Richards e soci.

Si sperimenta tanto perché il ’71 è anche l’anno della tecnologia. Arrivano i primi strumenti elettronici, Pete Townshend degli Who ne viene attratto, li studia e li usa – vedi Baba O’Riley. Mentre Alice Cooper sperimenta un rock “visivo” con performance crude (vedi la sua impiccagione…), Marc Bolan frontman dei T.Rex getta le basi del primo Glam Rock. Un giovane David Bowie studia Cooper e si prepara a diventare il mito frequentando la Factory di Andy Wharol. E poi Lou Reed e Iggy Pop, ma anche, a Berlino, i mitici Kraftwerk

E ancora: la musica che unisce anche chi la pensa in modi opposti, vedi i primi skinheads inglesi e i giovani di origini afro che ascoltavano – e suonavano – il reggae di Bob Marley and The Wailers. Il 1971 vede anche la nascita dei cantautori che si sostituiscono nel gradimento dei giovani alle band, vedi Carol King con Tapestry, Joni Mitchell con Blue, Elton John che fa esplodere il Troubadour di Las Vegas nella sua prima tournée americana, Ike e Tina Turner che, assieme agli Staple Singers e ad altri grandi nomi dell’epoca vengono invitati a esibirsi ad Acca, in Ghana, al Soul to Soul Festival per celebrare il 14esimo anniversario della repubblica. E ancora: George Harrison che, il primo di agosto, organizza al Madison Square Garden di New York il mitico concerto benefico per il Bagladesh…

È necessario vederlo, vi assicuro. Perché, oltre all’importanza storica e anche al legame che unisce quella musica che prendeva forma e quella che verrà negli anni seguenti (non a caso l’immagine finale è quella di Billie Eilish), noterete un parallelo con la situazione attuale. Non per la musica, certo che no! Quello resta un anno irripetibile, ma per i problemi sociali e politici. Negli States gli afroamericani protestano ancora per gli abusi e le violenze, i soldati vengono ritirati dopo 20 anni dall’Afganistan (allora si chiamava Vietnam), l’orgoglio gay è più che mai necessario (guardate in Italia le discussioni e l’iter travagliato per approvare la legge sull’omotransfobia), le donne continuano a lottare per le discriminazioni e le violenze, il pianeta è mezzo moribondo per colpa nostra, la tecnologia ci fa del bene, ma a che prezzo… Paralleli nemmeno troppo nascosti. Speranze, ambizioni, frustrazioni si ripetono. Guardatelo con questi occhi e vi renderete conto dell’immobilità del tempo: sono passati 50 lunghi anni e i problemi sono praticamente gli stessi…

Tre dischi per il ponte/2: Toquinho e Yamandu Costa, Squid, Sons Of Kemet

Ed eccoci al secondo appuntamento. Oggi condivido con voi tre album molto diversi tra loro. In comune c’è la ricerca, sia che si tratti di MPB, Musica Popular Brasileira, o di un rock alternativo o di un jazz che ha il compito di comunicare, raggiungere il maggior numero di persone  possibile, e per fare ciò, parla e fonde linguaggi attuali, come l’hip hop e un rinato spoken word. Partiamo dunque!

1 – Bachianinha: Toquinho e Yamandu Costa (Live at Rio Montreux Jazz Festival) – Toquinho e Yamandu Costa

Due giganti della musica brasiliana e della chitarra. Due generazioni diverse, due origini diverse: Toquinho, 74 anni, è nato e cresciuto a São Paulo, Yamandu Costa, 41 anni, viene da Passo Fundo, città del Rio Grande do Sul. Il primo erede di un modo di suonare che vede in Vinicius de Moraes, con cui ha collaborato a lungo, e la bossa nova il suo naturale elemento. Il secondo viene dallo Choro, dalle bachianinhas, musiche popolari ispirate a Bach, che suo padre suonava, e da un tipo di musica “di frontiera”, gaucho, appunto, dove Brasile Argentina, Uruguay e Paraguay si fondono anche nelle note. Il live è stato registrato lo scorso anno, senza pubblico a Rio, causa pandemia. Il disco è uscito il 21 maggio. Se vi piace il suono della chitarra classica e della chitarra a sette corde, di cui Yamandu è un virtuoso, lo ascolterete tutto d’un fiato. Il repertorio scelto dai due, che per la prima volta incidono insieme, anche se si conoscono da molti anni, si basa sulla musica d’autore brasiliana. Sto parlando di Dorival Caymmi, per i musicisti del gigante sudamericano, un mito intoccabile: un brano che in realtà ne include due, rivisti il minimo possibile da Toquinho, apre l’album O Bem do Mar/ Saudade da Bahia, per proseguire con un altro classico, Asa Branca di Luiz Gonzaga sempre con Toquinho solo sul palco. Yamandu risponde con A Legrand, suo pezzo originale dedicato al musicista francese Michel Legrand. Insieme deliziano com Apelo, storico brano di Baden Powell. Bossa e choro, come nella Bachianinha n°1 di Paulinho Nogueira. Insomma, credo l’abbiate capito, se volete immergervi nel Brasile d’altri tempi questo è un disco che fa per voi. Tecnica, pathos, amore, confronto generazionale, gli ingredienti ci sono tutti. Ve lo consiglio!

2 – Bright Green Field – Squid

Cambiamo registro, totalmente. Dopo un paio di Ep e una serie di singoli, gli Squid, band di Brighton, sono usciti con il loro primo album il 7 maggio scorso. Come inquadrarli? Post punk? No, troppo semplice. Piuttosto musicisti creativi che fanno delle contaminazioni un loro punto di riferimento e forza. Se ascoltate Narrator, vi trovate il sapore dei Talking Heads, mentre in G.S.K. delle note acide di funk si fondono bene con la voce di Ollie Judge che, per inciso, trovo molto simile al primo David Byrne, mentre le chitarre diventano potenti, con inserimenti di tastiere post prog. 2010 ha un attacco morbido alla Steve Hackett dei Genesis e prosegue in maniera sempre più decisa, per arrivare a un metal bello denso. Piacciono? Li trovo interessanti, una musica che potremmo sicuramente inserire nella grande casa del Rock, finalmente diversa, un bell’esercizio di stile che fa ben sperare. Va ascoltato più volte per coglierne le diverse sfumature. Non licenziatelo al primo passaggio, fareste un grosso errore…

3 – Black To The Future – Sons Of Kemet

Dietro Sons Of Kemet si nasconde Shabaka Hutchings, un sassofonista e clarinettista londinese che si divide fra tre sue creature, i Sons Of Kemet, appunto, con cui fa un jazz/hip hop, i Comet Is Coming con i quali si diletta nel soul prog, e i Shabaka and the Ancestors, gruppo con cui suona spiritual jazz. Ci sono altri jazzisti che fanno hip hop tramite loro alter ego. Ad esempio, il trombettista americano Leron Thomas che si trasforma in Pan Amsterdam (ve ne ho parlato nell’ottobre dello scorso anno). Torniamo a Black To The Future: Hutchings vuole parlare di memoria collettiva sulla questione razziale, e lo fa attraverso una musica complessa, sempre molto spinta. Suona, ma le note qui sono politica, cerca di unire i vari filoni della diaspora africana, quello americano e quello inglese. Chiede, come nota Hubert Adjei-Kontoh, il critico che ha scritto la recensione del disco per Pitchfork, uno sforzo di tutti, un impegno comune per parlare dell’oppressione e della storia che attanaglia gli africani. La musica segue esattamente questo. I Sons Of Kemet sono in quattro, due fiati e due percussioni, eppure la musica che ascoltate sembra uscita da una superband. La tuba suonata da Theon Cross fa il lavoro del basso, Shabaka Hutchings “canta e ricama” con il sax e il clarinetto, le percussioni di Tom Skinner ed Edward Wakili-Hick pompano richiami e tempo creando un pattern d’alta combustione. In Pick Up Your Burning Cross, per esempio, agli strumenti si aggiungono le voci di Moore Mother, musicista, poetessa, attivista di Philadelphia, e di Angel Bat Dawid, jazzista americana. Come in Hustle, dove il rapper inglese Kojey Radical canta a ripetizione Born from the mud with the hustlе inside me… Si chiude con Black (più cristallino di così!) con l’intervento, in perfetto spoken word, del poeta Joshua Idehen. Un crescendo tragico, duro, un pugno nello stomaco. Qui i primi versi…

Black is tired
Black would like to make a statement
Black is tired
Black’s eyes are vacant
Black’s arms are leaden
Black’s tongue cannot taste shit
Black’s stomach cannot compress death
And black would like to state that black is not a beast of myth
To be slain in a fable
Recounted atop a round table
Surrounded by blue-collared brave men
Black has demands
Black demands baton-proof bones and bullet-resistant skin
Black thinks no person that’s trigger nervous deserves a gun
Much less a badge…

Memento/ Bob Marley e il suo magnifico lascito

Particolare del Bob Marley Museum di Kingston – Foto Beppe Ceccato

Mancano 21 giorni al 39esimo anniversario della morte di Bob Marley, uno degli artisti più iconici e fortemente marcanti la storia della musica. Quest’anno, il 6 febbraio, a Kingston l’artista è stato celebrato per il 75esimo anniversario della nascita. In realtà, c’è un’altra data, forse quella più significativa per ricordarlo: il 20 aprile 1981 il governo giamaicano decise di premiare il figlio più famoso (e anche molto scomodo) dell’isola con il Jamaican Order of Merit, riconoscimento dato a chi si distingue nella scienza e nelle arti. Onorificenza dell’ultimo minuto: Marley se ne andrà per un tumore alla testa l’11 maggio. Nel 1978, nel famoso One Peace Love Concert, organizzato a Kingston per contribuire a mettere fine alla guerra civile che stava massacrando il Paese, fu proprio Marley, dal palco, ad obbligare i leader dei due partiti Manley e Seaga a stringersi la mano. La storia ci racconta che le violenze continuarono e i due capi politici si rividero solo al funerale dell’artista.

Se esistono delle linee di confine che definiscono la vita di un popolo, di uno stato, di una società, ebbene, una di queste è stata proprio quel ragazzo esile nato in un paesino, Nine Mile, tra il verde delle colline del distretto di Ocho Rios, da padre bianco e madre nera, povero e ribelle, intelligente e riflessivo, che ha cambiato per sempre la vita dei jamaicani. Quando atterri sull’isola lo vedi dappertutto, come Che Guevara e Castro a Cuba, murales, magliette, gadget utili per il turismo, libri… La sua faccia, come quella del Che, è un’icona, fa parte della storia del Novecento. Profondamente devoto al culto rastafari, profondamente convinto che i poveri dovessero avere la forza di alzare la testa, è stato anche un leader politico suo malgrado, la forza dirompente della sua musica è entrata nei palazzi del potere, quella musica che, dopo di lui, non è stata più la stessa. Bob, il re del levare, l’uomo che sapeva toccare le corde della gente su problematiche difficili, cresciuto a Trenchtown, quartiere ghetto di Kingston, la capitale, ha finito i suoi giorni, ad appena 36 anni, in una grande villa trasformata in quartier generale, al 56 di Hope Road, vicino al palazzo del Governatore, dal ghetto ai quartieri alti. La sua casa, diventata un museo (60mila presenze l’anno), era aperta, si suonava, registrava, pianificavano concerti, si discuteva di politica, di sociale. Qui, nel 1976 tentarono pure di assassinarlo: ci sono ancora i segni delle pallottole sul muro. Noi italiani lo ricordiamo per il mega concerto di San Siro a Milano tenutosi il 27 giugno del 1980 (con replica il giorno dopo a Torino). Allora tutti i giornali parlarono di una Woodstock italiana. Sul palco prima di lui salì anche Pino Daniele. Oreste del Buono, giornalista del Corriere della Sera, certo non privo di qualche pregiudizio, così scriveva un paio di giorni dopo l’evento: «Fumerà erbe giamaicane di ogni tipo, predicherà una religione bizzarra, non si laverà i capelli da mesi, avrà un numero eccessivo di mogli, guadagnerà moltissimo, ma è uno straordinario professionista, capace di affascinare centomila persone per due ore smezzo filate. Magari il calcio disponesse di uno così. Ci accontenteremmo di novanta minuti, anche di quarantacinque, via».

Bob Marley Museum, Kingston, dettaglio della statua dedicata all’artista nel giardino

Commemorare il Jamaican Order of Merit puntato sul petto di Bob Marley oggi significa guardare al suo lascito artistico. Il reggae, come tutta la musica, si evolve, è diventato più elettronico, eccessivo per certi aspetti. Ma l’importante è che molti giovani continuino a dedicarvicisi con passione. Ricordo che la nostra guida alla casa museo ci dimostrò, intonando qualche verso, come anche lui suonasse e cantasse reggae. «Lo abbiamo nel sangue», disse. «È una parte di noi, del nostro esistere come giamaicani».

Tra i tanti musicisti che si applicano con dovere al reggae, provate ad ascoltare due ragazze, Kelissa e Kim Nain, più commerciale, ma anche Jesse Royal, trentenne rasta, che il 13 marzo scorso ha rilasciato un singolo Natty Pablo, propedeutico a un nuovo album, dopo l’interessante Lily Of Da Valley del 2017 – ascoltate Always Be Around. Anche il non più giovanissimo Chezidek, 46 anni, cantante che lavora spesso in Europa, pubblica tra quattro giorni con i The Ligerians, gruppo reggae francese, il suo nuovo lavoro Timeless. Il 10 aprile ha rilasciato, sempre con i The Ligerians, un singolo, Babylon Virus. A questo punto non possiamo dimenticare un artista di casa nostra, il siciliano Alberto D’Ascola, in arte Alborosie. Vive da anni in Jamaica dove lavora e “alleva” nuovi adepti al levare. Insomma, uno quotatissimo nel mondo del reggae isolano. Dall’ultimo suo lavoro, Alborosie Meets Roots Radics: Dub for the Radicals uscito agli inizi del 2019, un’altra faccia del reggae, non meno interessante, una ricerca del ritmo primario, senza fronzoli, il basso suonato da Flabba Holt che fa da padrone assoluto.